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Stato di natura

Sogno dell'8/12/2020


ATTO I

S p l e n d o r e

In casa mia è scoppiata una bomba.

Atterriti e impotenti, fissiamo il tetto sfondato e la luce del giorno che inonda la nostra sala da pranzo, o quello che ne rimane.

Per noi, la fine del mondo è arrivata così: "un ordigno" esploso dall'alto, che ha assunto la forma di un grosso Quercus radicato tra le mattonelle crepate e spaccate del salotto. Capiamo fin da subito che no, quello non è un semplice albero.

«Che cosa... Che cosa sta succedendo?! Dobbiamo chiamare i pompieri! L-l'esercito!» Mio padre non sa far altro che urlare, mentre tiene goffamente a sé il corpo di mia madre, svenuta a terra.

Quanto a me, sono come caduta in uno stato di torpore mentale. Sono solo vagamente consapevole di essere sotto shock, ma quello che provo principalmente è... meraviglia. Sì, questa creatura che si erge davanti a me riempie lo spazio con le sue fronde, invade gli occhi con la sua bellezza. La sua chioma è viva e vibra come se fosse attraversata da una qualche corrente fantasma. Il largo tronco è vestito di uno strano muschio verdeggiante, e quando poggio una mano contro questo corpo alieno posso sentirne i battiti e il respiro.

«Non toccarlo!» m'implora mio padre.

Quest'albero è uno di loro. Sono ovunque, ormai.

Non sappiamo com'è cominciata; come in un sogno, dove i buchi di trama si verificano spaventosi e indesiderati, loro sono piombati giù dall'esosfera e innestati sulla Terra con una rapidità disarmante.

«Marta! Dobbiamo andarcene, fa' lo zaino! Amelia, ce la fai ad alzarti?» mio padre mi richiama all'attenti, ma io non faccio altro che guardare distrattamente la sua figura grassoccia e tremante che tenta di tirare su mia madre, appena rianimata ma in stato confusionale.

«Ho fatto un sogno, Carlo... C'erano alberi e...» balbetta lei.

«È reale!» le urla disperato, e io non riesco a sopportare chi alza i toni inutilmente. «Marta! Non startene lì impalata, forza!»

Il suo piano è ridicolo. Andare dove, di preciso? Via da loro? Impossibile: abitiamo in una zona boschiva, sul fianco di una montagna coperta di verde. Ce ne sono a migliaia, fuori.

Sono come ipnotizzata, voglio vedere di più. Spalanco la finestra del salone e cammino sul balcone, per guardare meglio la trasformazione della flora intorno a me: il bosco non appare più fermo come un tempo: sussulta, si piega, si tende verso l'alto. Da alcune chiome di quelli che sembrano sempreverdi, delle protuberanze organiche nascono e si allungano, come se volessero afferrare qualche uccello in volo al di sopra di esse.

Come mi sento? Paralizzata, o meglio, anestetizzata. Lo trovo bellissimo. Se il mondo deve finire così, che sia... Sembra folle che io lo pensi, ma questa magnificenza aliena non è spiegabile a parole. È viva, pulsa, è un miracolo inviatoci da un dio nuovo, rivoluzionario. Stanco di noi umani, della nostra biologia, ne vuole forse favorire una nuova?

Ho paura, certo. Sono atterrita, ho la certezza che loro vogliano soppiantarci e, se tutte le comunicazioni radio e tv non fossero interrotte, a quest'ora saprei qualcosa sul disordine sociale e politico in atto.

«Marta! Torna dentro e fa' quello che ti dico!»

Mi volto di scatto e mi rendo conto di aver lasciato dentro casa il mio buon senso. Mio padre mi ha appena richiamato al dovere, ha una faccia destrutturata dal terrore e mia madre gli pesa addosso come un sacco di calcinacci.

Comincio a dare una mano e racimolare quei pochi oggetti di valore che ho, infilandoli disordinatamente dentro al borsone della palestra: cellulare; laptop; caricabatterie; i miei magri risparmi; qualche cambio e cibo dalla dispensa.

Nella piena emergenza non mi sono mai sentita perduta, in vita mia. Siamo reduci dal terremoto che ha sconvolto Roma nel 2027, i nostri occhi non sono esattamente vergini agli eventi straordinari, ma questo... non ha precedenti. Tuttavia, al contrario del carattere vittimistico e fifone di mia madre, io ho sempre goduto di un'eccitazione fisica durante l'azione e il panico generale. L'idea di abbandonare questa casa che mi è sempre stata stretta, la prospettiva di mettere alla prova il mio istinto di sopravvivenza e non avere più nulla da perdere... mi alletta.

Mi precipito giù per le scale e carico le borse nel bagagliaio. Nel frattempo, il Quercus sembra restare indifferente alla nostra fuga, ma io sento che è consapevole di tutto ciò che si muove intorno.

«Papà, guido io. Voi non siete nella condizione mentale» dichiaro, togliendo dalle mani tremanti di mia madre le chiavi dell'auto.

«Do-dove andiamo?» balbetta lei, arrancando per mettersi seduta al posto dietro.

«A prendere nonna, e poi... dove non ci sono alberi!» guaisce mio padre.

Io non sono d'accordo, ho come un sesto senso: non serve a niente allontanarsi da qui, ben presto lo capiranno anche i miei.

La vecchia Hyundai di papà sfreccia per le strade tortuose del fianco montano, e tutto sembra profondamente diverso dal solito: ogni fronda, ogni ramo si curva e oscilla al vento come se fosse qualcosa di simile a un'antenna di lumaca. È difficile da descrivere, ma la vegetazione sembra essersi risvegliata in modo criptico, in uno stato quasi animalesco.

Percepisco le loro pulsazioni di guerra; le braccia ramificate si tendono verso di noi, che cerchiamo di rimanere lucidi, ma solo io ci riesco: mia madre continua a urlare cose senza senso, ansiosa com'è, mentre mio padre rischia l'iperventilazione.

Arrivati giù in paese, capiamo subito che la situazione non è migliorata, anzi, guardiamo con sospetto ogni cosa radicata e non.

«Non può essere... un incubo? Dobbiamo svegliarci!» strilla mia madre.

«Non è un semplice incubo...» sussurro, facendo perdere lo sguardo verso questo mondo nuovo.

È giunto il giorno, proprio adesso! Quello che tutti gli autori di fantascienza hanno sempre e solo potuto immaginare, io lo vedo con gli occhi: alieni senza forma, senza identità, senza nome e con una potenzialità di trapianto devastante.

Avrebbero potuto scegliere uomini o animali, invece hanno assimilato cellulosa: la sostanza in assoluto più abbondante sulla Terra.

I pollini sono già nei nostri bronchi.

ATTO II

O r r o r e

Travolti da una sfortuna sovrumana, la nostra auto è andata in avaria proprio a metà strada.

Mancano ancora cinque o sei chilometri dal paesello di mia nonna e farli a piedi sarebbe impossibile: i miei genitori sono due fragili zavorre e non è saggio camminare troppo vicino alla vegetazione ai lati della strada. I castelli romani sono posti totalmente immersi nel verde, abbiamo scelto di viverci proprio per questo, ironia della sorte.

«Papà, devi renderti utile, cazzo!» lo scrollo per le spalle e lo spingo malamente verso il cofano della macchina. «Sei tu il tuttofare! Smettila di frignare, dobbiamo pensare freddo e agire!»

Sento che anch'io sto uscendo fuori dal sottile cerchio della lucidità mentale.

Ho sempre alzato i toni con i miei genitori, mai stata la figlia modello, ma in questo momento sono diventata più rozza che mai: odio la loro inettitudine, non comprendo il terrore che li paralizza. O meglio, lo sento ovattato... perché la verità è che non vedevo l'ora che qualcosa dallo spazio arrivasse a smontare questo mondo sovrappopolato da idioti.

Mentre il povero Carlo si decide a dare un'occhiata al motore, sua moglie è ridotta -lo penso amaramente - al ruolo di un vegetale. Mi guardo intorno: siamo fermi nei pressi di una collina boscosa, la strada è ben asfaltata ma stretta, non certo adatta ai pedoni. Eppure, scorgo una massa di gente accampata nell'entroterra e una sensazione d'inquietudine mi colpisce allo stomaco.

Faccio un vago gesto della mano ai miei, voglio allontanarmi e loro non sono in grado di fermarmi. Cammino a lunghi passi tra le frasche, verso quel grande gruppo di disperati rimasti a piedi.

Gli alberi sono fermi.

Sulla mia testa rossa e arruffata incombono chiome di abeti, giovani pini e qualche castagno, e la luce del sole non è mai stata più inquietante di così: i raggi piovono al suolo come tanti spotlights non casuali... Come se qualcosa potesse spuntare dalla terra e tranciarmi la gola da un momento all'altro.

Non sono io ad avere una fervida immaginazione, la realtà supera sempre la più selvaggia delle fantasie: questa gente ha decisamente qualcosa che non va.

«Hey, voi! Che succe...» le parole muoiono nella mia gola, poi annaspano e riemergono. «Cosa- che statue sono? Che c'entrano in questo posto?»

«Non sono statue!» urla una vecchia verso di me, con le iridi ridotte a due piastre bianche e opache. «Sono persone...»

Persone.

«Sei pazza?» digrigno i denti, come un furfante da bettola. Non ci credo, non ci voglio credere.

La gente intorno a me è distrutta dallo sgomento, i loro volti sono bianchi laceri e le loro movenze non hanno uno scopo. La realtà non è più tale, davanti ai miei occhi: queste persone sembrano parte di un quadro di Dalì o, verosimilmente, un brutto scherzo di Dio.

Hanno indubbiamente una forma antropomorfa... Mi avvicino per guardare meglio ma mi fermo a qualche passo dall'artefatto: occhi, un abbozzo di naso, corteccia. Un legno che sembra liscio, atipico, ma non oso toccarlo.

Una cacofonia di emozioni mi stravolge il cervello, che ancora non realizza a pieno.

Lignificazione, suggerisce un angolo remoto della mia mente, quello istruito. Processo di tumefazione lignitica. Non so neanche se clinicamente possa esistere una tale, allucinante condizione, ma... è esattamente quello che sta accadendo.

«Quanti morti?» biascico, rivolta a chiunque possa ascoltarmi e provare a ribattere.

Nessuno risponde alla mia domanda, e il perché arriva dalla stessa vecchia senz'occhi, che parla rauca: «Non sappiamo se sono morti.»

Questo è il colmo. Sono circondata da statue lignee profondamente venate, la forma umana e le rientranze degli occhi sembrano fremere in modo impercettibile.

Sono ancora vivi?

L'aria è piena del loro seme maledetto: gli alberi sporulano, iniettano la loro informazione genetica nel vento e questa approda in ogni parte di noi. Non basterebbe coprire naso e bocca: la mucosa oculare è esposta, l'invasione è stata improvvisa e praticamente invisibile. Siamo tutti infetti.

«Che cosa possiamo fare?!» urlò al firmamento.

Qualcuno, a dieci passi di distanza, si degna di rispondermi: «Pregare.»

ATTO III

L i m b o

Il confine tra realtà e incubo si è estinto.

Vivo in uno stato di realtà aumentata, dove ha senso il non poter fare nulla, quando sai di essere destinato a diventare come loro.

I miei genitori mi staranno cercando? Non lo so, non m'importa. Sono rimasta qui con questa gente, immersa nel loro stesso stato confusionale.

Ci siamo arresi. Isolati e asmatici, senza comunicazioni radio siamo perduti e non c'è soluzione. Non mi rendo neanche conto da quanto tempo sono qui, se qualche ora, o un giorno intero; il sole non cala, gli alberi sussurrano in una lingua affascinante e incomprensibile all'orecchio umano.

Alcuni di noi rimangono immobili per un tempo indefinito, quelli messi peggio. Sì, anch'io come loro ho cominciato a perdere le parti distali del corpo: le dita di mani e piedi non rispondono più al mio sistema nervoso ovattato, incapace di ribellarsi e formulare pensieri di convenienza suicida.

Sono nella mia testa, sento i loro battiti.

Io so che la loro Natura non è maligna, non intenzionalmente: non si nutrono di noi, ci trasformano. Ci rendono altro. Altro anche da loro stessi: alieni senza nome, forme di vita intelligenti eppure intangibili.

La natura terrestre non è che una maschera, per loro, un bicchiere del quale assumerne la forma o un cielo da riflettere nel loro mare. E non è facile descrivere a parole la mia trasformazione genetica, ma posso chiudere gli occhi e aggrapparmi alla mia coscienza.

Non sento dolore, ma non ho la forza di alzarmi e andar via. Dove, poi? Meglio se resto qui, in mezzo a queste "statue" e ai pochi rimasti interi. La gente è adagiata mollemente a terra proprio come me, aspettano la fine.

Ora lo so... Aveva ragione quella citazione: "La morte non è che un mero passaggio di stato". Questi splendidi xenobionti vegetali ci hanno condannato a un'eterna anticamera esistenziale. No, gli "uomini-statua" non sono affatto morti.

Ed è splendido e orrendo al tempo stesso... Questo limbo ci tratterrà in eterno: rimarremo per sempre vigili, prigionieri del nostro corpo, senza alcuna eutanasia che possa donarci la pace.

Incapaci di urlare, ma eternamente connessi a loro, i nostri nuovi dèi.








NOTA

Bentornati in questa raccolta di one shot, e grazie per la lettura! Stavolta non è stata scritta per qualche contest o challenge, ma nasce da un mio impellente bisogno di mettere nero su bianco un sogno che feci l'anno scorso: ricordo ancora il senso di terrore e impotenza che provavo sapendo di essere malata anch'io, destinata a lignificarmi. Ricordo ancora il fascino esotico e surreale dell'albero, e quando ho toccato quel tronco muschiato... Era vivo sotto le mie mani, il suo battito non era quello di un cuore, piuttosto un'unica pulsazione di vita e respiro. È stato davvero difficile da descrivere, spero di aver reso l'idea.

Sicuramente sono stata influenzata dalla mente geniale di Jeff VanderMeer, dai suoi libri allucinanti: ho letto tutta la Trilogia dell'Area X e forse il mio cervello ha rielaborato il tutto e me l'ha presentato in sogno. Che ne pensate?

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