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La figlia (im)perfetta


Sogno del 21/06/2021




L'Ispettorato dei Servizi Sociali Americani fu istituito quando gli episodi di violenza domestica cominciarono a diventare sempre più diffusi.

Bambini che venivano abusati, picchiati, a volte direttamente uccisi. Negli Stati Uniti tali casi si andavano moltiplicando per qualche strano, distorto fenomeno sociale. Nacquero dunque nuove professioni legate all'ambito della tutela minorile. Una di queste era la mia: Ispettore capo del Dipartimento di Sicurezza Infantile.

In quell'anno decisi di prendere in carico un caso singolare. A seguito di segnalazioni da parte dei vicini (molestie verbali e altri comportamenti atipici della famiglia McCain), mi recai personalmente nella Contea di New London, in Connecticut. La cittadina di Preston, popolata da quasi cinquemila anime, mi accolse con una bella giornata di sole e il baluginio lontano del lago Amos.

La villetta dei McCain si trovava lungo la Ross Road, nei pressi della fattoria Oakwood; un luogo pianeggiante, tappezzato dai colori stinti delle monocolture intensive. Il sole allo zenit rendeva la mia via limpida e rasserenante, rifletteva il mio usuale atteggiamento professionale.

Giunto sul posto, parcheggiai la mia amata auto d'epoca in un punto tranquillo dello spiazzo e mi apprestai a suonare il campanello. Attesi sullo zerbino colorato e arzigogolato, in linea con lo stile generale della villa: azzurrina, floreale, dal prepotente e tipico tocco femminile, insomma. Solo da quello capii di chi era la personalità dominante della casa.

«Salve, chi è lei?» chiese una voce di donna.

E lì, timida dietro alla zanzariera della porta, la signora McCain era la tipica donna di Contea: permanente riccia in ordine, vestito da brava casalinga attenta a mantenere sempre una certa, rassicurante parvenza di normalità. Sì, sono sempre stato uno attento ai dettagli.

Vi sarete accorti che, in questo report informale, utilizzo più volte la parola "tipica". Ebbene, tutto del guscio esteriore dei McCain non avrebbe dato adito di sospetto. Ma io, ribadisco, non a caso facevo quel lavoro e lo facevo bene: ero in grado di capire le cose come stavano sempre con qualche secondo di anticipo sulla diagnosi.

«Sono l'Ispettore Gregory Hover, vengo da Providence, dalla sede centrale dei Servizi Sociali Statunitensi. Vorrei scambiare quattro chiacchiere con lei, signora McCain, e con suo marito. Permette?»

«Oh, mio marito è in fabbrica, al momento» rispose, aprendo finalmente la porta. «Prego, ispettore, santo cielo, entri pure! Che scortese devo essere sembrata. Ma la prudenza non è mai troppa da queste parti, sa, ho una bambina in casa...»

Annuii interessato, mentre mi lasciava accomodare in un salottino a pochi passi dalla porta d'ingresso. La tipica casetta prefabbricata del posto: soffitti bassi e pareti decorate da innumerevoli foto di famiglia, cosa che mi fece intendere una sorta di accanimento latente al concetto di "e vissero felici e contenti".

«Grazie, signora McCain.»

«Oh, chiamatemi Rachel, vi prego. Gradisce un tè? Un cappuccino?». Si mise seduta composta ma, ai miei occhi, in una postura nervosa.

Declinai le proposte educatamente, non perché non amassi i convenevoli (sono pur sempre un gentiluomo di mezza età), ma poiché volevo arrivare dritto al punto e farlo con la massima delicatezza possibile. Il volto tondo e arrossato della signora di fronte a me aveva già una vaga, vaghissima aria da colpevole.

«Rachel, sono qui per parlare di sua figlia. Come sa, nell'ultima decade, lo Stato si è fatto più attento ai bisogni e al benessere delle famiglie americane. Dunque, ci sono stati problemi, ultimamente? Oh, non sto insinuando nulla, ci mancherebbe, è solo il mio lavoro, cara Rachel...» e marcai nuovamente il suo nome in un tono simile al sensuale, per convincerla a non allarmarsi. E ottenni l'effetto sperato.

«Ma certo, ispettore, possiamo parlare di lei senza problemi. Mi chieda quello che vuole...»

«Mi risulta che il suo nome d'adozione sia Anna McCain, giusto? La bambina è in casa?»

«Sì, signore. È di sopra, nella sua cameretta. Le piace giocare con le bambole e le pentoline che il papà le regala spesso, sa. È molto premuroso con lei.»

«Bene, eventualmente potremmo farle una visitina? Se me lo offre la piccina, il tè lo prendo volentieri!» scherzai, per ammorbidire ulteriormente la situazione. Ma fu lì che la signora McCain cominciò a rivelare la prima, sconcertante verità.

«Ispettore, debbo farle una premessa: abbiamo adottato Anna alla U.S. Robots*. So che gli androidi positronici iperrealistici sono ancora in via di sperimentazione, ma... io e mio marito potevamo permettercelo e l'abbiamo fatto. Spero che non saremo giudicati per questo, sa, capisco che la gente possa reagire con sdegno alla presenza di bambini robot.»

Rimasi un momento con le labbra schiuse sotto ai baffi, elaborando la cosa. Sorrisi, accondiscendente, ma improvvisamente incerto se una creatura della U.S. Robots potesse godere degli stessi diritti dei minorenni umani. Nel dubbio, decisi di proseguire quel caso nel modo standard, non potendo inventare sul momento un nuovo protocollo.

«Capisco. Vuole raccontarmi un po' di lei, di Anna?»

«Certamente,» iniziò Rachel, accomodante «la nostra meravigliosa bimba ha virtualmente sette anni. È docile e tranquilla, sa, ubbidisce quasi sempre. Mio marito è un fanatico dei vecchi nastri e spesso la riprende in casa con una cinepresa ridicolmente antica, ma lui pensa che così i momenti rimangano impressi in modo vintage e genuino e...»

La sua parlantina m'investì in pieno, sembrava che si sforzasse di raccontare il più possibile nel minor tempo concessole e così, distratta, non si rese conto d'avermi rivelato tutto d'un fiato due dettagli importanti: la presenza di nastri con registrazioni del loro comportamento domestico e il fatto che Anna, una bambina robot, non ubbidisse sempre. Cosa alquanto inusuale, dato che la pietra angolare della U.S. Robots erano le tre, inoppugnabili Leggi della Robotica**.

«Interessante». Nel frattempo, registravo la conversazione con il piccolo dispositivo che tenevo nella tasca interna del mio blazer. «Sono curioso di vedere un po' di questi video, Rachel. Li avete in cassetta, no? Li vedo lì, sotto al mobile della televisione.»

«Certo. Qu-quale vorrebbe vedere, ispettore?»

«Beh, non saprei, noto che non hanno etichette. Ne prenda qualcuna a caso. Totalmente a caso» e rimarcai il concetto, forte della loro incuria del non aver segnato date o eventi.

Rachel si alzò dal divano, sistemò le pieghe della sua elegante gonnona e inserì il primo nastro nel mangiacassette. Anche per lei sarebbe stata una sorpresa scoprire quale momento della vita avrebbe mostrato.

Sullo schermo comparve finalmente Anna McCain, e la vidi in tutta la sua singolarità.

A primo impatto, restai destabilizzato. Nulla di quella bambina mi avrebbe fatto pensare che fosse un robot, almeno a primo sguardo. Un po' come quelle bambole Reborn artigianali e costosissime, la pelle di Anna e tutto il resto era quasi esattamente uguale a una bambina reale. Ma prima che potessi chiedere qualche dettaglio in più alla signora McCain, fu lei stessa a prendere parola.

«Vede, Anna ha dei tic. Non credo sia un difetto di fabbricazione, piuttosto fa parte della sua... personalità» rivelò, ambiguamente. «Muove le pupille di qua e di là, e nonostante il suo viso di bambina sia così angelico non ha molte espressioni. Non come quelle degli altri... ma a noi va bene così! Noi l'amiamo per quella che è, sa, per noi è perfetta così!»

Aveva ragione sulla prima parte del discorso: l'unico modo per capire che Anna non fosse umana era fare attenzione all'assenza di espressioni (micro e macro) e ai movimenti innaturali dei bulbi oculari.

«Vorrei vedere dell'altro. La seconda cassetta che tiene in mano» le ordinai perentorio, ma col mio solito garbo.

Rachel ubbidì. Quella volta, comparve un altro video home made, ma dai toni decisamente più controversi. Ritraeva la bambina robotica intenta a sedersi a monte di un tunnel-scivolo con scarsa illuminazione. Anna appariva però tutt'altro che felice, come qualsiasi bambino avrebbe dovuto essere in quella circostanza; la sua testa era calva, aveva lasciato la parrucca da qualche parte e sul visetto presentava qualche strana escoriazione. I suoi occhi erano contornati da due cerchi scuri, come se si fossa scrostata e ossidata in più punti. Prima di scivolare nel tunnel, guardò in camera e disse una cosa che mi fece accapponare la pelle.

«Addio, mamma

«Oh, la ignori!» ridacchiò Rachel, commentando la cosa. «Prima parlavo proprio di questo: ogni tanto dice cose strane, senza senso, ma capita anche agli umani, no? Da piccola ne dicevo, di corbellerie!»

Effettivamente, in quel contesto era parecchio insensato che Anna dicesse una cosa simile. O aveva davvero più di qualche difetto di fabbricazione, o quella frase nascondeva significati ben più profondi e allarmanti. Ma fu quando Rachel inserì la terza cassetta che realizzai che sì, qualcosa effettivamente non andava per il verso giusto.

Quell'ultimo nastro era girato da Rachel. Mostrava una scena ancora più disturbante: Anna camminava per mano con sua madre e, mentre passavano accanto al signor McCain con una pala in mano, questo scagliò l'attrezzo contro la bambina.

Per il colpo Anna cadde a terra e, quando recuperò la postura eretta, mostrò in camera il suo naso rotto: la botta le aveva completamente asportato la porzione nasale e deturpato il visino. In tutto quello, Anna era rimasta neutrale e in silenzio. Non aveva detto una sola parola. Ma ciò che mi fece oltremodo allarmare fu l'atteggiamento di Rachel e suo marito: avevano riso, tranquilli, mentre rimettevano in piedi la loro bambina come se fosse stata una qualsiasi bambola di pezza. Non era chiaro se il padre di famiglia lo avesse fatto apposta o meno, la qualità del video lasciava purtroppo il dubbio.

E quel senso di disagio mi montava in petto, frullava, come una panna da torta. Lo sguardo offuscato e sinistro della bambina robot attraverso lo schermo della tv mi deconcentrava dai miei appunti mentali.

«Il danno alla faccia di Anna è stato riparato dall'assicurazione alla U.S. Robots, immagino» considerai, deglutendo un groppo in gola. Quella visione era stata di una violenza insensata, ma non volevo far innervosire Rachel iniziando ad accusare suo marito di violenza domestica. Dovevo prima indagare più a fondo. A quel punto, quindi, decisi che era ora di vedere direttamente l'androide in questione.

«Sì, tutto compreso nel prezzo» rispose lei. «Ma non si spaventi, ispettore, il mio povero Carl è molto miope senza occhiali. È stato solo un piccolo incidente.»

«Rachel, le dispiace se andiamo di sopra?» esordii. «Credo di aver visto abbastanza.»

La bocca sottile e rugosa di Rachel si tese in una smorfia d'ansia. «Certamente, mi segua.»

Col tempo, ho imparato a riconoscere quelle microespressioni che solo un umano possiede. Ho scoperto e trattato molti casi di abusi solo grazie alle suddette: i piccoli movimenti dei muscoli facciali mi dicevano molto di più delle mere parole. Però, quando giunsi finalmente al cospetto di Anna, rimasi ancora una volta incerto sul da farsi.

Anna appariva perfetta in ogni sua parte. Talmente ben fasciata dalla similpelle brevettata dalla U.S. Robots da non avere neanche delle giunture a livello delle articolazioni. La parrucca bionda che le coronava la testa rendeva la sua figura di bambina il prototipo di bellezza nordamericana: boccoli biondi, occhi chiari e pelle diafana. Le sue manine erano intente a manipolare qualche cubo di legno e una Barbie nuda e scapigliata.

«Anna, tesoro, saluta il nostro ospite: lui è Gregory Hover.»

«Ciao, Gregory Hover

Le corde vocali di un'intelligenza artificiale non sarebbero mai state simili a quelle umane, comunque. La voce metallica di Anna la etichettava immediatamente per quello che era, anche se su quel punto cominciavo a nutrire dei dubbi esistenziali – che espliciterò più avanti in questo report.

La stanzetta rosa, piena di orpelli e merletti fatti in casa, incorniciava perfettamente la minuta e apparentemente innocua bambina robotica. Sembrava a suo agio con l'ambiente, e io ero l'alieno che pareva essere lì per turbarle il microcosmo. Mi chinai sulle ginocchia, approcciandomi come avrei fatto con una qualsiasi bambina di sette anni.

«Ciao, piccola. Ho saputo che hai avuto un incidente al nasino. Come stai, adesso?»

Ignorai la figura irrigidita della signora McCain e attesi la risposta. Nel frattempo, osservavo come effettivamente quel tic non le fosse passato: i bulbi oculari di Anna slittavano a destra e a sinistra, come impallati da qualche bug invisibile.

«Sto bene, Gregory Hover. I miei genitori si prendono cura di me. E io mi prendo cura di loro» dichiarò, ovattando il suo tono in una tale freddezza da lasciarmi a pensare per qualche secondo di troppo.

Mi umettai le labbra coperte dai baffi, poi sganciai la bomba. «Ti hanno mai picchiato, cara Anna?»

«Oh, signor Hover...» protestò la McCain.

«Faccio solo il mio lavoro, Rachel, non si preoccupi. Non ha nulla da temere, se non ha nulla da nascondere» l'ammutolii, concentrandomi sulla bambina.

Anna era evidentemente difettosa. La sua testa faceva dei piccoli movimenti ripetitivi sull'asse del collo, e quegli occhi vitrei non si fermavano mai.

«I miei genitori si prendono cura. Si prend- cura-» beccheggiò in avanti. Rachel si precipitò a sorreggerla, con tutta l'aria di volermi congedare.

«Ispettore, mia figlia ha bisogno di un po' di stand by. Fa parte della normale amministrazione, ma io penso che sia timida di suo. Se non le dispiace, vorrei farla tranquillizzare...»

Mi alzai e decisi di non infierire oltre, anche perché un caso del genere non sarebbe spettato me – bensì a un robopsicologo della fabbrica statunitense.

«Porti i miei saluti a suo marito, signora McCain. Ma le anticipo che qualche altro esperto verrà a farle visita nei prossimi tempi.»

Me ne andai parecchio confuso, sentimento piuttosto insolito per uno della mia carica ed esperienza. Quest'ultima era comunque pari a zero, con i robot. Ma quel dubbio mi martellò la testa per tutto il viaggio di ritorno: Anna era davvero un robot?

Nella mia definizione di robot, questi è una macchina che ubbidisce a degli ordini. Un androide è una macchina dalla forma umanoide, appunto, come quella di Anna. Ma quella "bambina" non mostrava comportamenti coerenti con la sua programmazione. E ne ebbi l'atroce conferma neanche una settimana più tardi.

Stavo leggendo il giornale nella quiete del mio ufficio, scorrendo le pagine virtuali della Stampa del Connecticut, click dopo click. Lo facevo in modo talmente distratto da non leggere davvero cosa c'era scritto, così ebbi una fulminazione e corsi a ricliccare la prima pagina:

"Duplice omicidio a Preston: coppia di coniugi assassinata da un brevetto della U.S. Robots"

Mi strozzai col caffè annacquato di Starbucks. Lessi i dettagli:

"Nella notte tra il quindici e il sedici marzo duemilacinquantuno, l'intera Ross rd. di Preston ha dato l'allarme: una bambina ferita camminava zoppicando sull'asfalto, intrisa di sangue dalla testa ai piedi. È poi stato appurato che non si trattava di un soggetto umano, bensì di un malandato modello S9inX della rinomata organizzazione U.S. Robots. La polizia è giunta sul posto troppo tardi: il signor e la signora McCain erano stati strangolati e smembrati parte per parte, il loro sangue ricopriva le pareti della villetta e gli organi sparpagliati (...)"

Mi portai una mano al petto. Lentamente, elaborai la cosa e il mio pensiero definitivo sui robot – che riporterò in questo report a conclusione delle mie personali e soggettive interpretazioni.

Il motto del nuovo millennio è "La tecnologia è nata per servire" e, su questo, non posseggo dubbi sulla buona fede dei programmatori americani. Il punto è che se neanche gli esseri umani conoscono i limiti della loro stessa etica, come possiamo pretendere che i robot ne sappiano più di noi? Gli androidi non sono forse fatti per essere "a nostra immagine e somiglianza"? Gli umani cooperano, comunicano, imparano, uccidono, rubano e sbagliano, più in generale. Simili errori di distrazione possono essere commessi anche in fase di programmazione algoritmica di un cervello positronico, con tutto ciò che ne consegue.

Anna McCain non era un semplice robot, aveva qualcosa in più: un crudo, pericoloso e umano istinto di autoconservazione.

In fede,

Gregory Hover

21.06.2051








NOTE

*è un rimando a Isaac Asimov. La U.S. Robots and Mechanical Man Corporation era, nell'universo narrativo di Asimov, l'organizzazione che si occupava di fabbricare, controllare, distribuire, monitorare ed eventualmente riparare i robot cosiddetti "positronici".

**formulate da Isaac Asimov, le 3 leggi della robotica – in sostanza – determinavano l'assetto sinaptico e il comportamento di ogni robot, impossibilitato a commettere crimini contro un essere umano e a ubbidire a qualsiasi ordine (con qualche eccezione, vd. Io, Robot). 

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