Nabokov
Ormai mi conoscevano tutti, in paese.
La mia copertura era saltata da un pezzo; le querele mi si ammonticchiavano sull'uscio e, se non fosse stato per quella volpe di mio fratello avvocato, avrei perso il lavoro d'insegnante già da un pezzo.
Quel diavolo di Vladimir Nabokov mi aveva rovinato la vita, ma seguivo comunque un programma di redenzione: una volta a settimana mi recavo dall'abate per confessare i miei pensieri sulle ninfette. L'uomo di chiesa ascoltava e annuiva, io uscivo dallo sguardo del crocifisso tale e quale com'ero arrivato.
Le mie alunne più audaci, nel frattempo, avevano imparato a manipolare le mie debolezze. Facevano pressione sui punti giusti per ottenere buoni voti, riuscendoci. Credevano di sapere tutto di me.
Non potevano certo immaginare cosa concimasse le piante del mio giardino fiorito. Non potevano indovinare che fine avessero fatto le loro due compagne scomparse nel nulla.
Ma ero davvero intenzionato a cambiare, a essere finalmente una persona pulita, normale. Infatti, stavo effettivamente trascorrendo alcuni mesi senza intessere più rapporti tossici, senza metterci le mani, senza i fil di ferro, l'ascia e la pala per vangare la fossa.
Dopo aver raggiunto un numero di mesi che reputai sufficienti, ero soddisfatto di me stesso. Mi sentivo una persona nuova. Le denunce di pedofilia e molestie sessuali erano state ritirate per insufficienza di prove, la polizia aveva finalmente preso a guardare altrove.
Arrivarono delle nuove alunne, nuove Lolita sfilavano davanti ai miei occhi porcini, sempre guizzanti dall'alto al basso del loro metro e mezzo, ma non più voraci come un tempo. Mi ero liberato di quel peso immane sulla coscienza e vivevo sereno, rispettando il prossimo, al quale perdonavo tutto, tranne due cose: purezza e innocenza. Queste due facezie mi facevano, come si dice, chiudere la vena; detestavo quegli adulti falsamente per bene e quei bambini così puri da apparire stupidi e basta. Stupidi come Nina.
Appena arrivati, i nuovi vicini mi scaricarono – una sola volta, per via delle voci su di me che giunsero loro ben presto – la loro figlioletta, una sottile puledra di appena undici anni. Nina stette da me una sola volta, appunto, non più di tre o quattro ore. Tanto bastò per dar fuoco ai miei nervi.
Agile, leggera come una piuma, capace di fare la verticale in equilibrio su quel terriccio ammonticchiato sotto al mio albero, lì dove giacevano le mie piccole scolarette.
Nina aveva quell'iride incontaminata: i suoi occhi si posavano su di me senza l'ombra di un giudizio, con una leggerezza opprimente e un fascino che il mio recondito aveva registrato molte tempo fa, mentre leggevo Nabokov e i suoi deliri.
Nina era stata capace di mostrare tutta la sua personalità nel giro di mezz'ora, dall'amorevole saluto ai genitori alla raccolta di margherite dal prato. Io credevo di essere cambiato. Lo credevo davvero.
La chiamai in casa e le offrii una limonata.
Un'ora più tardi, le mie margheritine avevano in nutrimento un nuovo, dolcissimo tipo di fertilizzante.
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