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Il Labirinto Primordiale






Non credevo che mi sarei persa e che nessuno sarebbe tornato a prendermi.

Il professore e gli altri saranno chissà dove, forse sul pullman. Pensare che proprio stamane i miei compagni di classe ridevano di me, dicevano: "Chi credi di essere? Vuoi stare sempre al centro dell'attenzione, fare quella alternativa, che sogna in grande"*. Mentre io dicevo di voler entrare nella rappresentanza d'istituto per migliorare la loro stupida vita.

Sospetto che siano felici di avermi lasciata qui, sola e indifesa come un verme da laboratorio. Con la scusa della "gita al museo" si sono momentaneamente liberati dei miei sproloqui... L'hanno fatto per darmi una lezione. Io che volevo candidarmi per il bene degli altri, propagandare politiche scomode, a quanto pare. Io che ho messo il carro davanti ai buoi. Sono stata il fulmine prima di un tuono* che, dovevo aspettarmelo, non è arrivato. Il supporto sociale che sognavo e i buoni propositi per il liceo mi sono stati rispediti in faccia così, con scherno e crudeltà.

La gente è folle, intorno a me. Tra queste pareti rosso sangue, alternate da installazioni d'arte moderna, il museo appare popolato da visitatori in bilico tra l'euforia e la pazzia. Adulti e bambini mascherati sfrecciano da una parte all'altra dei corridoi, rivestiti di pannelli deformi e intarsiati con strani simboli primitivi.

Questo posto è anomalo. Qualcosa mi sfugge. Non che io sia contraria alle giornate del Carnevale veneziano, ma che abbia raggiunto e invaso anche i locali di questa struttura... non ne trovo il senso pratico e non mi diverte, anzi, una crescente inquietudine mi riempie la vescica.

Sarà colpa di questi neon che fanno cilecca, della gente che grida, salta e danza in ogni singola rientranza del "Labirinto Primordiale" – nome dell'installazione dentro la quale mi sono impelagata, dando l'opportunità agli altri di svignarsela. Sarà colpa di questo atroce di mal di testa che rintocca... se continuo a disorientarmi sempre di più.

Mi appoggio alla parete ruvida alle mie spalle, che simula la volta di un rifugio con pitture rupestri. Mi sento invisibile. Le ombre della gente mi sfrecciano davanti ed è impossibile fermarne una e chiedere dov'è l'uscita. Devo cavarmela da sola.

Come se non bastasse, mi si è inceppato l'orologio digitale. Sarà almeno mezz'ora che quei bastardi del Quarto G hanno girato i tacchi. Porto le mani in faccia e strofino gli occhi, che stillano una lacrima di rabbia.

«Signora, ti sei persa?»

Batto le palpebre e metto a fuoco verso il basso: a un passo da me, un bambino vestito da Arlecchino mi osserva, dietro a una maschera oscenamente brutta. È sporca, contorta, quasi mi spiace per lui. Sorrido per il modo spigliato con cui i bambini confondono le ragazze con le donne e non danno mai del "voi".

«Sai da dove si esce?» chiedo allora.

È l'unica creatura che mi ha rivolto la parola senza che abbia dovuto affannarmi a prendere di petto qualcuno. L'unico che ha rallentato e si è accorto di me.

«Seguimi, voglio farti vedere una cosa!» dichiara, con voce squillante.

Non mi resta che dargli retta. Cerco di stare al passo con le sue gambine svelte, pezzate di mille colori che sfumano nel mio campo visivo, ristretto dalla stanchezza. Superiamo due corridoi identici e svoltiamo sulla sinistra, ma quando inizio a sperare che quest'esserino possa davvero trarmi in salvo, ci aspetta un vicolo cieco.

Una parete scarlatta apparentemente come le altre, ma con al centro appeso uno specchio; uno di quelli talmente ossidati e antichi da cozzare artisticamente con l'intera installazione. Il vetro è scheggiato e opacizzato da aloni biancastri. La mia immagine riflessa sembra un ammasso informe.

«Avvicinati» mi tira Arlecchino. La sua manina mi stringe un mignolo, ed è così fredda da farmi scendere un brivido. «Questa sei tu.»

«Lo vedo. Lo so come sono fatta» commento, fissando assorta il fondo verde e spento dei miei occhi. Le borse violacee sotto alle palpebre inferiori fanno del mio viso paffuto un quadro grottesco.

«Vedi anche di perdonare i tuoi nemici, altrimenti finirai come me». Il bambino in maschera gira le spalle e cammina via, sparisce dietro l'angolo ancora prima che io possa mettermi a urlare di non aver capito, a urlare di frustrazione.

Mossa dall'ultimo alito di volontà, scappo via dal mio riflesso, corro come una forsennata. Non so dove andare, ma noto che la gente si dirada, mi lascia passare verso quella che dev'essere una porta di servizio.

Il sollievo è così grande che la morsa di dolore al mio basso intestino si allenta e ricomincio a respirare. La calca, le voci, ora tutto si è ridotto a un sussurro lontano. Spingo forte la barra di apertura, ma non credo a quello che vedo: fuori è buio.

Lo spiazzo è deserto, la luce delle stelle e dei lampioni sembrano fuochi immobili nello spazio e nel tempo. Cerco di realizzare, di capire se è reale, quando mi sento afferrare malamente per un braccio.

«Signorina? Che facevi dentro al museo? I documenti, prego.»

«Cosa? Io... ero in visita con la mia classe». Allibita, con uno strattone mi libero dalla presa del custode in divisa. «Ma che ore sono?»

«Le tre di notte, Dio santo, che vai blaterando?». L'omone controlla la mia carta d'identità e prende il cellulare per avvertire le autorità. «Dammi il numero dei tuoi genitori.»

«Ce-certo...» balbetto. Mi tremano le mani, non so proprio che sta succedendo. «Aspetti, c'è ancora un sacco di gente, lì dentro!»

«Cosa, ragazzina? Piuttosto, dove ti nascondevi e perché?»

«Mi ascolti» sbotto, sull'orlo delle lacrime. «Le persone in maschera... Deve dire anche a loro di uscire!»

Il custode abbassa il telefono e mi guarda con incredulità, mista a una strana pietà.

«Figliola, il museo è chiuso e deserto da giorni.»












[963 parole]












*Le frasi con l'asterisco finale sono liberi riferimenti al testo di "Thunder" degli Imagine Dragons.

Questa one shot è stata scritta il 16|07|2021 per la challenge "Libera-mente" indetta da @WattpadBrividoIT; busta 2.

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