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Epilogo a colori


Un giorno il destino, o qualcosa di simile, parve voler mettermi alla prova col proposito di prestare più attenzione al prossimo. Accadde durante il periodo delle vacanze pasquali. Era mattina e mi trovavo al bar di Anna, assieme a lei, Ludovico e un paio di compagni di scuola, con i quali stavo traendo le solite somme sull'andamento di fine anno scolastico, davanti a un aperitivo, quando mi sorprese alle spalle la fruttivendola Vittoria.

Attirò la mia attenzione ticchettandomi la spalla con la punta di un dito. Fu una sensazione sgradevole, e la sua comparsa, non meno infelice, fece calare il silenzio. Vidi i miei amici allarmarsi, tranne Ludovico, che tratteneva un sorriso malizioso col quale si guadagnò una gomitata da Anna.

Mi voltai e mi alzai dalla sedia. Ero irritato.

«Per favore, devo consegnarti un messaggio importante.» Il tono era supplichevole, lo sguardo serio. «È dall'anno scorso che ho necessità di dartelo. Tu però non hai mai risposto a tutte le volte che ti chiamavo.» Il che era vero. La poveretta mi aveva chiamato ogni volta che mi aveva visto passare in bici in piazza Pacifico. Era un passaggio obbligatorio per entrare in borgo di R., altrimenti, se fosse stato possibile, avrei percorso un'altra via, solo per evitarla.

Allargai le braccia come per dire: "Dammi questo benedetto messaggio e chiudiamola qui!" La fruttivendola fece una smorfia.

«Credi che se non fosse importante, non te lo avrei fatto recapitare già da un pezzo, piuttosto che supplicarti di venire a casa mia perché è una faccenda molto privata?» La sfrontatezza di quella donna mi affascinò. Lei sapeva delle voci che circolavano sul suo conto, soprattutto quelle riguardanti certi mobili da spostare alle due di notte, eppure non gliene fregava niente. Anche in quel momento, aveva gli occhi degli uomini presenti nel locale puntati addosso. Sguardi lascivi che avrebbero letto pure gli analfabeti. Purtroppo avevo promesso a me stesso che avrei fatto maggiore attenzione alla gente che mi cercava, e riconobbi che Vittoria non meritava il mio pregiudizio, se non altro perché aveva anche una certa età. La seguii, esponendo la schiena come bersaglio per le frecciatine dei miei amici, e delle persone sedute al bar.

La scala era breve, copriva l'altezza del negozio di frutta e verdura, dove, durante il transito, un dipendente salutò la proprietaria e lanciò a me uno sguardo sospettoso. Lo ignorai. Non sapevo cosa mi aspettava di sopra, o meglio, lo immaginavo. Serbai per dopo ogni commento. La porta di casa era socchiusa e lei mi incoraggiò a seguirla. Ero già pentito.

La prima cosa che mi colpì, oltre l'ordine del mobilio e la estrema pulizia, fu l'odore di acquaragia mescolato a quello della frutta che risaliva dal balcone aperto. Supposi stesse facendo dei lavori.

«Allora?» chiesi impaziente.

Eh, allora allora allora, e allora siediti al tavolo, per favore!» Acconsentii, ma solo per accelerare la consegna del messaggio. La sedia era imbottita e comoda, il vaso in bellavista sulla tavola era di fine porcellana blu e accoglieva un folto mazzo di rose bianche. La tovaglia di rappresentanza invece era di piqué verde a scacchi rosa. Aveva buon gusto. A un angolo c'era un libro: "Avere o essere" di Erich Fromm, Il solo notarlo mi fece rizzare i peli delle braccia. Voltai lo sguardo alla ricerca di altri libri. Ne trovai un po' nella cristalliera e nel portariviste vicino all'angolo salotto, dove c'era anche una piccola TV sopra un mobiletto stile antico. Vittoria leggeva. Ero stupito in un modo che non mi dispiacque. Lei mi raggiunse poco dopo. Sostituì il vaso dei fiori con una invitante composizione di frutta sbucciata e tagliata a tocchetti, disposta su un vassoio d'argento. Mi invitò a servirmi offrendomi piattino e posate. Non ne avevo voglia, anche se l'ora di pranzo era ancora lontana. Lei notò la mia reticenza e mi incoraggiò servendosi per prima. Aveva il volto allegro. Lo vedevo perché eravamo uno di fronte all'altra. Compresi che non mi avrebbe dato il messaggio se non avessi accondisceso a tutto ciò che voleva. Perciò, mi servii un po' di quelle primizie.

«Sverre mi aveva detto che tu vorresti imparare qualcosa, giusto?» Sentire nominare il suo nome da quella là mi urtò, mi andò di traverso un pezzo di kiwi. Oltretutto erano mesi che nessuno più lo ricordava a voce, e stare lì, con la consapevolezza che anche lui era stato con lei, a scopare, non fu una bella sensazione. Però le prestai maggiore attenzione. Il messaggio era di Sverre.

«Cos'altro diceva di me, Sverre?» Ero curioso di sapere fino a che punto era entrato in confidenza con lui.

«Tranquillo ragazzino, non c'è nulla di cui vergognarsi. A me piacciono gli uomini, a te pure. Non c'è nulla di male» La sfacciataggine con la quale aveva sottolineato le nostre rispettive verità mi sconcertava. Però mi fece sentire stranamente a mio agio, quando invece la prima reazione avrebbe dovuta essere correre via a gambe levate, schiacciato dalla vergogna. Ma no, mi sentii rilassato, forse in virtù del fatto che con quella donna avevo condiviso, mio malgrado, qualcosa di meraviglioso con lo stesso uomo. Strano. Non riuscii a provare risentimento. La verità, quando è pura, nuda e cruda, non ferisce, né esige ammissione di colpevolezza. Lanciai un rapido sguardo a quel libro. Avere o essere, appunto.

Sentii però una sviolinata quando mi chiese di punto in bianco: «Ti va di aiutarmi a spostare un mobile?» Era pure seria! Lì per lì ero confuso, ma ci pensò ancora lei a tirarmi fuori dall'incertezza.

«Oh, già! La storia del mobile. Conosco tutto ciò che le malelingue dicono di me,» rise divertita invece di offendersi. «È successo solo una volta e quel grand'uomo...» disse il nome a denti stretti, quindi non compresi. «Ha sparso voci che non sono vere, quel gran figlio...»

Non potevo dirmi sollevato del tutto. Affinché finisse tutto presto, avrei fatto qualunque cosa, o quasi.

Dalla sedia mi pilotò oltre una delle tre porte distribuite su ciascuna parete. L'odore di acquaragia che impregnava quella stanza era nauseabondo. Notai la portafinestra del balcone che dava verso il lato opposto alla piazza Pacifico. Era chiusa. Filtrava lo stesso abbastanza luce, perciò si riusciva a vedeva tutto senza difficoltà. E poi finalmente vidi il mobile che voleva spostassi sul serio.

«Ce la fai?» domandò. Provai e mi sorprese la leggerezza. Era un mobile antico, con molti scomparti e ante, ed era fatto di legno di rosa, valeva una fortuna. Lo ruotai come aveva chiesto e poi rimasi con le spalle contro il prezioso antiquariato. Lei mi fissò a braccia conserte e mi sorrise con la raffinata volgarità che ostentava.

«Lo vuoi fare pure tu?!»

Era lì che volevo arrivasse per rinfacciarle quanto gigantesca fosse la sua dote di meretrice. Non mi ascoltò. Mi prese con forza un braccio facendomi voltare. E cosa vidi? Eh! Piuttosto, cos'altro scoprii di quella fantastica donna! Dietro il famoso mobile, che tante fantasie lascive aveva suscitato nella gentucola del borgo, me compreso, si celava l'anima vera di Vittoria. L'anima capace di esprimere con i colori tutto il bello che vedeva in quel mondo che con troppa poca generosità l'aveva etichettata come puttana, quando invece era un'artista, una pittrice. L'immagine di Sverre che aveva riprodotto, sottolineava più sensibilità di quanta ne faceva trasparire.

Un tuffo al cuore. Di nuovo. Vedere su quel vecchio cavalletto il volto di Sverre impresso nella tela disgregò ogni molecola del mio corpo. Quel quadro sembrava una finestra dove Sverre era affacciato. Sembrava vero. I toni dei colori erano di poco inferiori alle gradazioni del realismo fotografico.

«Sverre veniva qui per posare, dopo che...»

«Solo per posare, ragazzino! Quello è un gentiluomo. Non aveva fatto altro che parlare di una certa "persona". E io lo ascoltavo mentre si faceva ritrarre.»

«Ma, allora, non...» Quella rise della mia incredulità.

«Allora, vorresti imparare a usare i colori? Sverre mi aveva assicurato che saresti stato in gamba.»

Non volevo più imparare a dipingere, vedendo la perfezione espressa nel suo dipinto, volevo solo quello e basta. Sondai il terreno chiedendole se vendeva i quadri che dipingeva. Avevo notato altri lavori oltre il ritratto di Sverre. Il mistero dell'armadio da spostare era che quel mobile fungeva da porta per lo studio dove praticava la sua arte.

«Non ti ho fatto venire a casa per farti comprare quel quadro,» intuì. «Ma per darti il messaggio di Sverre.»

Riconoscendo negli altri dipinti parecchi uomini del borgo, tutti ritratti completamente nudi, mi nacque la curiosità di sapere come aveva fatto a convincere quelli a spogliarsi. Glielo chiesi. Lei incrociò di nuovo le braccia e ruotò gli occhi al soffitto.

«Ciò che faccio sono affari miei!» Allora compresi definitivamente la situazione. Era uno scambio di favori. Non la giudicai. In fondo ognuno è libero di fare ciò che vuole, chi ero, e sono, per giudicare?

«Guarda che non ho tutta la giornata per te, ti decidi? Vuoi vedere come si dipinge?» Annuii.

«Vieni domenica prossima e ti mostrerò come faccio io. Ma bada, solo una volta, ti faccio lezione una volta sola, il resto te lo impari per conto tuo, non ho mica tanto tempo io...» Finì per borbottare qualcosa. Però ero titubante. Quando le dissi che non mi piaceva l'odore di acquaragia, mi propose di provare con l'acquerello. Anche se a parer suo non era il massimo, e lo stesso giudizio lo diede alle tempere. A essere onesti, neanche a me piacquero quelle alternative.

«Questo è un guaio,» esplose dispiaciuta. Sembrava ci tenesse sul serio affinché imparassi, e accidenti, non mi andava di deluderla.

«Allora facciamo una cosa, partiamo dalle basi, prova con le matite colorate. Ma ti avverto, è la tecnica più difficile, perché non puoi commettere errori. Se sbagli ti tocca rifare da capo. Non è come i colori a olio che se sbagli puoi correggere all'infinito,» ruotò le mani in alto per enfatizzare la convenienza della pittura a olio.

Scelsi le matite colorate come prima lezione. Le scelsi perché ero abituato a usare quelle a uso tecnico per i disegni geometrici, quindi mi infondevano un senso di familiarità. Col tempo, e dopo infiniti fallimenti pittorici, mi convinsi che gli errori commessi con la pittura a matita sono uguali a quelli che si commettono nella vita: impossibili da rimediare.

Fu così che da Vittoria appresi il corretto uso delle matite colorate, e aveva ragione su quanto fosse difficile adoperare quella tecnica.

Qual era il messaggio di Sverre? Di certo non era il suggerimento d'imparare qualcosa di nuovo. Ero sul punto di andar via, ma all'ultimo momento mi bloccai sulla porta. Mi voltai.

«Il messaggio, qual è?»

Vittoria sospirò pesantemente. Tentennò ad aprire bocca. Mi diede l'impressione d'aver perso la sfacciataggine che sapevo la caratterizzava. Forse aveva dimenticato chissà quale discorso che aveva preconfezionato da tempo. Negli occhi lessi dispiacere.

«Lo avevi conquistato quell'uomo. Sverre, era di te che mi raccontava.»

«Cosa?» alzai la voce a dispetto dei modi pacati che tutti mi riconoscevano.

«Sì, signorino D. A. Sverre, era di te che mi parlava. Anche se non aveva mai fatto il tuo nome, però mi aveva dato molti indizi. Pensa che fino a prima che partisse non mi era stato chiaro nemmeno che si riferisse a un ragazzo, mentre mi parlava della sua ossessione.» A quella novità le mie braccia reagirono incrociandosi sul petto. Sentivo i polmoni incamerare più aria del necessario. Quanto aveva sofferto Sverre a causa mia? Quanto ero stato egoista? Non avevo considerato lui, il suo stato d'animo. Mi ritornò in mente la disperazione che avevo riconosciuto nei suoi occhi fino all'ultimo giorno. Nonostante ciò, avevo preteso ugualmente che mi volesse. Sentivo l'ombra del "peggio", quel peggio che mi aveva preannunciato sei mesi prima papà, braccarmi come la iena fa con la preda morente. Stava arrivando.

«Ma se stava così male, perché mi ha chiesto di non cercarlo? Perché ha deciso di non venire più qui?» È a questo punto che ricevetti il messaggio vero e proprio. Sperai fosse un motivo odioso. Una ragione con la quale avrei potuto rivalutare tutto di lui, anzi, volevo un pretesto per mettere una pietra sopra allo strazio che mi stava uccidendo.

«Tu sai che Sverre ha una vita in Australia.»

«Falla breve, so che ha una vita molto impegnata nel suo continente. Se sai perché non vuole tornare, dimmelo senza giri di parole!» Spronandola a essere concisa, riconobbi in me l'autorevolezza degli atteggiamenti di nonno Landino e di papà. Lo sguardo di Vittoria, e la solerzia con la quale mi rispose me lo confermarono.

«Sverre aspettava un bambino da una ragazza quando era venuto l'anno scorso, ma non lo sapeva.» Benedetta chiarezza! Ora tutto aveva un senso. Sciolsi le braccia dal petto senza nemmeno accorgermene, e tornai a respirare bene, nonostante la puzza di acquaragia. Immaginai Sverre con in braccio suo figlio, e una ondata di calore mi pervase di emozione, di una meravigliosa emozione di gioia per lui. Non poteva stare con me perché c'era una persona più importante che aveva bisogno di lui. Suo figlio.

«Sei arrabbiato?» Vittoria mi riportò con i piedi per terra. La squadrai. Mi parve l'immagine precisa della preoccupazione. Scossi la testa. Dio solo sa come avevo deformato il viso per come sorridevo.

Riempii la sua casa con un intenso: «No.» Un "No" importante, perché non poteva esserci nessun motivo migliore di un figlio per decidere di lasciarmi, e se questo suo nuovo cammino gli avrebbe donato più felicità di quanta ne avrei potuto offrire io, allora mi stava bene così.

«Ragazz... Cioè, signorino D. A., sembri felice...» farfugliò sorpresa Vittoria. Annuii.

«Non ha voluto dirmelo per timore che mi arrabbiassi?» addolcii la voce.

«Tutt'altro! Sverre me lo aveva detto che non te la saresti presa. Al contrario. Mi aveva detto che quella "persona" sa fare un sacco di cose, ma non riesce a odiare... Mi aveva detto che non aveva mai trovato tanta intelligenza racchiusa in un cuore.» A quelle parole feci io una smorfia. Non le credetti. Se lo stava inventando. L'intelligenza non si trova nel cuore, appartiene alla materia grigia.

«Però...» proseguì in quella che sembrava una sviolinata senza senso, perché mi era palese che ciò che stava dicendo non proveniva da Sverre.

«Però, cosa?» indurii di nuovo il tono, la stuzzicai, e quella, intimidita, abbassò la voce di molte ottave.

«Però... oh, parole sue, non mie!... però ha detto che sei stupido!» Scoppiai a ridere come mai in vita mia, perché in quella "dolcissima" parola riconobbi la firma di Sverre.

***

Dopo tanti tentativi, il ritratto di Sverre l'avevo dipinto. Fu un lavoro lunghissimo, durato anni. Avevo promesso che avrei imparato a dipingere unicamente per ritrarre lui, no? Così è stato.

Il tempo volò via, con esso la mia giovinezza. Cosa feci nel frattempo che diventavo grande? Di tutto. Imparai a fare tante altre cose solo per tenere viva il più possibile la saggezza di mio nonno, soprattutto per non dimenticare il suo l'ultimo insegnamento prima di morire: impara l'arte e mettila da parte.

Conseguii la laurea in geologia e in scienze agrarie. Trasformai la villa della collina in un agriturismo. Assunsi come personale Ludovico e Anna, insieme ad altri ragazzi volenterosi. Venne pure il cameriere magro Giulio, insieme alla sua ragazza, a chiedere lavoro e, come già accennato, trovò la porta spalancata. Vennero molte volte anche le troupe televisive delle reti nazionali a girare dei documentari. Un regista italiano, molto in voga, mi mandò un direttore della fotografia per propormi l'affitto temporaneo della location. Il mondo era cambiato, non io. Arrivò l'avvento d'internet e dei computer. Quello degli smartphone però l'avevo predetto. Ovviamente furono cose che mi entusiasmarono grandemente, almeno agli inizi.

Lessi anche tutti i libri in debito di lettura. Quante emozioni avevo rischiato di perdere! Quante storie avevo rischiato di non poter raccontare ai figli di Ludovico e Anna.

Perché non avevo provato ad avere un figlio anch'io? Purtroppo, com'era accaduto a mamma, la natura aveva serbato anche a me la stessa sorte. Sterilità. La mia è stata più severa. Credo sia stato questo il vero prezzo pagato per quella lontana felicità della quale la collina rimane unica testimone.

E Sverre? Oh! Carissimo cielo, venne a trovarmi dopo vent'anni. Aveva mantenuto la promessa, non mi aveva dimenticato. Venne insieme alla moglie e al figlio a trascorrere un fine settimana. "Quando Anna mi aveva avvertito della richiesta di una camera al resort per una famiglia australiana, avevo compreso al volo che eri tu, amico mio". Attesi l'estate con un entusiasmo che credevo non avere più. Quando poi lo vidi scendere dal taxi, che emozione. L'avevo atteso senza esserne consapevole. A dispetto della vita che mi aveva imbrigliato e condotto verso il mio destino, scoprii che esisteva ancora qualcosa contro il quale non aveva avuto potere: il sorriso di Sverre. Anche se su quel volto si erano accaniti i segni del tempo, la sua bellezza non era sfiorita. Non successe nulla, a parte l'essere riusciti a ritagliare un po' di tempo per chiacchierare come facevamo una volta, seduti a fumare sul balcone della mia camera.

Notò il suo ritratto appeso al muro della mia stanza. Sorrise. Era felice.

«Alla fine hai imparato a dipingere. Guarda che roba. Ci sono altri lavori?» Si guardò attorno nella speranza di trovare altre opere, ma non ne trovò. Calò il silenzio quando gli rivelai che avevo imparato a dipingere solo per ritrarre lui.

«È cambiato qualcosa qui, lo vedo migliorato.» Cercò di spezzare il silenzio.

«Ho fatto in modo che rimanesse tutto com'era prima che mi lasciassero mamma e papà.»

«Sono già arrivati?»

«Già. Ero nato tardi per la loro età, il loro ultimo viaggio era più vicino di quanto immaginavo.»

«E l'anablefobia?»

«È invecchiata insieme a me. Ora ho la testa così piena di tante cose ormai, che al massimo mi vengono i capogiri quanto fisso il cielo.»

E lui, cosa aveva fatto lui? Aveva avuto già una vita splendida, poteva solo migliorarla, e lo fece.

In mezzo a mille nuovi discorsi, ci perdemmo nei ricordi di quell'estate e, solo per un attimo, sui nostri volti riconoscemmo "Adamo" e "Adamo". Arrivammo a un passo dal baciarci, ma non successe. All'impulso di ricreare l'Eden nella mia camera, prevalse il buon senso di separarci. La sua onestà, era la mia onestà.

La sua visita fu come la boccata d'ossigeno che brama chi sta per annegare. Ed erano vent'anni che cercavo quella porzione di aria. Quando andò via mi promise che sarebbe ritornato. Lo fece. E io lo attesi, ancora e ancora. Come ancora di notte, quando la sua assenza non è supplita da nessun altro uomo, tiro fuori dall'armadio la felpa rossa col cappuccio e la indosso. Era la stessa felpa col cappuccio, quella che portava il primo giorno che ci siamo scontrati, e che a Venezia aveva insistito affinché l'accettassi come ricordo. L'avevo accettata solo per accontentarlo, perché non necessitavo di nulla di materiale affinché potessi ricordarmi di lui. Non ero riuscito a dimenticarlo nemmeno per un giorno. Mi dicevo che fino a quando l'avessi ricordato, il mio cuore non sarebbe servito solo per pompare sangue. Il dono della felpa era stato un sotterfugio. Infatti c'era infagottata l'altra metà della pietra preziosa che si era rotta durante quell'ultimo giorno a Venezia. E la trovai. In ritardo.

Senza che lo avessi ricercato, il ricordo della storia di quell'opale mi assalì prepotentemente la sera stessa che se n'era andato con la sua famiglia. L'aborigeno che lo aveva donato a Sverre gli aveva assicurato che quel prezioso serviva per trovare la cosa della quale si ha più bisogno. Poteva essere vero? Non lo so. Però mi parve giusto ricongiungere quel frammento al compagno e restituirlo a Sverre. Glielo avevo riparato il giorno stesso che era venuto, e avevo usato per l'ultima volta nella vita il laboratorio di mamma.

Non mi era mai servita quella pietra, ciò di cui avevo più bisogno, anni fa era andato via lasciandomi come premio il miglior sorriso del mondo.

Quel sorriso, non mi abbandona mai. Anche durante le notti silenziose e solitarie, nel mio dormiveglia infinito, Sverre, ricordo sempre di te, - spezza il silenzio, - come quando nessuno di noi aveva più nulla da dire dopo aver scopato, - spezza il silenzio, - se anche tu a volte mi pensi e, raccontami di me, di tutto ciò che eravamo, raccontami di me, di tutta una vita che non abbiamo vissuto, raccontami di me, di tutto ciò che non ci siamo detti, raccontami di me, raccontami di me, di tutto quello che non siamo potuti essere eppure siamo, raccontami di me fratello, amico, a...

FINE

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