Illusio - Parte Prima
Ho sempre desiderato quella casa rossa sulle colline.
La vidi per la prima volta quando ero bambino; costringevo mia madre ad allungare la strada per ammirarla, ogni giorno. Tuttavia, riuscii ad acquistarla quando la pelle cominciò a raggrinzire, usando i soldi della pensione che avevo scansato per esaudire le mie ultime volontà.
Le mie povere gambe facevano fatica a salire le rampe di scale, mentre la poca memoria rendeva difficile muovermi fra le cantine. Solo lo studio, il salotto e la cucina erano facilmente accessibili. Quel giorno, mia moglie stava cucinando un arrosto succulento, io invece leggevo il giornale con il sigaro in bocca, riempendo la stanza di fumo.
«Basta», disse lei. «Abbi la premura di smettere almeno, ormai non sei più un giovane uomo. Sei quasi arrivato in fondo a questo cammino».
«Ne ho sempre di anni da vivere!» replicai, osservandola senza farmi vedere da un buco che avevo fatto nel giornale. In realtà leggevo sempre lo stesso per ammirarla di nascosto e lei lo sapeva... Ma era impegnata a tal punto da non farci più caso. La visione più bella per me oltre la casa era proprio lei, la mia bellissima moglie. Mi aveva sopportato un'intera vita nonostante gli alti e i bassi, fino a realizzare il nostro sogno più intenso. Avevamo acquistato quella casa dalle pareti rosse per finire la nostra vita insieme, per arrivare in fondo mano nella mano. Ormai, da anni, pensavo al momento in cui la morte mi avrebbe chiamato.
Mi alzai dalla poltrona lentamente, sentendo le ossa scricchiolare; avevo bisogno di bere una bottiglia di vino rosso. Dovetti recarmi in cantina per prenderne una. Nelle viscere della mia abitazione riposavano vini costosi che avevo racimolato durante l'esistenza. Uno di questi era un Chianti molto vecchio, così datato che lo consideravo quasi un mio coetaneo. Aprii il portone di legno dai cardini arrugginiti e mi infiltrai nel buio con la torcia tascabile, sentivo solo il rumore dei miei passi e l'umidità pungermi la pelle. In fondo alla stanza, nell'oscurità, una melodia rimbombò improvvisamente. In cantina non tenevo solo vini, ma c'erano anche vecchi oggetti che avevo dimenticato, fra cui un antico grammofono appartenuto a mia madre. Le mie orbite cadenti si spalancarono. Ricordai immediatamente quella canzone tipica alla mia infanzia; mio padre usava suonarla roteando la manovella dello strumento per ore intere. Mi avvicinai esitando, ma scoprii che l'usura, l'umidità, o qualsiasi cosa fosse, l'aveva fatta muovere casualmente proprio in quel momento. Ricordai bellissimi istanti ormai lontani che quasi non ricordavo più, poi, decisi di ascoltarla ancora girando la leva nel buio, da solo. Era sempre gradevole per una persona della mia età rimembrare.
Subito dopo risalii le scale, mentre la mano destra si reggeva alla ringhiera per spingermi fino alla sala. Mia moglie era ancora impegnata con l'arrosto, ma io volevo bere prima che il vino si impolverasse per l'eternità, abbandonato nella cantina di una casa che sarebbe stata presto dimenticata. Non avevamo eredi, non avevamo figli e nemmeno nipoti o fratelli; la vita ci portò via tutto e potevamo contare solo su noi stessi. Mi ritengo fortunato di essere ancora in salute, altrimenti avrei dovuto usare la pensione per pagare la casa di riposo, e conoscendomi, non avrei passato del tempo assieme ad altri vecchi sconosciuti, che sicuramente si sarebbero addormentati di fronte alla televisione senza lasciarmi il telecomando.
Arrivò la sera e ci coricammo. Le coperte erano vecchie, provenivano dalla scorsa abitazione, ma erano le più comode che avessi mai avuto. Profumavano sempre di lavanda e venivano lavate quasi ogni giorno dalla mia cara moglie, che appena si stendeva sul materasso prendeva sonno. Quella sera sentii dei rumori in cantina, cosa comune in una vecchia casa, tuttavia ero stufo di non dormire a causa loro e decisi di afferrare la torcia per andare a controllare. La mia metà ormai giaceva nel mondo dei sogni, perciò mi affrettai per non svegliarla. Le stanze di notte erano fredde, l'umidità stava divorando la carta da parati che in alcuni punti era sfumata in un rosa malato; e la cantina faceva accapponare la pelle, soprattutto di notte.
«Ancora quella melodia?» Commentai mentre scendevo le scale, udendo che il grammofono si stava muovendo lentamente, distorcendo le note e rendendole poco gradevoli. Aprii il portone, per poi puntare la luce verso lo strumento, che timido si arrestò su un fiacco Do basso. Pensai che i rumori che sentivo da anni fossero causati da quel maledetto grammofono difettoso, quindi decisi di legare la leva con un cordino, in modo che il meccanismo a carica manuale non potesse muoversi ancora. Pulii le mani dalla polvere, poi tornai indietro nel buio, arrancando per cercare le scale. I miei occhi non riuscivano più a distinguere le sagome come un tempo, di fatti urtai rovinosamente su un vecchio mobile e caddi a terra in un cumulo di vecchi stracci. La torcia rotolò nel buio fino alla parete illuminando il grammofono impolverato. In quel momento vidi la corda spezzarsi, mentre la leva cominciò a muoversi ossessivamente fino ad aumentare la velocità di quella canzone: sussultai, ma ero sicuro che il meccanismo fosse soggiogato dall'usura. Mi aggrappai a ciò che avevo intorno per alzarmi, impiegai almeno cinque minuti per farlo, intanto la canzone rimbombava nelle pareti e nonostante i miei timpani sentissero poco, udivano quel suono fastidioso perfettamente. Mi avvicinai furibondo per rimuovere la leva, gettandola lontano, poi presi il vinile e lo adagiai in un angolo della stanza. Non volevo sentire altri rumori molesti durante la notte. Non volevo sentirli mai più.
Il giorno dopo affrontai gli impegni di un anziano: colazione, giornale, sigaro, vino e pranzo. Mia moglie cucinò polenta e formaggio. Il pomeriggio lo passammo in giardino fra i resti di una vecchia vigna ormai in disuso che io non avrei saputo amministrare. Sentivamo il cinguettio degli uccelli e lo squittire delle talpe, che facevano capolino dalla terra. Dietro alla collina sui cui sorgeva la casa c'era un bosco di querce e castagni, quindi se eravamo fortunati potevamo ammirare anche la fauna selvatica; un giorno vedemmo addirittura un cervo.
Quando arrivò la sera ci coricammo, ma io decisi di leggere; ero abituato a non dormire e non avrei chiuso occhio prima della mezzanotte. Quasi sentivo la mancanza di quei molesti rumori dalla cantina e improvvisamente, prima dello scoccare dell'orologio a pendolo, li udii di nuovo. Stavolta ero sicuro che non fosse il grammofono, poiché l'avevo smontato, tuttavia scesi comunque per controllare che non fosse entrata una volpe o un'istrice. Spalancai il portone, mentre il fascio luminoso della torcia cadde sullo strumento musicale che giaceva silenzioso nel suo angolo umido; in seguito cercai di captare la direzione di un altro rumore, che ora assomigliava alla rotazione di una cinghia. «La Singer!» esclamai. E di corsa, per quanto un vecchio possa correre, percorsi uno dei corridoi che separava i vari locali sotterranei, fino a giungere nella stanza in cui riposavano gli oggetti da cucito di mia madre. La vecchia macchina a pedali era in funzione. Nonostante non ci fosse stoffa sotto l'ago, questo puntellava l'aria compulsivamente. La torcia illuminò la ruggine, poi mi accorsi che stava lavorando talmente freneticamente che avrei potuto farmi male se avessi provato a fermarla. Che stava succedendo? Ero sicuro che quel vecchio oggetto non avesse abbastanza olio negli ingranaggi per funzionare ancora, e senza presenza umana non avrebbe potuto muoversi. Mi spaventai, pensai addirittura che la mia amata casa fosse infestata dai fantasmi. Mi avvicinai di soppiatto, cautamente, e reggendomi al muro puntellai il piede sul pedale arrestando la sua corsa. Quando il silenzio strisciò nell'entroterra, dal piano di sopra sentii altri rumori ed ero sicuro che mia moglie stesse beatamente dormendo. Decisi di lasciar perdere la Singer per tornare in camera da letto, stanza in cui, come previsto, riposava mia moglie. Mi guardai attorno, feci un giro di controllo e mi assicurai che le porte fossero chiuse. Non capivo perché i rumori si stessero facendo insistenti nell'ultimo periodo, ma avevo l'amara sensazione che la morte fosse vicina. Mi lasciai cadere sul letto e mi addormentai di colpo.
Il giorno dopo non trovai mia moglie in cucina. Da tempo ormai era divenuto il suo unico regno e passava gran parte delle giornate, tutte uguali, a inventare nuove ricette o a migliorare quelle che già conosceva. La sua assenza mi fece preoccupare. Adagiai la mano sul petto pregando Dio che non mi portasse via in quel momento, mentre il battito accelerò. Avevo così paura della morte da vederla ovunque; probabilmente non riuscivo a dormire a causa del terrore di non svegliarmi la mattina seguente.
Aguzzai la vista sbirciando in ogni stanza, poi affinai l'udito e percepii il compulsivo movimento della macchina da cucito. «Ancora?» borbottai nel silenzio. Stavolta scesi di fretta rischiando di inciampare, fino a colpire il portone della cantina con la punta della pantofola, mentre minaccioso mi dirigevo verso la stanza. Sbuffavo, e non ero così arrabbiato da almeno cinque anni; in quegli istanti temevo che il cuore si fermasse per l'accumulo d'eccitazione. Varcai la soglia con la luce che tenevo fra le mani succube del mio costante tremolio, e quando lanciai un'occhiata verso la Singer vidi la mia bellissima moglie. Era ricurva sulla macchina, indaffarata, che cuciva una mia vecchia camicia non indossata da almeno trent'anni; non si accorse della mia presenza. Conoscendo il suo carattere e la sua sorprendente dolcezza, pensai che volesse farmi un regalo per portare a galla un ricordo ormai dimenticato. Rimasi sul ciglio dell'entrata poggiandomi alla parete, osservando i movimenti precisi e calcolati, sembrava che stesse danzando.
«Che fai?» Le dissi dopo un po'. «Sei sempre più bella». Il romanticismo mascherato da anni di burbera vecchiaia venne a galla.
Lei si voltò verso di me: «Come mai sono qui?» I suoi occhi fissavano il vuoto e io giunsi all'amara conclusione che temevo da tutta la vita: si stava ammalando. Con grazia feci finta di niente, le dissi che stava semplicemente cucendo una mia vecchia camicia, ma notai quanto non stesse bene. La aiutai a salire le scale e la riportai in cucina, dove finalmente sembrò trovare un compromesso con la sua mente ormai scalfita dall'anzianità. Ripensai ai vecchi tempi, dove le preoccupazioni erano diverse e meno opprimenti; quando il problema principale era trovarsi un lavoro; quando si tornava a casa e potevamo cenare per poi passare una nottata insieme, sotto le coperte. Ormai avevamo perso ogni passione carnale, ogni desiderio e voglia di stuzzicarci. Esisteva solo l'amore vero, il puro sentimento di gioia e affetto che si espandeva ogni volta che guardavo i suoi occhi celesti. Anche se si fosse ammalata avrei speso gli ultimi anni della mia vita ad accudirla, almeno finché avrei potuto.
Giunse la sera e lei cucinò più lentamente del solito, tuttavia creò ottime pietanze. Stavolta la accompagnai a letto. Con tutta la tensione che avevo accumulato decisi di rimanere sulla poltrona di fronte alla tv, con il mio sigaro acceso. Guardai i tremendi programmi di una generazione in declino e brontolai più di una volta di fronte a conduttori che guadagnavano sulle disgrazie altrui, odiavo quel tipo di spettacolo. Accesi un altro sigaro e la televisione si ingrigì, lanciando linee confuse sullo schermo.
«E' di nuovo l'antenna», commentai fra me e me. Non avevo intenzione di prendere la scala in cantina per salire sul tetto di notte, ero troppo vecchio e le ossa mi facevano male. Mi diressi verso la camera da letto per coricarmi ma lei non c'era. Il mio cuore pulsò di terrore. Cosa le era accaduto? Non potevo lasciarla da sola per troppo tempo, altrimenti si sarebbe potuta ferire. Cercai in ogni stanza, di nuovo, e dopo essermi accorto che la porta della cantina era aperta, mi preparai per il viaggio nell'oscurità. Andai così di fretta che dimenticai di prendere la torcia, mentre la luce della luna filtrava dalle grate delle piccole finestre.
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