Scarti di plastica
Arancio. Questo mondo osceno è indegno di un colore così gioioso.
Il tramonto è sempre un evento straziante, per me. Il cerchio solare che muore dietro a cumuli e torri di plastica e altra spazzatura, più o meno compattata, mi ricorda le colpe degli umani e ciò che meritiamo: una volta del cielo cianotica, affumicata.
«Asia, devi rientrare. Di sera è pericoloso startene lì da sola, lo sai.»
La voce graffiante di mia madre ha lo stesso effetto di uno scrollone alle mie spallucce. Metto a fuoco la figura della stracciona sulle scalette della roulotte. È casa nostra, quella, viviamo lì in quattro, ma presto saremo in tre. La focomelia di mio fratello è grave, tanto da farci sperare che muoia il prima possibile per darci più spazio e la definitiva consapevolezza che no, non deve più nascere gente su un pianeta sterile.
«Che c'è per cena?» chiedo, distratta come al solito.
Mia madre si gratta la testa unta e scapigliata. «Ecco, tuo padre ha trovato qualcosa in scatola da Gigi. Quel vecchio ne ha sempre una più del diavolo.»
Sorrido per la naturalezza con la quale confonde sempre i modi di dire. Il vocabolario di mia madre non è neanche lontanamente simile al mio, che da vent'anni vivo saziandomi di ogni vecchio libro che riesco a recuperare. Lei mi getta un ultimo sguardo di rassegnazione e si decide a rientrare nella baracca a motore, attenta a non incastrarsi i radi capelli tra i ferri ossidati dello stipite. La seguo. Ed eccolo lì, quel relitto di mio fratello. Giace, buttato sul materasso in fondo alla stanza, con quelle sue tre dita per mano fuse alle spalle, moncherini al posto delle gambe e un pietoso labbro leporino. Sembra un bambolotto rotto e sfregiato con l'accendino.
«Gh, gh...» mugola, e sembra dirmi: "Ciao, Asia, com'è andata la tua giornata sottopagata in mezzo alle blatte?"
Ignoro la voglia d'affetto di quel piccolo disgraziato e siedo sullo sgabello. Dobbiamo arrangiarci anche stasera con un pugno di niente per cena, sebbene io lavori da schiava per un pedofilo autoproclamatosi "sarto dello skuoll", uno di quelli in grado di autocelebrarsi anche i peli dell'ombelico. Non so quando noi italiani abbiamo adottato questo strano termine, ma chiamiamo "skuoll" le nostre città-stato, o meglio, città-discariche. Dopo il conflitto mondiale per l'accaparramento degli ultimi servizi ecosistemici, i vecchi confini sono stati erosi, cancellati dalle sabbie della desertificazione, che ha definito le nuove politiche di contenimento dei pochi superstiti.
«Papà, mi passi la caraffa?»
«Solo un sorso, Asia, ché mi costa un occhio della testa, lo sai» risponde lui, mortificandomi con l'amara verità. Anche mio padre si concede mezzo bicchiere d'acqua, nella speranza di idratare un po' quel suo corpo scheletrico e bruciato dai raggi ultravioletti.
Non tutti gli skuoll possono permettersi acqua potabile; molte città attingono dalle autocisterne erranti, dispensatrici di dissenteria a pagamento. Le epidemie di dissenteria mietono migliaia di vittime in tutta Italia, ora dopo ora.
Noi figli dell'apocalisse nasciamo brutti. Nasciamo stanchi. Cresciamo affondando i piedi in liquami radioattivi e in mezzo metro di sporcizia, muoviamo i nostri primi passi nella feccia.
Ma è ciò che ci spetta, perché noi l'abbiamo assassinata, abbiamo soffocato Madre Natura con una suzione avida. L'essere umano come feto parassita di un ospite troppo generoso, io la vedo così. La Terra ci ha dato finché ha potuto, poi ha ceduto, lasciandoci a cuocere e marcire qui, nella nostra stessa immondizia. Sì, abito in una discarica e in questa pelle perennemente sporca, ferita in punti che non si rimarginano.
«Mi faccio un giro fuori», dichiaro.
«Asia, ma dove vai? È buio!» protestano i miei, ma io sono già volata oltre i loro paletti.
Cammino affondando i piedi nei detriti, alcuni dei quali aggiungono altri graffi alle mie gambe martoriate. Seguo il flusso dei pensieri, le mie sinapsi sono come corde che strattonano l'anima a chiudersi in sé stessa, schiava di ricordi idealizzati per una questione di sopravvivenza.
Percorrendo le strade anguste e umidicce del mio skuoll, il suddetto meccanismo scatta nel cervello, e mi ritrovo proiettata in un tunnel di ragionamenti ciclici, caleidoscopici, che ogni giorno mi alienano e sorreggono. Con la coda dell'occhio scorgo qualche faccia immonda trascinarsi per la via, figure di umani fatti a punto interrogativo, costretti a guardare a terra perché bastonati da scoliosi e altre sfortune. Tuttavia, non tutti vengono alla luce infetti e deformi; conoscevo un ragazzo, tempo fa. Faceva la sentinella nella torre sud della cinta muraria. La roccaforte-discarica è un accrocco di cemento armato e impalcature tetaniche, austero e antiestetico, non avrei mai pensato che lì sopra potesse abitare una creatura fatata. Ludovico era un timido fiore nel deserto, o un'intera oasi vergine, a me inaccessibile. L'ho idealizzato, perché la sua bellezza in quest'oceano di sterco era ingiusta, fuori contesto. Lui era l'ultimo alito di civiltà prima del baratro, esattamente quello in cui è caduto.
«Le vedi quelle lucine fioche?», mi diceva, nelle afose serate d'agosto. «Sono stelle. Finché le vedi, puoi continuare a sperare.»
Le sue non erano frasi fatte. La sfera notturna era meno ovattata, al tempo in cui potevo godere della sua compagnia, ma poi le stelle sono sparite per davvero. L'ultima se n'è andata quando Ludovico è morto di AIDS. Magari, a quest'ora il mio piccolo principe se ne starà seduto a guardare il cielo da qualche altra parte, al di là della gravità e della sofferenza.
Il desiderio di raggiungerlo mi brucia il petto e lo stomaco, mi corrode i tendini.
Sul piccolo pianeta di De Saint-Exupéry io potrei essere la sua rosa, e Ludovico il mio giardiniere. Potrei far crescere le radici non più nel veleno, ma in una fresca terra di conforto. E non aver mai fame né sete, né quest'erosivo senso del tempo. Se solo riuscissi a convincermi che il paradiso esiste, lo immaginerei proprio così.
«Ludo...» sussurro, ritrovandomi in cima alla scala antincendio dell'antica acciaieria. E non so come ho fatto a finire qui, non ricordo più il tragitto. Il vento gelido di novembre mi sferza la faccia butterata, l'alopecia, i vestiti infestati dagli acari. Ma sono insensibile alle pene del corpo, in momenti come questi. So solo che nel pallore lunare rivedo la pelle diafana del mio amico, e aldilà delle mura, nelle dune desertiche, il miele sinuoso dei suoi capelli. Ludovico è sempre rimasto intorno a me, nell'aria, nelle pozzanghere, ovunque, impossibile da ignorare.
«Sono una codarda», sospiro nel silenzio notturno, perché non riesco a fare un altro passo e a spezzarmi finalmente l'osso del collo. Temo la vita e temo la morte. Sguazzo in questo mio bilocale mentale, tra il salotto della disperazione e l'anticamera dell'oltretomba. E allora mi crogiolo nella mia estasi autoindotta, nelle fantasie che grattano e sfilacciano il confine tra sogno e pericolo.
Immagino me e Ludovico a bordo di una nave fantasma, dove al posto delle onde sciabordano teste di uomini contro la chiglia, affondano e riemergono come se fossero respinti dalle braccia di Caronte. Io e Ludovico siamo gli unici membri dell'equipaggio. Siamo marinai degli scarti profondi.
Nota
Questa one shot è stata scritta per un concorso che non ho vinto, quindi la lascio qui. Ho riciclato l'universo di un mio altro racconto presente qui su Wattpad, in forma di storia a sé. Sono contenta della mia creatività, anche se non è mai abbastanza. Tutti i pareri sono ben accetti, un abbraccio!
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