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Edgar (3)

- Cos'è successo? -.
- Si è accasciata al suolo. Essendo un medico, posso affermare con certezza che si tratti di avvelenamento - avevo la voce molto calma: l'ufficiale rimase basito.
- Mi scusi, lei è l'unico testimone? - La domanda proveniva da un volto sconosciuto, che apparteneva probabilmente ad un altro poliziotto.
- No, ci sarebbe anche una bambina -. Perplessi, esaminarono la stanza ed il corridorio, che poteva essere intravisto da un'angolatura complessa, a causa della presenza di due colonne. Queste oscuravano infatti ogni veduta, con un'unica eccezione, ossìa per chi si fosse chinato alla sinistra del secondo posto più a destra della sala: posizione alquanto scomoda. In più, chiunque avesse tentato di metterla in atto sarebbe immediatamente saltato all'occhio. Le ultime due porte conducevano al mio ufficio e a quello di Alex.
Chiamai Annabelle per un paio di volte, fino a quando le sue gracili gambine dalle calze colorate non la scortarono di fronte agli ufficiali. Uno di loro si piegò sulle ginocchia e, con timbro rassicurante, sussurrò:
- Ciao, Annabelle -.
- B-buongiorno... -.
- Come ti senti? -.
- La mia mamma... - affermò, notando il corpo adagiato per terra, avvolto da un una coperta.
- Ora ti portiamo in un bel posto, tranquilla. Ti piace la cioccolata? -.
- La mia... la... Mamma! - urlò e il suo viso brillò della celebre pioggia della disperazione, che anche la più accesa delle anime agguanta e graffia e uccide: le lacrime. E mentre comprendeva che la madre non più era umana, ma carne che pesava sul gelido pavimento, corse e si gettò sopra quell'involucro che ne copriva le iridi vuote, scostandolo tanto da liberare il mento pallido e freddo. Annabelle abbracciò il busto, ma la donna non la poteva accarezzare, né placare quel lamento che traeva matrice dal cuore di chi mai rivedrà la propria madre, e neppure zittire la preghiera strozzata che gemeva dalle sue minute e rosee labbra, appena schiuse. Un'altra vittima.
- Alfred, andiamo -. Diede quest'ordine all'uomo in divisa, tenendo per mano la bambina, che ormai aveva perso il lume della sclera negli occhi. Montarono nella loro auto e io dovetti, ovviamente, seguirli, al fine di concludere l'interrogatorio. Ero nel retro della macchina con Alex, costretto al pelo del finestrino sinistro, e Annabelle, fra me e il mio collega.

Appena arrivammo al commissariato, cominciarono le domande. Fui il primo ad essere messo sotto torchio.
- Paul Mason, come giustifica la sua presenza nella sala? -. Era un poliziotto più anziano rispetto ai precedenti; notai una fevole peluria argentea al di sopra le mascelle. Palpebre appena sollevate. Aroma di sandalo. Occhiali dalle lenti spesse, sostenute da una sottile montatura grigio-corvina. Teneva le sopracciglia costantemente sollevate.
- Stavo spiegando alla signora cosa avrebbe comportato la sua patologia  - quasi sussurrai.
- Mortale? - chiese interessato.
- No, affatto. È stata uccisa da un veleno - spensi quasi immediatamente il suo dubbio.
- Conosceva la vittima? -.
- No -.
- E la bambina? Il collega dice che rispondeva a lei con maggiore docilità -.
- L'ho tranquillizzata subito dopo la caduta di sua madre -.
- Bene. Mi dica, lei... - aprirono la porta. Il vecchio rimase perplesso, e domandò poi, infastidito dall'irruenza:
- Ma lei chi è? -.
- È un piacere conoscerla. Mi chiamo Lorenzo Castelli - rispose il giovanissimo interlocutore. Accento straniero abbastanza calcato; intuibile dal nome la provenienza italiana. Sguardo spento, occhi scurissimi e pungenti come la notte, che parevano leccarti con passione l'anima, facendoti tremare per l'insana perversione con cui sapevano ammutolirti. Potevano indurre timore, forse a causa della loro forma tonda e perfetta. Li trovai al tempo stesso tremendamente belli e cattivi.
- Che diavolo ci fa qui?! - il vecchio stava iniziando ad innervosirsi.
- Sono stato mandato dal tenente colonnello Arthur Russel, da Scotland Yard - e porse una lettera. Verificata l'autenticità del documento, lo fece accomodare alla sua sinistra, in quella stanza vuota e metallica che, ai miei occhi, pareva restringersi. Castelli mi fissò a lungo. L'altro si limitò ad assistere alla scena, interdetto. Poi, di punto in bianco, senza la minima esitazione, il giovane formulò una domanda:
- Dove si trova la traccia lasciata dal killer? - Ebbi un secondo per ponderare la risposta. Intuiva già delle carte?
- Che cosa intende, scusi? -.
- L'assassino è un serial killer, no? -Ancora quello snervante silenzio.
E se fosse già stato in grado di discerne circa Edgar?
- Da cosa lo intuisce? -.
- Edgar Mason. Le dice niente? -.
Com'era possibile?
Decisi di svuotare il sacco:
- Anche io penso sia lui. Il funerale potrebbe essere stato solo un'ottima messinscena -.
- Bene, signor Mason. Se si tratta di un serial killer, come, per l'appunto, suo fratello, avrà un modus operandi che lo contraddistingue. Ebbene, avrà pur lasciato una fonte, un indizio. Dove si trova? -.
Dovevo dirglielo? Lo feci.
- La bambina aveva una carta dei tarocchi in mano, e anche il pastore che avete rinvenuto. Edgar sta facendo una guerra a me. Ho preso io queste fonti - mi sentii liberato.
- Rischierebbe di finire nei guai, ma è fortunato - e fece slittare dalla manica "il Vagabondo".
Era a casa mia. Trovare l'abitazione non dev'essere stato un problema, per la Polizia, ma come sapevano si trattasse di una carta?
- Come sapeva che si trattava di una carta, signor Castelli? - il vecchio mi precedette. Sorrise.
- Edgar era un uomo molto superstizioso. Naturale, quasi logico, che egli scegliesse come simbolo qualcosa che accendesse in lui particolari ricordi delle persone.
Naturale anche che, attraverso quei maledetti cartoncini colorati, egli avesse fatto chiarezza sui precedenti omicidi, accaduti prima della morte che aveva deciso di inscenare. -
- Lei è a conoscenza anche di quei delitti? - Nella mia voce vi era una nota curiosamente acuta e allarmata.
Le sue pupille sembrarono brillare, fameliche.
- Certamente. Vittime impiccate e torturate nei modi peggiori che gli occhi e l'animo umano possano percepire. Corde, aghi, coltelli. Ogni sua mossa aveva un corrispondente preciso, in quel mondo scaramantico. Stiamo parlando di piccole carte dei tarocchi, giusto? - Disse questo e sorrise di nuovo, forse con maggior malizia e soddisfazione.
- Non avevo idea che da queste parti ci fosse qualcuno dotato di un tale intuito. - Sussurrai, ma fui interrotto dalla voce roca dell'anziano poliziotto, figura di cui mi ero quasi dimenticato.
- Mi dica, Castelli, non dev'essere stato difficile per lei capire quale fosse la casa del medico e come entrarvici, ma in che modo ha intuito che l'indizio lasciatogli da Edgar fosse proprio una carta? Intendiamoci, non può essersi basato unicamente sui precendenti casi di omicidio e sulla superstizione del presunto assassino. -
Quello si limitò ad alzare le sopracciglia e guardarlo con un'insolita aria di superiorità. Poi, volse lo sguardo verso di me.
- Lei non ha la fama di uomo scaramantico, Paul, dico bene? -
Annuii, confuso.
- Cosa pensereste, commissario, se trovaste, nella casa di uno scettico dedito alle scienze, un'unica carta dei tarocchi, sola, fuori da un mazzo mai esistito, semi-nascosta all'interno di alcune scartoffie e cartelle cliniche? -
Il vecchio sembrò capire.
Le cartelle cliniche. Il solo posto dove mia moglie non avrebbe guardato.
- Le sue carte mediche erano gli unici oggetti tra cui nessuno avrebbe osato sbirciare, nemmeno qualcuno a lei caro e vicino, come una moglie. Dico bene, Paul? -
Rabbrividii. Il giovane detective era capace, non c'era dubbio. Forse sarebbe davvero riuscito ad incastrare Edgar.

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