Ode alla nebbia
«La smetti, per favore?»
«Di fare che?»
«Di pensare ad altro. Ti prego, tieni botta altri dieci minuti che sistemiamo la questione della Piazza, e poi abbiamo finito.»
«Okay. I tiratori sono a posto, no?»
«Sì, pure le divise. Manca solo da capire se in borghese ne mettiamo quaranta o cinquanta. Da Mestre, Dolo e Mira ne arrivano trenta, ma noi quanti siamo?»
«Se contiamo me e te mi pare che arriviamo a ventuno. Ce la facciamo, sì. Se unisci carabinieri, volontari e pompieri siamo anche più dello scorso anno.»
«Speriamo bene.»
«Abbi fiducia. Al massimo... un bel boom e finiamo tutti di soffrire.»
«Ma che cazzo, Aure, possibile che tu sia sempre così cinico?»
Marco Aurelio Scarpa strinse i denti in un ghigno, poi scrollò la testa. «Dai, Etto. Ogni tanto una battuta non ti accoppa.»
«Commissario, le sue battute non sono mai divertenti» disse Ettore, le labbra tese in una smorfia di ammonizione. «Mai.»
Aurelio rise, sbattendo le palpebre sopra gli occhi incredibilmente blu. «Hai ragione, perfettamente ragione.»
Il collega si alzò dalla sedia e si contorse in una mossa quasi felina, che gli fece scrocchiare varie giunture - collocate presumibilmente tra il collo e l'osso sacro. «Allora domani alle otto.»
Aurelio annuì, sicuro.
«Bene. Io vado a casa. Mi raccomando, riposati: mi servi sveglio.»
«Certo.»
Ettore si bloccò sulla porta. Voltandosi, si espresse con un sorriso incerto. Sembrava indeciso sul dire o meno qualcosa. Il commissario sventolò un polso, facendogli cenno di parlare.
«Salutami Emma» bofonchiò allora quello, prima di uscire dall'ufficio.
Aurelio stirò la schiena, mentre un sorriso andava a tendergli involontariamente la mascella: aveva un nido caldo che lo attendeva, a fine turno. Un nido di parole e risate, di calore e baci, di lenzuola pulite e cassetti ordinati.
Riportò l'attenzione sulla scrivania, deciso a ricontrollare turni e postazioni per la giornata successiva. Il carnevale era sempre uno dei momenti più difficili dell'anno: doveva assicurare sorveglianza - anche armata, visti i periodi non tranquilli in Europa e nel mondo - alle ventimila persone che avrebbero affollato Piazza San Marco per dare il via ai festeggiamenti.
E controllare un ambiente così vasto e caotico era come cercare di fare un puzzle con pezzi che cambiavano ogni secondo: praticamente impossibile.
Nonostante ciò, il compito ricadeva in gran parte sulle sue spalle, ed era lui a doversi occupare della gestione complessiva. Ciò significava settimane di riunioni con gli altri corpi, giornate intere passate a revisionare piantine e orari di turnazione, chiamate del sindaco ogni ora. Una gran rottura di balle, in sostanza.
Meglio darci dentro, così torni prima di mezzanotte. Emma ti aspetta.
***
Aurelio entrò in casa e si tirò dietro con cautela la porta d'ingresso. Si liberò delle scarpe e - ancora perfettamente vestito - si diresse in cucina. Un bicchiere di whisky, ghiaccio, e subito fuori nel terrazzo.
La notte era densa di nebbia, scura, gelata, come lo erano state tutte le altre, quella settimana. Al di là del Canale, riusciva a malapena a distinguere la sagoma tozza della Salute. Poi nient'altro: la lattiginosa compagna dell'inverno veneziano aveva stretto nella sua morsa ogni edificio dell'altra riva.
Si sedette sulla sedia di vimini che Emma aveva insistito per posizionare lì, adattandosi in men che non si dica alle sue nuove abitudini di padre orfano di figlio: lo lasciava stare, quando lui si rintanava fuori per pensare.
Solo ogni tanto gli si accostava, senza fare un fiato, e rimaneva a guardare assieme a lui il profilo dei tetti all'orizzonte, il bianco della pietra d'Istria dei palazzi, i battelli pieni di gente che andavano e venivano tracciando pallide scie sul pelo d'acqua.
Lo lasciava pensare in pace, riflettere senza interruzioni, ma si manteneva lì, presente, vicina, come a fargli sentire che c'era di nuovo anche lei, nella sua vita.
E c'era, Emma, eccome se c'era: panni puliti, camicie stirate, piatti pronti e caldi. La sua presenza era palpabile ovunque, ormai. Le sue braccia sottili lo intrappolavano spesso in lunghi abbracci, prima che andasse a lavoro o quando si infilava nel letto. Due piedi freddi erano tornati ad accostarsi alle sue gambe, cercando riparo; due mani piccole e dolci erano tornate a carezzargli il torace, percorrendo solchi mai dimenticati; due occhi scuri erano tornati a osservarlo di sottecchi, abbandonadosi in sorrisi di sguardi che sapevano di comprensione e intimità.
Emma era tornata da lui, lui era tornato da Emma. Erano tornate le notti d'amore, caldo, profondo, amalgamante. Ed erano tornati i pranzi in compagnia, le domeniche d'inverno a passeggiare sulle spiagge del Lido, le spedizioni all'Ikea in terraferma per comprare futilità.
Erano tornate tante cose, e si facevano sentire così tanto che quando Emma si assentava per qualche giorno - viaggi dovuti al lavoro - Aurelio faticava a ricordare dove trovare il latte o come accendere la lavatrice. Si sentiva di nuovo perso, se Emma non c'era. Perso e solo.
Era in quei momenti che il dolore tornava ad avere il sopravvento, a mangiargli lo stomaco e il cervello. Era allora che Matteo ricompariva, chiamandolo papà e sussurrandogli parole incomprensibili, ma piene di un amore che non sarebbe mai tornato in vita. Era in quegli istanti che Aurelio non reggeva più, e beveva whisky sul terrazzino, da solo, con la nebbia unica compagna.
La nebbia lo avvolgeva, lo sfiorava, gli si strofinava addosso lasciandolo intirizzito e debole. Ma l'abbraccio di quelle nuvolette lattee era per Aurelio un modo di riappacificarsi con se stesso e con la sua vita: era un modo di riallacciarsi a Venezia, di sentirla dentro, e di ricordare che il buio esisteva, che lui ci era sprofondato sperando di non rialzarsi mai più.
E in quelle notti insonni, piene di nebbia e alcool, un altro ricordo si aggiungeva alla catasta di pesi da portare con sé: era il ricordo di uno sguardo scuro, di una chioma bionda, di un neo sull'inguine e di un sorriso così dolce da fargli torcere le budella.
E quel ricordo non ne voleva sapere di andarsene, poi: gli rimaneva addosso, dentro, per intere settimane. Lui ci provava in ogni modo, a scacciarlo, a farlo uscire, a espiare, ma quello rimaneva lì, incastrato tra il cervello e le vene. E non gli rimaneva altro da fare che accettarlo, riconoscerlo e riviverlo, ogni volta come la prima.
Era capitato anche due giorni prima. Aurelio aveva sentito del terremoto a Shangai al telegiornale, mentre cenava con Emma.
Il cuore gli si era rattrapito all'istante, colto da una paura più grande di lui che presto era diventata puro terrore.
Aveva finto di aver dimenticato una cosa importante, era corso in bagno e aveva digitato sul cellulare un numero che ricordava a memoria ma che non faceva da troppo tempo. Le dita tozze scivolavano sul vetro, tremanti e fredde, e lui non riusciva a pensare a nulla, se non alla disperazione più profonda che avrebbe mai potuto immaginare. La chiamata era andata a vuoto: non una volta, dieci volte. Dieci immense, enormi, disperate volte.
Aurelio era uscito dal bagno, aveva detto alla moglie che c'era un'urgenza, che sarebbe tornato presto, ed era corso a prendere il battello notturno.
Venti minuti dopo, fuori dal cancelletto, mentre suonava il campanello, aveva temuto un attacco cardiaco: non si era mai sentito così male, a sua memoria. Mai aveva provato un tale senso di vuoto e inutilità. Mai così tanta angoscia. Non dopo la morte di Matteo, almeno.
Una volta salito da Ettore, gli si era inginocchiato di fronte, aveva unito le mani e iniziato a piangere, tentando di cacciare i fantasmi che gli infestavano gli occhi. Gli aveva afferrato la camicia, lo aveva strattonato, urlando in silenzio parole che non aveva il coraggio di dire ad alta voce.
Lui lo sapeva, che Berenice era a Shangai in quei giorni. Lo sapeva perché sbirciava il suo profilo Instagram ogni mezz'ora, alla costante ricerca di un sorriso o di un guizzo d'occhi che gli ricordasse la ragazza che gli aveva rubato il cuore. La seguiva costantemente, con un profilo falso, aggiornandosi sui suoi spostamenti quando lei li pubblicava per pubblicizzare la campagna di National Geographic di cui faceva orgogliosamente parte. Quindi Aurelio lo sapeva, che lei era lì, a Shangai. Ora. Con il terremoto più potente mai registrato nella regione.
«È a Shangai. Non mi risponde.»
Il volto di Ettore si era contratto con uno spasmo tremendo, che aveva espresso in una frazione di secondo tutto il dolore che aveva invaso anche lui. «Provo io.»
Due ore e ottanta telefonate dopo, il bip della linea si era fatto finalmente sentire, sul telefono del commissario.
Aurelio, con l'orecchio attaccato alla plastica, aveva stretto con forza il tavolo davanti a sé, le nocche bianche da far spavento e il labbro tagliato dalla morsa dei denti.
«Marco.»
Un sussurro, flebile ma deciso.
«Bice.»
«Va tutto bene.»
La chiamata era finita lì, chiusa dalla donna a cui lui non aveva risposto, mesi prima, quando gli aveva dichiarato il suo amore in una mail piena di coraggio e di voglia di vita. Lui non le aveva risposto. Non poteva, non nel momento in cui era tornato a convivere con la moglie, cercando di affondare nel passato che ricordava così dolce e felice.
Ma adesso, chiuso fuori nel terrazzo della casa in Giudecca che finalmente erano riusciti a comprare, Aurelio rifletteva sul fatto che non c'era rimasto niente di felice, in quella vita passata. Lui era cambiato troppo, per trovarsi a suo agio lì dentro. Come quando si dimagrisce, e i vecchi jeans ci stanno troppo larghi: così ad Aurelio quella vita stava troppo larga.
Era troppo, avere una moglie, due stipendi, una casa sua, un mutuo, un piccolo terrazzo con giardino, la previsione di comprare un cane per sopperire alla mancanza del figlio che gli era morto tra le braccia e lo aveva fatto morire a sua volta. Troppo. Non serviva più a nulla, tutto quello. Non serviva più, senza Matteo. Non serviva più, con un Aurelio cambiato, dimagrito. Non serviva più a nulla, quel ricordo di una vita migliore. Se non a farlo stare inesorabilmente peggio.
«Ehi, sei tornato.»
La voce di Emma lo riscosse. Si voltò a guardarla, stretta nella camicia da notte troppo leggera per quel freddo inverno. Le sorrise. «Sì. Torna dentro, si gela. Arrivo in un minuto.»
Emma sorrise a sua volta, si chinò per lasciargli un bacio a fior di labbra e poi tornò sui suoi passi. «Ti aspetto a letto, amore.»
Aurelio la lascio entrare, poi trangugiò gli ultimi sorsi di whisky e fissò lo sguardo nella nebbia.
Avrebbe voluto disperdersi in quel bianco sporco. Perdersi per non ritrovarsi più. Vagare per sempre, nei banchi di nebbia, scoprendo il mondo e portandosi lontano da lì.
Ma sapeva che animum debes mutare, non caelum: devi cambiare l'animo, non il cielo.
Lui a Venezia ci era intrappolato, e ci sarebbe rimasto per sempre.
Per l'animo... non c'era cura. Né mai ci sarebbe stata.
Lo sapeva. Lo aveva saputo dal primo momento. Lo sapeva, quando era tornato con Emma. Sapeva che un vecchio, amato caelum non gli avrebbe dato indietro il suo vecchio, amato animum. Ma ormai non gli rimaneva nulla da fare, se non conviverci.
✼ ✽ ✼ ✽ ✼ ✽ ✼ ✽ ✼
In questi giorni una persona mi ha fatto parlare di Aurelio, ed è tornata - prepotente - la voglia di scrivere di lui.
A chi già lo conosce: ve ne lascio un pezzetto. Vi saluta e abbraccia tutti. Gli mancate da matti.
Per chi invece l'ha incontrato oggi per la prima volta: Marco Aurelio Scarpa, commissario veneziano, è il protagonista di una mia storia, "Il volo dell'angelo". Se vi è piaciuto e volete saperne di più, su di lui, fateci un salto.
Baci baci
Elly
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