Edgar (2)
Qualche giorno dopo la incontrai nuovamente. C'era solo lei con la figlia, nella sala d'attesa, tanto vuota da rimbombare di solitudine.
Sale d'attesa...
I pazienti le odiano.
Anch'io, forse. Soprattutto quel giorno.
- Dottore... ci sono buone notizie? -
Una voce non graffiante, non roca, ma quasi arrostita, interruppe i miei pensieri.
Apparteneva alla donna che grazie ad una cartella clinica avevo conosciuto col nome di Nancy Edwards. Mi guardava fisso, con occhi lucidi e colmi di timore, le dita strette in quelle della sua bambina.
- Non esattamente. Ma non escludo possibilità di miglioramento. -
Nancy non parlò, ferma, lo sguardo confuso. Aveva indosso la stessa maglia rossa e sbiadita del giorno prima.
- La sua si può considerare una situazione relativamente frequente, ma... -
Qualcosa mi interruppe.
Smisi improvvisamente di blaterare, ponendo una diga sul fiume di rassicurazioni zoppicanti e precarie che mi ero preparato poco prima. Invece, rimasi fermo, in silenzio, inquietato dall'espressione vitrea della donna.
Senza smettere di fissarmi, quella aveva iniziato a respirare con difficoltà, quasi ansimando.
- Non è nulla di grave, lei si preoccupa troppo - asserii nuovamente, poco convinto.
Nancy stringeva la mano della bimbetta in una morsa, e la piccina cercava di liberarsi, invano, terrorizzata.
- Mamma! Mi fai male! -
La donna continuava a tremare, esibendosi in respiri convulsi, cianotica, muovendo la bocca come se le mancasse l'aria.
Il suo viso già pallido e stanco era sfigurato da una smorfia orribile; gli occhi all'infuori, le labbra spalancate, le vene gonfie su fronte e tempie, i muscoli sotto sforzo.
Gemiti convulsi e grida soffocate.
Poi, un attimo.
Cadde.
Un corpo che si affloscia velocemente, senza dare il tempo allo spettatore di realizzare l'accaduto. Una caduta violenta, quella. Veleno.
Non so se fosse spirata prima per arresto respiratorio, cardiocircolatorio o a causa del forte colpo alla testa che le riservò il pavimento freddo e lucido della sala d'attesa.
Sale d'attesa.
I pazienti le odiano.
Anch'io, forse. Soprattutto quel giorno.
Abbassai lo sguardo verso la bambina. La sua mano sinistra era rossa, tanto l'aveva stretta sua madre. Povera piccina, pensai. Così giovane e già orfana.
Poi, spostai l'attenzione su un particolare. La mano destra. Quella che era ancora candida e bianca, appena rosea. Tra le dita era stretta una carta stropicciata.
Edgar.
La presi per mano, sfilando attentamente il cartoncino dalle piccole dita. Non oppose resistenza.
Poi, la condussi fuori dalla sala d'attesa.
Si lasciò guidare pigramente, molle e debole, quasi fosse una bambola di pezza.
Mi abbassai sulle ginocchia.
- Piccola, come ti chiami? -
Silenzio. I suoi occhi erano velati ed immobili.
- Sei spaventata, lo so. Ma ho assolutamente bisogno che provi a parlarmi. -
- A-Annabelle - mormorò, in un soffio.
- Che bel nome! - cercai di addolcire l'acre dolore che le strozzava la lingua:
- Annabelle cara, sapresti dirmi dove hai trovato questa carta? - Gliela mostrai.
"L'Appeso". Un giovane a testa un giù, forse impiccato, rappresentato spesso con un volto stranamente sorridente. Come al solito, i colori erano vividi e accesi, ed il ghigno della figura più sinistro che mai.
Forse era solo un'impressione.
Nel linguaggio dei tarocchi, un mondo complesso e a me alieno, esso sta a simboleggiare una perdita di contatto con la realtà, illusione, utopia e apatia. Annuncia amarezza su tutti i fronti, sacrifici inutili o eccessivi, e predice menzogne, inganni, intrighi.
In tutti questi anni, pur non essendo superstizioso, mi dovetti informare sugli indizi di dubbio gusto che Edgar usava accostare ai suoi complicati omicidi.
Maledetto.
La carta appariva come un capolavoro di dettagli, tinti di blu, rosso, oro, violetto, nero. Scintillava.
Dopotutto, Edgar aveva sempre amato curare i particolari.
- Annabelle. -
Mi stavo spazientendo. Scossi leggermente le spalle della piccola, e quella parve risvegliarsi.
Per sua fortuna: nell'animo covavo rabbia e terrore, e probabilmente non avrei esisitato a percuoterla con più forza.
Solo una bambina? Certo. Ma la furia è cieca, confusa, irruenta, poco importa l'età o l'innocenza di chi ci si trova davanti.
- Per terra. - Rispose. Mi innervosii ancor di più.
- Come sarebbe a dire?! - sbraitai senza ritegno. Poi presi fiato. La guardai, sorridendo candidamente, e chiesi: - Sei sicura, piccolina? -.
- Sì... La mia mamma... È... È...? - cominciava a singhiozzare, tremante.
- Su, su, non piangere. Aiuteremo la tua mamma se mi dici precisamente dove hai trovato questa carta -.
- Io... Era per terra, vicino alle macchinette -.
- Le macchinette? Intendi i distributori? Quelli? - additai.
- Sì, sotto quello, quello lì, color blu scuro -.
Mollai le spalle della bambina. Non c'era nessuno lì accanto, ma ciò rappresentava, indubbiamente, anche un lato positivo: neanche una persona aveva ancora visto il cadavere. Avevo più tempo per indagare. Cercai qualche indizio intorno ai distributori automatici, ma nulla mi saltò all'occhio.
Tutto perfetto. Il veleno può non lasciare traccia. Ed Edgar amava il veleno. Era la sua arma prediletta, la prelibatezza più dolce fra i dolci, la vetta più in alto cui poteva godersi il suo bramato omicidio.
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