22 - Adamo e... Adamo
Cosa poteva fermare il tempo ormai giunto allo scadere? Nulla. Lo si poteva solo riempire di ricordi, un lungo "filo di Arianna" che poteva forse assicurarci la salvezza nel labirinto della solitudine interiore che ci attendeva dietro l'angolo, come fosse un cecchino invisibile, quando tutto sarebbe passato.
La ginnastica, la corsa e la passeggiata in fondo alla piscina. L'esasperazione di mamma perché quella cosa proprio non le piaceva. Le battute english di papà. Il cibo che preparavo e che soddisfaceva anche Sverre, e il salutare lui che andava svolgere il suo lavoro allo zoo. Alt! Nell'insieme di questi ricordi si aggiunse una novità: Sverre trascorse gli ultimi giorni a casa, e si arruolò spontaneamente allo svolgimento delle mie faccende. Era stato il suo modo per recuperare quel pochissimo che era rimasto da recuperare tra noi. Per noi.
Mamma sbatteva le mani al cielo, dondolando la testa riccia bionda fresca di parrucchiere, accusandomi di aver rovinato l'australiano. Insomma, lui che era il paracadutista, il dottore degli animali, l'etologo, uno studioso, sotto di me era finito a zappare la terra attorno a Pitagora! Ma Sverre non si era tirato indietro in nulla, aveva insistito lui a voler fare quelle cose. Però sotto c'era un perché sommerso: risaliva a quell'unica volta che mi aveva invitato a trascorrere la giornata allo zoo. Dove mi ritrovai a spalare il letame delle scimmiette, delle giraffe, a grattare il guano degli uccelli. Solo alla fine era venuto a dirmi che non era necessario fare quel servizio perché c'era gente pagata appositamente. E allora perché non me l'aveva detto subito? Perché lo stronzo si era divertito un sacco a vedermi fare buon viso a gioco puzzolente. Quella avrebbe dovuto essere una mia personale giornata di vacanza per distaccarmi da me e soprattutto dai miei pensieri distorti. Tutti tormenti che lui aveva intuito stavo soffrendo. Quindi, ora aveva deciso di ricambiare, di "autoflagellarsi" per il mio equo tornaconto. Ma potevo accettare che lo facesse? No. Ma lui non volle sentire ragioni.
Era divertente. Era il classico tipo carismatico, il trascina gruppo. L'elemento che rende piacevole la giornata. Non avevamo avuto modo di ritagliarci un po' d'intimità durante le mattinate. Tobia, mamma e papà, incuriositi dalla novità di vedere Sverre alle prese con il frutteto, si erano dati il turno per portare ora la buona acqua fresca del nostro pozzo, ora l'orzata, o il latte di mandorla o la bibita naturale alla menta; persino Olga non risparmiò scarpinate. Sverre aveva conquistato proprio tutti. Era quanto di meglio poteva piovermi dal cielo, letteralmente. Non importava se rivolgeva attenzione a papà che con le sue battute alimentava il suo lato ironico, o a mamma che era preoccupata affinché non si facesse male, "sia mai non tornasse sano in Australia" diceva. E come non notare la rinverdita civetteria di Olga, o i significativi sguardi nostalgici di Tobia, che solo il cuore suo sapeva cosa rivedeva in Sverre che lavorava i campi.
Poteva stare con tutti, ma alla fine, durante i residui pomeriggi, era nel nostro nascondiglio segreto che ci univamo in ogni senso fisico e spirituale. Sotto l'albero di cerro, accanto al mesto gorgheggio del laghetto, in mezzo agli odorosi cespugli selvatici, avvolti dall'aroma di arbusti riarsi e dall'invitante bontà delle fragoline che mangiavamo sul posto. Era lì che tacitamente volevamo rimanere per sempre. Anche se quel per sempre sapevamo fosse labile e sfuggente come il vento freddo dell'est, che ci aveva sorpreso la prima volta come un castigo per essere stati felici e insieme appena solo un po'.
Eravamo ancora lì, avevamo esaurito le parole. Ma forse cercavamo quelle giuste affinché il tempo residuo non andasse sprecato come la tela bianca di un pittore indeciso sul tema da ritrarre, che alla fine finisce solo con l'osservarla e basta. Indecisi così pure noi, finimmo col restare in silenzio. Stesi nudi a osservare il laghetto, lui dietro me a offrirmi il petto come appoggio alla mia schiena, e le sue braccia a coccolarmi ovunque. Ognuno rincorreva la malinconia dell'altro con l'intenzione reciproca e caritatevole di mitigarla. Quel silenzio tra noi era l'ultima ombra nel deserto assolato e desolato della realtà che ci stava braccando.
«No! Così non va!» esordì.
«Cosa?»
«Tutto questo, non va'!» ribadì con una punta d'ironia nel tono. Era serio, lo sentivo, ma scherzoso allo stesso tempo.
«Ma se stiamo così bene in silenzio.»
«Appunto!» insistette, mentre mi solleticava la pancia e io a fermarlo perché non mi piaceva ridere troppo.
«Spezza il silenzio e raccontami di me!»
«Ma l'abbiamo già fatto questo gio...co...»
Sì, me l'aveva già chiesto una volta: "spezza il silenzio e raccontami di me". Gli raccontai tutto il poco che di lui conoscevo, perciò era stato un racconto breve.
Ma quando me lo ridisse lì nel nascondiglio segreto, qualcosa emerse dal profondo, la comprensione di quella frase. Con "Spezza il silenzio e raccontami di me", voleva dire non dimenticarmi. Sfrutta i lunghi silenzi, quelli importanti, quelli che ti fanno sentire più smarrito che mai, e ricordati di chi hai conosciuto e che ora non c'è più. Perché forse anche quella persona starà facendo la stessa cosa, dall'altra parte del mondo.
Allora gli presi una mano e la portai all'altezza del cuore mio.
«Ti ricorderò per sempre.»
Sospirò rasserenato. Una volta tanto avevo dato la risposta giusta. Però il "raccontami di me" lo pretese, volle cioè sentirmi dire una storia che lo riguardava, anche se non sarebbe corrisposta alla verità. L'importante era che ascoltasse la mia voce.
«Ma io non so come si fa, non so raccontare storie.»
«Non leggi libri?»
«No, mi addormentano.» Rise di scatto facendomi sobbalzare. Siccome però mi piaceva sentirlo ridere e il suo corpo vibrare sotto il mio, rincarai la dose. Gli raccontai di quella volta che papà mi aveva sorpreso a correre via a gambe levate dalla nostra biblioteca. L'esclamazione che aveva emesso il Dottore: "figlio mio, sembra che tu abbia visto il diavolo là dentro!" tolse il respiro a Sverre a furia di ridere.
Si ricompose dopo un po', ma non mollò il proposito di farmi dire quel benedetto "raccontami di me". «Meglio così, almeno sarà una storia originale!» soppesò.
Dovevo accontentarlo, fosse l'ultima cosa che avrei fatto per lui, e un po' lo era. Quindi attinsi alla storia che conosce tutto il mondo, la cacciata di Adamo ed Eva dall'Eden. Con una variazione: invece di Eva ci misi un altro Adamo. Quegli Adamo eravamo noi, e l'Eden il nascondiglio segreto dove eravamo in quel momento. Non fu un racconto religioso, ma piuttosto biblico, nel senso che ai protagonisti avevo assegnato i nostri ruoli durante gli incontri consumati in segreto. E se ogni racconto porta in sé un messaggio, quello mio non era stato da meno. Sverre lo afferrò al volo, così come afferrò me nell'esatto modo che gli avevo raccontato attraverso i due Adamo. Creò per me il più indelebile dei ricordi. «Di questo passo non tornerò vivo in Australia!» ansimò, dopo avermi mostrato l'eruzione del suo seme dalla sorgente. Mi fece ridere e insieme vergognare.
Risalimmo a casa passando dalla scalinata segreta in tempo per la cena. Ci eravamo attardati più del solito. Il sole si era già nascosto da un pezzo dietro gli ondulati profili delle colline vicine, e l'aria immota rese visibile la fumosità nebbiosa dell'afa. Avrebbe fatto ancora caldo se non fosse arrivata quella folata di vento dall'est che per la seconda volta mi ricordava che la fine dell'estate era prossima. Da queste parti, il primo temporale dopo la prima metà di agosto, apre la strada già al periodo autunnale.
Non ci sorprese nessuno in cantina, eravamo stati fortunati. Non era un mistero per nessuno che io e Sverre trascorrevamo la maggior parte delle ultime giornate insieme. A mamma e papà non sfuggì nemmeno il mio negarmi a Ludovico, che mi aveva telefonato per invitarmi a prendere un gelato quella stessa sera.
«Diamante!» Il Dottore mi guardò con una luce sinistra negli occhi. Un brillio che sapeva d'intuito. La fronte aggrottata come quando studiava i trattati di psicologia. Se c'era qualcuno che poteva aver intuito, anzi, capito cosa stesse succedendo in casa sua, quello era lui. Pensai che un giorno avrei fatto i conti e l'avrei supplicato di perdonarmi se avesse ritenuto doverlo chiedere.
Sverre alzò la mano chiedendo, e ottenendo, con un cenno di poter intervenire. «Non devi lasciare mai gli amici, vai da Ludovico.» Non volevo.
Da qualche parte dovevo cominciare a imparare a stare senza lui. Perché non subito dopo cena? Era questo il messaggio sottinteso che voleva lanciarmi? A ben pensarci, Ludovico alla fin fine non andava da nessuna parte. Poteva essere un punto fermo, il gancio che non credevo di trovare prima di cadere nel baratro della miseria che mi stava crescendo dentro. Quell'insistere affinché andassi giù in borgo da Ludovico sembrava la prova generale dell'imminente separazione che ci attendeva. Non mi sarei stupito se tutti quanti si fossero messi d'accordo a mia insaputa. Durante la cena, che più di una cena sembrava l'ultimo pasto dei condannati alla pena capitale - non sarei stato il solo a sentire la sua mancanza, - avevo quasi deciso di recuperare l'invito a scendere giù in borgo. Ero ancora in tempo. La spinta finale me la diede la telefonata di Jennifer che annunciava il suo sbarco all'aeroporto internazionale Marco Polo di Venezia. Insieme c'era anche l'ambasciatore famoso. Il deportatore. Così avrei dovuto chiamarlo quell'uomo. E Sverre che affermava mi sarebbe piaciuto conoscerlo.
Solo un'ora appena e sarebbe venuta su da noi. A quel punto ero io a non voler rimanere a casa. La mia decisione però fece felici un po' tutti. Non estesi l'invito a Sverre ad accompagnarmi, un po' perché la tresca sarebbe stata più sfacciata di quanto già non fosse, e poi perché mi rendevo conto che Jennifer avrebbe voluto avere accanto un volto familiare otre al suo Atticus che, taciturno com'era inquietava alquanto. Altro buon motivo per inforcare la bici e andare a prendere quel maledetto gelato insieme al mio amico.
Scesi in volata, godendomi la luce del faretto che avevo montato. La dinamo l'avevo manomessa affinché generasse più luce. Mi piaceva seguire la forma ovoidale luminosa che scivolava e distorceva i contorni ora sullo sterrato ora sull'asfalto annerito dalla notte. Mi ricordava me che inseguivo lo sfuggente australiano appena poche settimane prima.
Parcheggiai la bici insieme a una ventina di altre, tutte assiepate sulla piazzetta delle magnolie, dove di notte la vecchia fontana sembrava ancora più desolata che di giorno. C'era gente. C'era allegria paesana. Nell'aria odore di frutta secca arrostita e zucchero filato, e intorno ai piccoli porticcioli tanti tavolini occupati a sostenere i gomiti delle persone. Il cicaleccio mi disorientava. Sarò sembrato indeciso su dove andare a pescare Ludovico. Solo perché non avevo preparato una scusa per giustificare il cambio di decisione. Altrimenti sapevo che era nel bar Pacifico di Anna. Infatti lì lo trovai, completamente ubriaco. Sospettai il perché: aveva litigato con Anna, di nuovo, quindi non avevo bisogno di accampare la famosa scusa.
Prima di farmi largo tra la piccola folla, dove qualche signore sconosciuto mi salutò in virtù del fatto di essere nipote di Landino D. A., un'altra persona mi rivolse ossequio, la fruttivendola Vittoria, perennemente affacciata al parapetto del basso balcone di casa sua sopra il negozio. La ignorai. Non volevo mica che mi chiedesse in mezzo alla bolgia di salire per "spostare i mobili." L'adescatrice.
Quando vidi Ludovico così solitario, seduto al più vecchio tavolino giù, nel terrazzino all'aperto del bar Pacifico, mi impietosii. "No, Ludovico, hai scelto il momento più sbagliato del mondo per bisticciare con la tua ragazza!" Era tutto ciò che il mio sguardo diceva. Però con lui avevo un debito morale da onorare. Mi teneva compagnia quando più ne avevo bisogno. Quindi consumai quattro coni gelato, e stetti ore interminabili ad ascoltare la nuova - sempre la stessa in verità - tragedia "Capuletomontecchina".
Annuivo a ogni sua domanda o spiegazione. Tutte sconnesse. Dentro me però ringraziavo Sverre per avermi dato l'opportunità di essere presente per un amico in quel momento. Sarebbe stato stupido perdere anche Ludovico per il capriccio, giustificato, di stare il più tempo possibile con lui. Però poi mi chiesi se sarei stato capace di stare senza di lui sul serio. Se la nostalgia non mi avrebbe divorato. Mi aveva detto che lui sarebbe stato più male, non io. Dio non voglio che abbia ragione pure su questo! Perché mai lui dovrebbe stare peggio di me? Ho dato davvero così poco da non meritare nemmeno una dignitosa sofferenza?! Non era voglia di essere masochista la mia, piuttosto volontà di sollevarlo almeno da questa sofferenza, se solo la cosa fosse stata possibile. E se fosse stato possibile avrei voluto soffrire anche per lui, anzi, solo io per tutti e due.
Siccome al momento non potevo farmi carico del dolore futuro di nessuno, mi caricai Ludovico, letteralmente. In mezzo alla confusione dettata dai fumi dell'alcol, mi implorava di farlo venire a stare da me. Allora telefonai dal telefono del bar a casa dei suoi per avvertirli. Per fortuna non c'era stato bisogno di convincerli grazie al fatto che erano amici di famiglia. Almeno gli avevo evitato una ramanzina epocale visto com'era ridotto. Menomale gli avevo sottratto gli ultimi bicchieri. Odio l'alcol. Se dipendesse da me, lo bandirei e direi a chi ne fa uso per risolvere i propri problemi che la soluzione non si trova nel fondo del bicchiere.
Benedissi la ginnastica fatta insieme a Sverre. Portare in bici quasi a peso morto Ludovico non fu semplice. Pedalare, non fu semplice. Per fortuna mi si era stretto addosso scambiandomi per Anna visto le sdolcinatezze che mi stava sussurrando. In un altro frangente ne avrei approfittato, in quello no. Sarebbe stato come offendere Sverre, e anche un po' me.
Una volta raggiunta la cima della collina, Ludovico aveva smaltito quel minimo di alcol in corpo da consentirgli di essere più collaborativo, e finalmente lo portai in casa. Papà, mamma, Olga, Sverre, Atticus e Jennifer erano tutti in sala, accomodati sui divani a chiacchierare. Almeno fin quando feci la mia comparsa. Tutti si orientarono verso me e il mio amico. Nessuno disse nulla, eccetto papà che mi squadrava mentre facevo da supporto a Ludos. Era impassibile.
«Che c'era in quel gelato?»
«Che non c'era nelle bottiglie che si è scolato,» biascicai sfilando davanti col il mio amico quasi in spalla. Lo portai in camera mia. Grazie a lui non avrei incontrato Sverre quella notte. Lo misi a pancia in giù nel mio letto per evitare che soffocasse in caso di vomito. Scesi poi giù a mediare con i miei, che già volevano avvertire i suoi genitori di dove e come stava Ludos.
Riuscii a ottenere un compromesso: avrebbero mantenuto il segreto, ma la ramanzina gliel'avrebbero fatta loro. Conoscendo i miei, forse era stato meglio se lo avessi portato a casa sua. Scusa Ludos.
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