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Apocalisse di fango



sogno del 31/07/2021



   Lo vedemmo dall'alto.

La finestra del salone era ampia, dava su quel pezzo di creato che comprendeva il rilievo collinare del mio paese e la vasta pianura laziale, fino al Monte Circe in lontananza, azzurrino, e la sottile striscia sbiadita di mare. Era un giorno terso di luglio, peccato per quella sorta di nube enorme e compatta, di un marrone scuro e atipico, che incombeva sulla cittadina pianeggiante appena prima della collina.

Immobili dietro al vetro della sala, capimmo immediatamente che non si trattava di una semplice rarità atmosferica. La massa fluttuante pulsava distintamente, si arricciava in orrendi cirri, pericolosamente vicini alla terra. E accadde, accadde in un battito di ciglia.

L'oscena deformità sospesa ebbe un sussulto, una contrazione, e cadde. Piombò al suolo come una goccia d'acqua sporca, o come una busta di feci liquide. Dopo il rovinoso impatto, una colossale onda simile a uno tsunami investì l'apparato antropico della landa, rovesciando palazzi e ingoiando appezzamenti come fosse un flusso piroclastico su grande inclinazione.

Io e il mio ragazzo fissavamo la scena a bocca aperta, ma quello a un palmo dal nostro naso non era lo schermo della televisione. Realizzammo.

«Moriremo! Arriverà quassù!»

«Non è detto,» replicai con le parole in gola, incastrate insieme al cuore «dobbiamo restare dentro.»

Strinsi tra le mani la mia coda scura, strappandomi qualche capello. Se per un attimo avevo pensato che sul fianco dell'Artemisio saremmo stati al sicuro, capii che mi sbagliavo. La terra iniziò a tremare, il monte sopra di noi apparve cambiato, esso stesso pareva fremere per la minaccia incombente e, poco dopo, accadde anche quello: una colata di fango simile a quella della pianura ci colpì alle spalle. Il basso edificio trifamiliare di casa mia fu, chissà per quale legge della fisica o dio sadico, sradicato dalle fragili fondamenta e preso in carico dalla corrente.

Adesso, a distanza di parecchio tempo dall'accaduto, raccontarlo fa sorgere anche un sorriso, ma posso assicurare che non fu divertente: ci ritrovammo portati dall'onda, a fare slalom casuale nell'apparentemente infinita e altissima melma, tra decine di altre ville e palazzi in condizioni pietose. Eravamo col sedere sul pavimento, sbigottiti e tesi d'adrenalina, perché a ogni collisione evitata alternavamo la sensazione di potercela fare con quella di morire da un secondo all'altro.

Mi misi a pregare. Supplicai con pensieri sconnessi il dio cristiano, chiedendogli se potesse accogliermi in fretta e perdonarmi i peccati. Banale come la natura umana possa immediatamente convertirsi, non appena si crede spacciata.

Minuto dopo minuto, scorrevano davanti a noi violenti impatti di palazzine e villette sfortunate, macchine e persone inglobate da quel mare di merda, mentre la nostra "barca" procedeva veloce lungo le piccole rapide verso giù, al fondovalle, discendendo il fianco del monte. Arrivati a una più bassa altitudine, pensai che a breve la struttura già crepata e fradicia avrebbe ceduto, accartocciandosi con noi all'interno.

«Dobbiamo scendere da qua!» urlai al mio ragazzo.

«Cosa? Come?»

«Saltare giù dalla finestra!» indicai un punto a caso oltre il balcone semidistrutto che, come la prua di una nave fantasma, fendeva quell'aria apocalittica.

Il paesaggio era leggermente cambiato; sembrava che a valle del fianco orientale la situazione fosse più asciutta e decisamente meno movimentata. C'erano parecchi appigli, tra i detriti, spiazzi e pedane dove poter atterrare senza spezzarci le gambe. Ma prima che potessimo farlo, la casa si arrestò.

«È finita?» sussurrò il mio compagno, stravolto. Era sempre stato lui il fegato debole della coppia, il suo corpo sottile tremava come un giunco al vento, privo di forze.

«Alzati» gli ordinai, ero un fascio di nervi. «Le mura cadono a pezzi, usciamo immediatamente!»

Saltammo giù dal palazzo semisommerso e fummo fortunati. Ci ritrovammo in uno spiazzo inspiegabilmente sgombro dal fango. Capimmo che la colata, in quel punto della valle, si era biforcata in flussi secondari, poi estinti.

Intorno a noi c'erano più superstiti di quanti ne avremmo immaginati. Gente che si aggirava fra le carcasse delle loro vite, ― quasi il cento per cento delle costruzioni era diventato impraticabile ― più che altro persone esaurite e prive di scopo, ma solo momentaneamente. Ben presto, troppo presto, le cose cambiarono.

L'unica cosa che pensammo di fare, io e il mio ragazzo, fu di rientrare in quello che restava di casa mia, recuperare qualche cosa in scatola dalla credenza e far finta di sentirci al sicuro lì dentro. Ma già qualche ora dopo il nostro "attracco" accadde qualcosa di brutto.

È terribilmente interessante come l'essere umano possa rivelarsi resiliente, peggiorando sé stesso. In poche parole: sciacalli. I superstiti del quartiere iniziarono a definire politiche di proprietà e di confine, come fossero ebbri di un qualche spirito maligno e ghiotto. Lo slogan era all'italiana, ovvero "chi primo arriva, meglio alloggia". Così, fummo spodestati dallo scheletro in cemento armato della mia palazzina. Si accaparrarono le poche provviste e un tetto dove ripararsi durante la notte. Tuttavia, prima che potessi iniziare a disperarmi, la mentalità divergente del mio ragazzo mi fece notare un fatto interessante.

«Siamo ritornati allo stato di natura! Allora sai che ti dico? Possiamo fare lo stesso. Possiamo cercare e appropriarci della prima casa libera che troviamo.»

Finché il sole non tramontò, errammo alla suddetta ricerca. La prima notte fummo costretti a giacere sui sedili lerci di un'auto messa meno peggio rispetto alle altre, ma non chiudemmo occhio. Il terrore ci attanagliava le viscere, l'ansia che qualcuno dei nuovi predoni potesse raggiungerci e fare di noi quello che voleva, dato che la Legge era morta.

Non sapevamo niente del resto d'Italia. Non sapevamo se l'inondazione si fosse estesa all'intera regione, né se la scossa di terremoto fosse stata un fenomeno locale o nazionale. Dalle alture sulle quali ci arrampicavamo, il paesaggio appariva una landa di fango rappreso, vastissima, fino all'orizzonte. Fino a dove, solo poche, dannate ore prima, c'era il mare.

Non pensavamo ai nostri cari, all'inizio. Eravamo traumatizzati e comunque privi di cellulare, ci avevano rubato anche quelli. Riuscivamo solo a mettere due pensieri in croce per l'immediato presente: sopravvivere, cibo, rifugio, evitare la gente.

Nell'orrore, però, intuimmo che la cima del monte non era stata toccata. L'Artemisio è una cinta basaltica e lussureggiante, la conoscevo, sapevo che le case e le persone si facevano sempre più sparute all'aumentare dei metri sul livello del mare. Stringemmo i denti e gli stomaci, e ci inerpicammo lungo il fianco meno contaminato. Lasciammo che i selvaggi del fondovalle si spartissero le loro ceneri e, perché no, si divorassero a vicenda.

Giungemmo sul cucuzzolo a tarda sera, presso una casetta solitaria a strapiombo sul dirupo, che molte volte avevo visto passando in macchina, essendo proprio vicino alla strada. Eravamo praticamente moribondi, senz'acqua e senza cibo da quasi venti ore. Il mio ragazzo, che non aveva alcuna riserva di grasso in corpo, crollò per primo. Come una bestia posseduta dal solo spirito di sopravvivenza, lo lasciai lì svenuto e raggiunsi le vetrate delle finestre. Erano sprangate. Evidentemente, il proprietario aveva intuito cosa poteva star succedendo a valle ed era stato lungimirante. Disperata, iniziai a picchiare i vetri, a scuotere le inferiate del cancelletto, a buttare vasi a terra per attirare l'attenzione.

«Aprite, vi prego! Stiamo male!»

Come un miraggio, finalmente qualcuno schiavò l'entrata e fece capolino dalla porta. «Chi siete? Che volete?»

Un'anziana ed esile signora, come ce n'erano molte ad abitare il monte. Sembrava sola e prona alla compassione, dopotutto era l'ultima generazione ad aver vissuto la guerra, sapeva bene com'era avere fame e paura. Le bastò, infatti, guardarci meglio con le sue lenti a fondo di bottiglia, per capire che non aveva scelta: doveva aiutarci, o non ce ne saremmo andati.

«Siete solo voi due?»

«Solo noi due, nonna, ti prego». Il mio appellativo estemporaneo, carico di furba disperazione, la sciolse definitivamente. «Moriremo qui se non ci lascerai entrare.»

«Entrate, entrate» aprì la porta, agitatissima. Io mi fiondai a recuperare da terra quello straccio d'uomo e, barcollanti, fummo accolti nella modesta casa di montagna.

Un po' piagnucolante e panicata per il quadretto post apocalittico, la nonnetta ci rimise in sesto. Prima bevemmo e mangiammo avidamente, noncuranti di quelle limitate scorte che la signora non riuscì a negarci, poi ci demmo una sciacquata in bagno e crollammo esausti sul divano del piccolo salone.

«Mi dispiace, non ho altre stanze. Io dormo nella camera da letto, non posso darvela, la mia schiena, sapete... Non ce la farei a dormire sul divano.»

«Non si preoccupi,» la rassicurò il mio ragazzo, col suo eloquio rispettoso degli sconosciuti. «Siamo contenti di poterci adattare. Grazie di tutto.»

E ci adattammo, o almeno i primi giorni andò tutto bene. La vecchia aveva un carattere non esattamente simile a quello che ci si sarebbe aspettato da una della sua età; non faceva tante domande, non pregava, non annaffiava le piante. Se ne stava tutto il giorno in poltrona, cuciva calze e sciarpe brutte, che nessuno avrebbe mai indossato. Tuttavia, ci trattava come suoi nipotini, non faceva tante storie per i pasti, era come se non pensasse al futuro.

Ben presto, però, i ruoli si invertirono: cominciammo noi a vederla come una parassita succhia-risorse. Io e lui non avevamo modo di scendere a valle per cercare rifornimenti e, pur riuscendo ad andare, non sapevamo se saremmo ritornati su tutti interi. Ci sentivamo in una bolla di sicurezza, lontano dalla criminalità del fondo, dove i superstiti non avevano forse il cervello di salire a cercare fortuna.

Le scomodità si facevano sempre più pressanti: il divano-letto era una vera tortura, non ci stavamo in due, quindi a turno dormivamo sul pavimento. Anzi, non dormivamo affatto.

«Mentre la vecchia se la fa nel suo letto a due piazze...» dicevo, sempre più insofferente. Il mio ragazzo resistette meglio di me, ma alla fine cedette ai suoi nervi e iniziammo ad avanzare richieste. Ma la vecchia era imperturbabile.

«Non avrete il mio letto. E il cibo sta per finire, dovete mangiare meno!» sbraitava, gracchiando, sempre più deperita e, allo stesso tempo, sempre più ingombrante.

Venne il giorno in cui lo scatolame era ridotto all'osso e l'acqua era sempre meno potabile, e quella vecchia mangiava per due. Lo faceva apposta. Si ingozzava per non lasciarne a noi. Non ce la facevamo più, si doveva fare una selezione, si doveva fare politica. E quella donna era un salasso che non ci potevamo permettere.

Il piccolo orto di casa era dal lato opposto della strada, sulla zolla di terra prima dello strapiombo.

Pensammo che sarebbe stato facile. E lo fu.

Un lavoro veloce, pulito, senza testimoni e pieno di fronde che coprirono e sotterrarono il corpo precipitato per quaranta metri, dritto verso la colata di melma rappresa.

Eravamo quindi rimasti in due, con la coscienza sporca e lo stomaco vuoto. Provammo a coltivare qualcosa, ma le piogge acide dei giorni avvenire ci resero la vita impossibile. Era come se lo spirito di quella vecchiaccia si fosse infiltrato tra le nubi e maledetti dall'alto. La terra intorno iniziava ad appassire, il sole sempre più timido dietro a spessi cumulonembi. Avevamo tanta, tanta fame.

E mentre scrivo queste memorie su carta e penna, non so neanche perché lo faccio. Non credo che nessuno leggerà mai questa roba, ma ho voluto metterla nero su bianco lo stesso, in buon italiano. Lascerò qui i miei pensieri, giorno per giorno. Un pezzo di carta può fare compagnia a una poverella come me, rimasta sola. Ma ora devo andare, devo sbrinare il pozzetto e preparare il pranzo.

Devo bollire la carne.

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