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7 - Pitagora, non è un teorema

Cosa potevo aspettare di meglio che vedere per primo Sverre al mattino? Semplice, lui che mi saluta uscendo dalla sua camera, quella di fronte alla mia, chiedendomi cosa facessi già in piedi all'alba.

«Vado a correre, e poi...»

«Cammini in fondo alla piscina,» completò la frase per me, e sorrise anche meglio di me.

«Andiamo!» disse, scuotendo la testa come a convincermi piuttosto che aggregarsi di sua volontà. Non mi diede modo di articolare alcuna reazione. Mi agitai. Avevo il cuore che pulsava con una tale foga da spaventarmi. Temevo l'avesse sentito, e lo sentì, perché a un tratto si voltò, ma non disse nulla. Scendemmo le scale, gli sussurrai di fare piano, mamma e papà non sopportano i rumori a quell'ora. Uscimmo dalla porta della sala principale. Fuori, sulla terrazza giardino, l'aria era sempre un po' umida prima del sorgere del sole. Gli odori della clorofilla, della vegetazione e della terra erano ancora impastati. C'era silenzio. Solo la cinciallegra fu mattiniera come noi, stava già esercitandosi con i primi gorgheggi. Sverre, attratto dal suo canto, alzò il capo e la notò sul trespolino. Accennò un sorriso e rimase a fissarlo per un tempo indefinito. «Il nido, l'hai costruito tu?» Arrossii e annuii. Accortosi del mio imbarazzo mi tolse dall'impaccio iniziando a fare alcuni esercizi di riscaldamento. Lo imitai. Non li facevo quasi mai, non per pigrizia, al contrario, se iniziavo con le esercitazioni a corpo libero poi non finivo più, e addio corsa.

Adoravo come allungava le gambe una per volta, appoggiandole sul parapetto marmoreo della terrazza. Come tendeva i muscoli e piegava il busto raggiungendo il piede di turno con le mani. Amavo quei pantaloncini blu, talmente corti da potersi intravedere l'orlo degli slip sul giro gamba. Mi affascinava tutto di lui, anche la canotta a vogatore che gli lasciava scoperte le scapole, come le muoveva sottopelle a ogni esercizio, persino il respiro, intenso e cadenzato, mi faceva sentire unito a lui. Avevo la certezza che anche lui sentiva qualcosa di simile, altrimenti non mi avrebbe proposto subito dopo un po' di esercizi per gli addominali. Di solito li evitavo, non perché faticosi ma appunto perché poi non riuscivo a smettere.

Non avevo mai avuto bisogno di nessuno che mi trattenesse le gambe per sollevare con più agilità il torace. Perciò tacqui quando si chinò su me, e ne approfittai del contatto delle sue mani sulle ginocchia, perché mi piaceva quando mi toccava. Per non rendere palese la gradita inutilità del suo favore, scimmiottai di proposito un minimo di resistenza sulle gambe, ma supposi si fosse accorto anche di quello. S'accorse pure della cicatrice sul ginocchio destro non appena sentì la ruvidezza col palmo, e mi chiese come me l'ero procurata.

«Incidente, da piccolo, ma non è stata colpa di nessuno,» mi affrettai a rispondere stavolta, anche se mi parve gli importasse poco saperlo sul serio. Invece no. Non lo capii subito, forse perché tenevo il volto nascosto sotto la dannata visiera. Intuii però che avesse inteso perché la portavo sempre. Glielo avevano spiegato i miei la storia dell'anablefobia, motivo per cui avevo paura di stancarlo. Stare con uno che ha paura del cielo, lui che lo sfidava a ogni occasione. Che tristezza.

Pensavo a questa mia vigliaccheria mentre sollevavo il busto con negli occhi la fame insoddisfatta d'incrociare i suoi. Però volevo che si accorgesse di me, e quando arrivò il mio turno di trattenergli le gambe, presi coraggio, stabilii un contatto visivo e gli raccontai dell'unica volta in cui mia madre si era arrabbiata sul serio. Quella volta era sembrata una belva feroce. Imbastii così anche il racconto di come avevo battezzato un albero con il nome di Pitagora. Era il mio preferito. Aveva il tronco con tre diramazioni, ognuna delle quali innestate con differenti varietà di frutta: albicocche, pesche e mandorle. Da principio era solo un mandorlo piantato da nonno Landino, poi, quando non ci fu più lui, io, con l'aiuto di Tobia, portai avanti il progetto dell'innesto multiplo. C'era solo un particolare che ci era sfuggito: non sapevamo con quale frutto il nonno aveva deciso di variare la natura dell'albero, ed era un peccato, una mancanza a uno dei suoi ultimi desideri prima di spirare. Decisi io di operarlo in quel modo. Il risultato finale fu grandioso: tre rami fruttiferi equidistanti come i lati di un triangolo, da cui il nome in onore al famoso teorema.

Mentre gli spiegavo la storia di Pitagora, lui continuava ad andare su e giù col busto. Sembrava incantato da come gli stavo esponendo la vicenda, e lo ero anch'io nell'ammirargli i muscoli del ventre, i pettorali che si gonfiavano a ogni sforzo, anche se l'occhio cadeva prepotente più in basso, in un luogo foriero di fantasie tutte mie, tutte incantevoli. Se avessi avuto maggior coraggio, o se fossi stato spudorato come Andrea, glielo avrei toccato e sperato in una reazione complice, la stessa che avevo avuto con quello là. Ma non mi permisi, né lui fu mai ammiccante in quel senso, o se lo fu, non me ne accorsi. Scemo io!

Tentennò a sollevare il busto, quando gli rivelai della caduta dalla scala, avvenuta ai piedi di Pitagora. Divenne serio quando gli dissi che il piccone per terra mi aveva infilzato il ginocchio. Motivo per cui mi beccai otto punti di sutura. Forse aveva immaginato il mio dolore, le grida talmente forti da arrivare su, fino alla villa, l'allarme di mamma e la sua corsa fin giù, l'eccesso di adrenalina grazie alla quale aveva saltato il recintato per raggiungermi più in fretta. Quando mi aveva visto a terra, con mezza gamba insanguinata, non ragionava più, disse al povero Tobia parole irripetibili, e alla fine della sfuriata decise di licenziarlo. Ma io lo difesi perché non era stata colpa sua se ero caduto.

Il povero Tobia, da quel giorno, tutte le volte che vedeva i miei, ed erano tante, serbava un atteggiamento impaurito, che scadeva nel terrore puro quando doveva avvicinarsi di più per questioni di lavoro.

Al termine della storia, Sverre mi regalò un secondo sorriso; non so, forse voleva sottintendere: "l'avevo immaginato l'avresti difeso".

«Hai preso le sue parti. Bel gesto,» disse asciutto, poi ritornò a eseguire gli esercizi. Annuii e di nuovo puntai i pantaloncini striminziti, soprattutto il rilievo di ciò che copriva. Avvampai come divorato da un incendio. Ne ero attratto, non avevo più dubbi, e volevo conquistarlo.

Gli proposi: «Ti va di conoscere Pitagora?» Lui si sollevò senza preavviso, piegando il capo. Non gliene fregava niente. Vidi la sua schiena mentre mi rimisi in piedi. Mi fece cenno con la spalla di seguirlo. Per fortuna aveva ancora voglia di andare a correre, non l'avevo annoiato del tutto. Scendemmo quattro per volta i gradini del terrazzo giardino. Aveva scelto il percorso più lungo, quello dei tornanti mezzi asfaltati. Peccato, se avesse scelto la scorciatoia, avrebbe potuto notare Pitagora, anche se non gliene fregava niente.

Non disse una parola durante tutto il tempo. Ero a disagio. Gli stavo vicino, ma lo sentivo distante. Avevo la sensazione di disturbarlo, altro che conquistarlo. Seguivo con lo sguardo la sua ombra scorrere rapida sul terreno di già assolato. Notavo l'agilità con cui riusciva a scansare il residuo della fronda dell'albero di gelso che giorni prima avevo spezzato. Inquadravo il culo. Perfetto, e a quel punto non sapevo se stargli ancora dietro.

«Non rallentare!» spazzò via il mio sogno a occhi aperti, anche se ero certo che voleva dirmi: "non fissarmi il fondo schiena!" se n'era accorto. Lo affiancai. Gli osservai il profilo, il volto era neutro. Non c'era nemmeno traccia di fatica, d'altronde era uno sportivo. Sentii il suo sudore, era forte, ma non mi dispiaceva. Chissà se anche lui aveva sentito il mio, e se gli era piaciuto. E chissà se aveva ancora voglia di scambiare due parole.

«Guarda là!»indicò in cielo la figura sfocata di un parapendista che scendeva dolcemente oltre le Alpi dietro la mia collina. Io, preso alla sprovvista, mi fermai e alzai di riflesso gli occhi e lo vidi. Mi ronzò la testa, sentii il respiro bloccarsi in gola, e in un nanosecondo mi accasciai a terra. Fu come se due mani invisibili mi stessero schiacciando le tempie. Terribile! Battei un pugno a terra. Il respiro irregolare. Non sentivo nulla a parte la mano di Sverre che mi bloccò il braccio all'ennesimo cazzotto.

«No!» disse, non sapeva come comportarsi. Sollevai il pollice in alto come la prima volta, e come la prima volta mi sorrise sollevato. Mentre mi aiutava a rialzarmi trovò il modo di accarezzarmi la schiena. "Andiamo bene! Per essere toccato, dovevo rischiare un colpo."

«Scusa. Mi ero dimenticato. Tutto okay?»

«Poteva andare peggio. Andiamo!» Lo invitai a proseguire la corsetta e lui mi seguì. Mi accarezzò di nuovo la schiena. Sì, mi accarezzò la scapola, sullo stesso punto in cui mi aveva colpito la prima volta, centrò l'ombra del livido. Non indugiò come avrei gradito facesse. Chissà, se avessi avuto la sfacciataggine di simulare un malore, mi avrebbe consolato, coccolato o coperto di attenzioni. Ma non successe nulla di tutto ciò. Per sciogliere la tensione stavo per chiedergli se e quando avrebbe ripreso a lanciarsi col paracadute. La risposta avrebbe indicato il giorno in cui se ne sarebbe andato via di nuovo, e segnato l'angoscia di aspettarlo ancora. Perciò non dissi proprio nulla e lasciai che la sua presenza, nei giorni avvenire, fosse annoverata tra le grazie concesse tra le inattese disequazioni della vita.

Raggiunto l'ultimo tornante, si fermò al bivio. Osservò la stradicciola che si perdeva dietro la parte incolta della collina, «Dove si va là?»

«In un bel posto, un luogo selvaggio, incolto, dove alberi e fitta vegetazione non sono mai stati curati dai nostri contadini, perché così aveva voluto nonno Landino,» gli spiegai, ma omisi che custodiva il mio posto segreto. Un posto che in quel momento non mi andava di svelare neanche a Sverre. Non in quel giorno almeno.

Era diventato serio alla vista di quel sentiero inghiottito dal verde incolto. Mi resi conto che non ero più capace di sostenerne lo sguardo. Si voltò infliggendomi soggezione. «L'avevo fatto apposta!» esclamò, e scattò a ritroso verso la cima della collina. Rimasi inebetito. Non ero mai stato un genio con le sinapsi, ma quel riferimento era alla mia portata. Mi aveva fatto sollevare lo sguardo verso il cielo di proposito.

«Certi scherzi me li aspetto da mio padre, non da te, stronzo!»

Fuggì ridendo. Vidi i muscoli delle sue gambe abbronzate in un'angolazione diversa. Fissai di nuovo il sedere vestito dell'azzurro dei pantaloncini illuminati dal sole. Scossi la testa. Ero infatuato di lui. Altro che volerlo soltanto conoscerlo, lo volevo tutto, in ogni misura possibile. Lo stavo pensando così tanto che non mi resi conto della durezza della salita, e poi perché avanti a me c'era quel norvegese-australiano dispettoso che mi stava trascinando con un filo invisibile di cui sospettavo la natura.

Quando ripeté: «Non restare dietro!» la sua perspicacia centrò di nuovo la mia troppa attenzione sul suo culo. Lo raggiunsi, a malincuore. Se non si era ancora accorto che mi piaceva, allora c'era un problema. Non mi andava di credere che lo stare vicini dava piacere ed energia solo a me. Doveva sentirle anche lui queste cose; o almeno così avevo sperato. Avrei voluto essere in lui, viaggiare nella sua pelle, vedere con i suoi occhi ciò che lo attraeva di più, nella sua mente, per scoprire cosa pensava, nel suo cuore, per sapere quello che provava, nel suo sangue, per scoprirne il calore.

Sudati fino alle ossa, guadagnammo la terrazza giardino e ci fermammo sul perimetro della piscina. Avevo già fatto volare la maglia intrisa di sudore, mentre lui si stava sfilando il vogatore. Che spettacolo quella schiena, con tutti i rilievi e le articolazioni tinte dal sole. Gli fui accanto.

«Al mio tre!» Disse, e contò a malapena "uno", che ci calammo in fondo alla piscina. Mi aveva letto nel pensiero! Fantastico! Aveva voluto provare ciò che mi piaceva fare, ero elettrizzato. Percorremmo i pochi metri sott'acqua senza sfiorarci e poi riemergemmo. Avevamo il fiato della stessa lunghezza. Chissà se gli era piaciuto.

Quando si sdraiò su un lettino da sole mi avvicinai, e lui mi guardò con un'espressione interrogativa. Poco ci mancava che mi chiedesse cos'altro volevo fare.

«Per colazione hai qualche preferenza?» Elargì un bellissimo sorriso di sollievo.

«Fai tu, cameriere!» Colsi l'ironia. Mi diressi in cucina gesticolando e ballando, e per un soffio non investivo mamma apparsa in sala, ancora assonnata.

«Hai camminato ancora in piscina?»

«Vuoi due uova in camicia?» finsi d'aver capito male ricevendo uno «scemo» come compenso. Ero felice, la giornata era cominciata in maniera insolita, ma perfetta. Anche se poi Sverre andò via in fretta e furia appena dopo la colazione, ma non mi importava. Misurai il tempo che ci separava, nella speranza di ricreare la stessa atmosfera tra noi dopo. Va bene, forse potevo essere un po' deluso, ma anche felice. Felicità che scoprii onnipresente durante tutto il giorno sul basso ventre. Felicità alla quale la notte stessa diedi una mano, ripensando a quell'australiano sfuggente.

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