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Mi hanno sempre detto che stare al computer fino a tardi fa male, che stanca il cervello, che le onde blu dello schermo disturbano il sonno eccetera eccetera. Ma ho uno spasmodico bisogno di scrivere su qualcosa, di rovesciare il mio vaso di Pandora su qualcuno o qualcosa e chi meglio aspetta di essere coperto di scritte e colore se non un foglio bianco, è sempre pronto ad accogliere tutte le mie emozioni, di qualunque natura siano, è un buon terapeuta anche se molto silenzioso.
Ho sempre pensato che le ore della notte fossero le più fertili, la mente è magari spossata dalla giornata che ha dovuto gestire ma nulla le impedisce di sfoggiare tutta la sua creatività, la notte è più facile aprire le proprie ferite, farle sanguinare.
Perciò eccomi qui, nel cuore della notte a vomitare parole sulla tastiera del mio portatile e nel bel mezzo di una tempesta artica. Fuori dalla base di ricerca il vento ulula, sembra che ci voglia inghiottire nelle sue gelide fauci e dare i nostri cadaveri in pasto gli orsi polari, saremo concime per il fertile terreno della taiga.
Le mura di questa fortezza sono così opprimenti, capisco che servano a isolarci dal furore del mondo esterno, aggressivo e in perenne lotta con sè stesso per la sopravvivenza, ma ho un tremendo bisogno di correre libero, di sentire il profumo delle ginestre in fiore, di sentire il sole splendere sul viso e di sbagliare. Ho bisogno di sentirmi imbarazzato perchè il mio starnuto era troppo forte, di pestare i piedi a qualcuno sulla metro e di sentire il suo borbottio di disapprovazione rimbombare alle mie spalle mentre annaspo tra la folla dei pendolari verso le porte del verme metallico sotterraneo. Ho bisogno di mangiare un pasticcino in un caffè e stringermi alla mia amica più forte che posso, come se la sentissi volare via. Diamine, l'isolamento ha davvero dei brutti effetti su di me. Di fatto da parecchi mesi sono chiuso in questa base di ricerca a causa della lunga notte artica e non posso fare a meno di sentire la mancanza anche dei piaceri più banali che la vita quotidiana era in grado di offrirmi, e perchè no, anche dei dispiaceri. Mi manca sedere in un cinema affollato, lasciarmi scivolare giù dal pendio di una montagna, io e i miei sci a fendere la neve. Mi manca nuotare nel mio caldo mare Mediterraneo, così azzurro da fare spavento.
Può sembrare davvero strano ma il mar glaciale artico non è azzurro. E' di un blu intenso, è grigio qualche volta, l'ho visto persino nero, ma mai di un azzurro delicato, tenue e pacifico come il fondo rassicurante di una piscina. L'aria è fresca senza dubbio, ma non posso negare che mi manchi il tiepido puzzo di smog cittadino, forse mi mancano le città in generale, la mia magari, o anche solo le persone. Uomini e donne a me totalmente estranei che incrociano la mia vita per puro caso, per un infinitesimale istante le nostre vicissitudini si toccano in uno sfiorarsi leggero, inconsistente, per poi frammentarsi nella freneticità della vita. Mi mancano anche le strade colme di persone, di voci e risa di bambini che vanno ai banchetti di natale, di giovani che fanno festa fino all'alba perchè dormiremo quando saremo morti, ora abbiamo la vita davanti per ballare, di persone che urlano ai concerti fino a squagliarsi le corde vocali. Sono davvero un povero nostalgico, dopotutto questa è una condizione che mi sono scelto, anche se la mia coscienza dice che non ha certo scelto lei di trovarsi completamente isolata dalla compagine umana nel mezzo di una tormenta al chiuso con altri quattro esseri umani nei confronti dei quali crede di star sviluppando la sindrome della capanna.
Quando cavolo finirà questa tempesta, mi domando, come i bambini che chiedono in continuazione quanto manca alla fine di un viaggio in macchina.
Man mano che passano i giorni capisco di odiare sempre di più i miei collaboratori, mi infastidisce qualsiasi cosa di loro, anche il minimo rumore che producono, un passo troppo pesante, una bottiglia schiacciata, un riso troppo forte. Li odio così tanto che a volte mi sembra che l'unica possibilità per me di conservare la sanità mentale sia quella di ucciderli. Di sporcarmi le mani con il loro sangue, di affondare il coltello nelle loro carni.
Quanta soddisfazione mi darebbe. Ma ovviamente non posso farlo. Dio, quanta voglia di fuggire, di andarmene, il desiderio di essere altrove sovrasta tutti gli altri come una voce più forte che soffoca quelle più deboli. Come quella di un tenore che spicca tra quelle del coro. Pur di uscire da questa fanghiglia uscirei nella tempesta a meno cinquanta gradi Celsius. Ho bisogno di vedere il cielo azzurro, ho bisogno di dire una parolaccia senza che qualcuno si offenda, ho bisogno di sentire la pioggia sul viso in santa pace, senza presenze opprimenti alle spalle.
Certe volte mi sembra quasi che il tempo scivoli via silenzioso, senza fare rumore, come un ratto, come un ladro che ha qualcosa da nascondere. Pare scorrermi tra le dita come sabbia, senza che io possa fare niente per trattenerlo, per godere di ogni singolo istante. A volte mi sembra di essere un pezzo si legno abbandonato in balia della corrente impetuosa di un fiume.
Mi stanno chiamando per la cena, forse l'idea di scrivere non è stata così malvagia, credo che mi abbia aiutato a vomitare la bile che mi portavo dentro.
È uno sforzo terapeutico, catartico, come urlare, come correre fin quando non si ha più fiato. Spero di poter tornare a correre presto fuori, lontano da questo buio, da questo gelo e da questa stanza stretta.
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