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8 - L'equazione fantasma

Sverre si fece rivedere cinque giorni dopo, ma non stetti ad aspettarlo immobile a sospirare. Non per tutto il tempo, almeno. Oltre a sopportare gli ospiti dei miei genitori, avevo la compagnia di Tobia quando andavo nei campi, e la riparazione del tavolo della sala grande, quello che, a detta di mamma, dondolava come un'altalena. Avevo l'agenda piena. Mamma voleva chiamare un restauratore di Udine, ma la convinsi a farmi provare un tentativo, sebbene non sapessi da dove cominciare. Chiamai in aiuto Ludovico per portarlo dietro la villa, il luogo meno frequentato perché troppo in ombra, dove le due finestre basse della cucina incorniciavano Olga, sempre indaffarata, e sempre in ansia per il lampadario sfarfallante.

Il retro della villa non era molto frequentato per via del terreno che pendeva verso il basso, e camminarci significava lottare contro la sensazione di scivolare a valle. Poi c'era il pozzo d'acqua, bisognava fare attenzione. Però il panorama offriva tanto verde, che celava il luccichio della sorgente del mio posto segreto, luogo che non avevo mai mostrato neanche a Ludovico.

Tappare le migliaia di buchi di tarme, nella parte sottostante del tavolo, utilizzando siringhe piene di una puzzolente soluzione disinfestante, fu un lavoro da certosino. Era pure di legno massiccio, un pezzo quasi unico in noce. Aveva ragione Olga a lamentarsi della polvere che si spargeva in continuazione sul pavimento.

Non essendo un esperto di restauro, prima di mettere le mani mi ero documentato sui pochi libri a tema della libreria di Ludos. Mi ero chiesto: come avrei potuto risolvere quel problema senza lui? Più volte avevo l'impulso di abbracciarlo, non solo per gratitudine. La fugace vicinanza con Sverre mi aveva acceso qualcosa dentro. Era il mio E=mc², il sorriso che mi dava la carica.

La ricerca del tutorial di restauro era stato anche un pretesto per cercare altro tra gli scaffali, cioè qualcosa che mi indicasse come far colpo su Sverre. Che cosa stupida. Eppure ero convinto che dovevano esistere da qualche parte delle coordinate, o una equazione della quale non sospettavo l'esistenza, che mi potesse dare la certezza di un risultato. Avevo fatto attenzione a non farmi scoprire mentre stavo frugando tra i volumi. Ludovico però aveva sospettato qualcosa quando mi aveva visto con un trattato di Kamasutra in mano. Era scoppiato a ridere.

«Qui non troverai argomenti sui mobili di legno.» Imbarazzato, avevo riposto il volume al suo posto polveroso dandomi dello stupido, per l'ennesima volta. Farmi dire dai libri come fare con Sverre. Solo a una zucca vuota come me poteva venire in mente un'idea simile.

«Ti serve proprio una ragazza!» aveva infierito Ludos. «Falli crescere quei capelli, non tenerli sempre corti, ti fanno sembrare più serio di quel che sei. E poi, devi venire al mare insieme a me e Anna, lì ti sarà impossibile non rimorchiare!» Mi aveva dato una sequenza di pacche sulle spalle, come a scacciare il mio senso di colpa nell'ostinarmi a pensare a Sverre; e io avevo escluso a priori che lui potesse non ricambiare. La mia misera ricerca dell'"equazione fantasma" era terminata così, sul nascere, perché per certe cose non esistono le istruzioni per l'uso.

«Abbiamo finito la parte di sotto del tavolo,» sviai il discorso mentre giocavo col piede instabile del mobile. «Se ti va, facciamo un tuffo in piscina,» proposi gettando uno sguardo sull'aggancio a scorrimento dello stesso piede, dove notai qualcosa nell'intersecazione. Tutto piegato allungai la mano. Ludovico intercettò ciò che mi aveva attirato.

«Cos'è?»

«Sembra un foglio piegato molte volte. Forse serviva per pareggiare i piedi per non far traballare il tavolo. Ma non credo,» soppesai, notando quanto quel pezzo di carta fosse vecchio, rovinato, e ora unto della soluzione antitarme.

Lo aprii. Il rumore che produsse mi solleticò i timpani. Doveva essere davvero un cimelio, e lo era, perché c'era scritto qualcosa a piuma d'oca. La calligrafia era elegante, l'inchiostro era sbiadito, e la carta, scurita dagli anni, non aiutava la lettura. Non c'era molto da leggere, balzò agli occhi un solo frammento.

"...ciò che conta non è poi così lontano, anzi, è più vicino di quanto immaginiamo. Noi siamo stati vicini e fortunati, perché abbiamo trovato noi. Se abbiamo compreso cosa si trova all'altezza di ogni respiro, lo dobbiamo a noi, e forse un giorno anche il resto del mondo lo capi..." Il eseguito era tutto sbiadito, come una foto fuori fuoco. Ludovico non commentò, fece una smorfia riconsegnandomi l'antico messaggio, poi andò via frettoloso. Aveva cose da fare con Anna - che odio mi suscitava quella cara ragazza alle volte. Feci leggere quel residuo di missiva a papà. Grazie a lui scoprii che era stata scritta da suo padre, nonno Landino. Mentre rigirava il vecchio pezzo di carta indurì il volto, ma non disse nulla. Me lo restituì e poi andò al piano di sopra. Quell'atteggiamento aumentò la mia curiosità. Chissà quale frangente del passato aveva smosso quella manciata di parole appena distinguibili. Ignoravo quanto potessero essere potenti le parole.

Per puro caso, dopo aver rimosso la lettera dall'intersecazione del piede del tavolo, e averlo ricongiunto con un bel colpo di martello da sette chili al corpo principale, l'effetto altalena svanì, con grande gioia di mamma che come premio volle regalarmi, non ricordo cosa.

Nessun regalo però, avrebbe retto il confronto con un po' di tempo da trascorrere insieme a Sverre, e a tal proposito, il giorno prima del suo ritorno, ebbi l'audacia di chiedere ai miei notizie di lui mentre stavamo pranzando fuori in giardino. Mamma alzò il volto al cielo. Dopo aver prelevato dal piatto l'ultima forchettata di spaghetti, approfittando del rombo lontano di un aereo, fece finta di vedere qualcosa.

«Eccolo Sverre!» indicò il nulla nel cielo odioso, e papà si lasciò sfuggire una risata. Pazzesco! I miei mi stavano prendendo in giro per come Sverre mi era venuto addosso quel giorno! Mi imbronciai e abbassai la visiera dell'onnipresente berretto.

«Come ha fatto a centrare te con tutto lo spazio che c'è, rimane un mistero!» esclamò impietosito papà, nel tentativo di pilotare il discorso su altro, e io, desideroso più di lui di dimenticare soprattutto l'attacco di panico che avevo avuto, esposi la mia teoria a riguardo.

«La villa, che un tempo era un castello, era andata in fiamme per cause ignote, e coincidenza volle che si verificarono delle sequenze di colonne d'aria ascensionali che alimentarono tragicamente il divampare dell'incendio.» Spiegai incurante di giocare col cibo sotto lo sguardo ammonitore di Olga; detestava che ci si giocasse. «Ora, perché si verifichino le correnti d'aria che salgono verso l'alto, c'è bisogno che molta altra ne precipiti giù. Di solito sono colline come la nostra ad attrarre queste ultime...»

«E Sverre aveva perso il controllo del paracadute perché si era imbattuto in una di queste correnti d'aria discendenti, vero?» dedusse lo Psicologo, e io annuii. «Infatti è così, c'era stato un forte colpo di vento a precedere la caduta di Sverre. Io l'ho sentito.» Era quella l'occasione giusta per porre domande. Smorzai la voce senza volerlo.

«A proposito, voi sapete dov'è adesso?»

«Strano che tu non lo sappia. Di cosa avete parlato quando stavate facendo ginnastica insieme?» indagò mamma, facendomi comprendere d'averci visti assieme quella mattina. Con quale coraggio avrei potuto dirle che avevo trascorso tutto il tempo a fissargli il culo? Che sentivo ancora le carezza sulla schiena dopo lo scherzo? Che dal giorno prima avevo ancora addosso la sensazione del suo braccio che mi stringe per tirarmi fuori dalla piscina? Che avevo trascorso la notte ad alimentare la mia personale felicità? No. Non dissi nulla. Sperai nella morte silenziosa di quel discorso.

«Allo zoo di Lignano,» rivelò papà.

«Sverre è un etologo, credo abbia svolto anche il lavoro di guardiacaccia tempo fa. È interessante. Da quel che ho capito, sembra richiesto in molti zoo per la cura di animali, esotici soprattutto.»

«Gli piacciono gli animali!»

«Non passa mica tutto il tempo a buttarsi dagli aerei!» esclamò a mezzo tono la mamma, e io ero sul punto di porre la domanda principale: se e quando sarebbe tornato. Figuriamoci se avevo avuto quel briciolo di ardore in più. Non ero nemmeno sicuro di volerlo sapere. Piuttosto mi misi a sognare di raggiungerlo allo zoo, fantasticando la casualità di un incontro tra quei vialetti, dove circolano liberi fenicotteri rosa e scimmiette dispettose, casualità che immaginai non si sarebbe mai avverata. Ma forse il mio sogno a occhi aperti l'aveva osservato qualche nume misericordioso, perché papà annunciò che Sverre ci aveva invitati tutti allo zoo dove era stato assunto.

«Sarà il suo modo di chiedere scusa per l'incidente,» borbottai in preda all'emozione della notizia. Emozione che svanì quando papà rettificò: «Un giorno di questi.» Il che mi fece credere che si trattava di un invito fasullo. Certe cose si dicono quando si è a corto di argomenti, al termine di un discorso qualunque. Tante grazie nume non misericordioso.

Mi rimaneva solo il sogno di lui. Poteva bastarmi? No.

Intercorse ancora un po' di tempo, per fortuna sapevo come farlo scorrere, anche con l'assenza di Ludos, per il quale iniziavo a provare un profondo senso di gratitudine. Non è da tutti dividersi tra fidanzata esigente e un amico problematico.

Terminato il pranzo, e dopo aver dato una mano a Olga a rassettare la cucina, mi dedicai all'orto assieme a suo padre Tobia. Avevamo un bel raccolto di zucchine, e le prime susine sui terrazzi intermedi della collina, punteggiavano di porpora il verde delle fronde. Il profumo della terra assolata sortiva l'effetto contrario alla costante sonnolenza del dopo pranzo, avversaria che contro i miei vinceva sempre. Un pomeriggio li sentii chieder l'una all'altro dove trovassi tante energie. Oh, cari genitori, una volta raggiunta la vostra età, la sonnolenza pomeridiana mi fa pagare il prezzo dell'inerzia con più interessi di quanti gliene debba.

Tobia aveva un animo delicato, a differenza mia e dalle sue mani callose, coltivava con maestria tageti, ibischi, azalee e tante rose di ogni colore. Era libero di permanere sulla collina per tutto il tempo che voleva. Si era ritagliato un angolino tra la recinzione, sepolta da una cascata di convolvoli, e il muricciolo di cinta del piccolo terrazzo dov'era nato Pitagora. Lì aveva fatto crescere un profumato albero di fico, sotto il quale aveva anche messo un vecchio tavolo dove pranzava e cenava. Una vita bucolica la sua, più di chiunque avessi conosciuto dopo lui.

Gli piaceva la mia presenza, anche lui come la figlia mi aveva visto nascere. Con me era serenità, io invece lo studiavo. Vedevo sì un vecchio uomo, curvato dalle fatiche dei campi, un uomo le cui rughe non erano solo rigature scolpite nella pelle arsa dal sole, ma anche pagine di storia, di quella storia che non troverà mai posto sui libri di scuola. Oltre il reticolato rugoso delle orbite, vedevo gli occhi di un giovane. Forse con lui avrei potuto liberarmi dal mio tormento, avrei potuto raccontargli di Sverre, di come lo vedevo, di quanto mi piaceva quel viso color terra, della barba rada e degli occhi scuri, per non parlare del sorriso che voleva dire tanto, e poche volte niente. Del mio cuore che mi tradiva, dispettoso come nessuno, ogni volta che mi avvicinavo a lui. Ma no. Tobia amava parlare di donne. Dei suoi amori, e lo faceva da pari a pari, come se avessimo la stessa età. Immaginava fosse quello l'argomento delle discussioni che avevo con Ludovico.

Come un perfetto padrone di casa, dai modi grezzi, mi invitava sempre a sedere alla sua tavola sotto quell'albero di fico. Mi offriva anche il suo cuscino oltre la sedia buona.E io mi assuefacevo nel sentir le sue storie. Mi divertiva anche il fatto che ignorava il mio piacere nel sentire la morbidezza della terra sotto i piedi, giacché andavo sempre scalzo. Mi divertiva un po' meno quando rimarcava il concetto dell'utilità dell'avere una donna accanto. Mi raccontava di quando era andato al fronte, e lasciava in attesa del suo ritorno la sua ragazza, considerata da lui come un punto di orientamento nell'incertezza del tempo vissuto tra le Alpi e le lagune veneto-friulane durante la grande guerra. Da come mi raccontava della mamma di Olga, me la immaginavo come una candida verginella in paziente attesa, una delle tante "Penelope" sospiranti per il ritorno del proprio "Ulisse." Inevitabilmente mi figurai anch'io come una "Penelope," mentre attendevo il ritorno di Sverre; con l'unica differenza che io avevo assunto il ruolo della pantomima della verginella adorante, quello di "Ulisse", invece, non era interpretato con consapevolezza da Sverre, né mai l'avrebbe impersonato.

A proposito del paragone con il mito di Penelope, mi ricordai del telaio rudimentale che avevo costruito l'anno precedente. Non era un capolavoro. Tutto sommato, con quell'aggeggio alla fine avevo tessuto un plaid a scacchiera, ancora in bella mostra su uno dei divani della sala principale.

Con quel ricordo senza senso, mi congedai dal vecchio, giovane Tobia, e risalii scalzo la collina seguendo la scorciatoia. I sandali però li ritrovai il giorno dopo appoggiati sul parapetto di marmo. Caro, vecchio, premuroso.

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