20 - Uno più uno, uguale... uno
Svenire di proposito per conciliare il sonno era stata un'idea stupida? No, perché sognai nonno Landino. Anche se non fu un sogno illuminante, l'averlo almeno ricordato mentre mi insegnava a innestare gli alberi mi rasserenò, e mi ricordò che avevo un lavoro da fare su Pitagora.
Menomale non aveva piovuto durante la notte. Mi svegliai al primo raggio di sole filtrato dalle forature del balcone. All'inizio non ricordavo d'aver deliberatamente voluto svenire per rilassare la mente, poi però, quel blu del cielo che si presentava come prima cosa da vedere me lo sbatté in faccia. Mi diedi dello stupido. Chiusi gli occhi e rotolai letteralmente fin dentro la camera. Sbattei la testa contro il piede del mobile accanto al letto, che male. Pazienza.
Già, pazienza. Pazienza per la botta in testa, pazienza per i pensieri che avevano deciso di ammutinarsi e saltar fuori in ogni momento. E pazienza, anzi, santa pazienza pure con Sverre, che come se nulla fosse mi chiamò per andare a correre. A patto però che non avremmo parlato del pomeriggio del giorno trascorso nel mio rifugio. Già, cioè, pazienza, si dice sia virtù dei forti. Non lo so.
Così, malgrado la piccola conquista, mi ritrovai di nuovo alla ricerca della radice dell'equazione fantasma. Però, col senno di poi, Sverre aveva fatto bene a zittirmi quella mattina, perché altrimenti sarei apparso agli occhi suoi più inconcludente che mai. Infatti, appena lo vidi volevo assalirlo di domande. per quel bacio, che tra l'altro per me era stato il mio primo. Del perché avrei dovuto riflettere, e soprattutto su cosa. Voleva darmi la possibilità di ritirarmi per non rovinare chissà quale parte della mia vita? Se era così, allora era lui a volersi tirare indietro. Chissà, forse per mancanza di una sorta di virilità che deve essere pedissequamente ostentata ogni volta che se ne presenti l'occasione. Il più delle volte la virilità la si dimostra reprimendo certe pulsioni in virtù di un senso di rispetto verso l'altro.
Eureka! Rispetto! Sverre voleva portarmi rispetto! Con quel "riflettici" e il bacio in bocca, mi stava dando la possibilità di scegliere tra due biglietti da obliterare. Di andata il primo, verso qualcosa di nuovo, tragico e impossibile da abbandonare una volta arrivato al capolinea. L'altro invece di ritorno. Proprio come quello che riconduce alla stazione di partenza, una sorta di gioco dell'oca che, proprio come un trastullo, ti conforta perché innocente e immacolato. Quale avrei scelto? Non avevo dubbi.
Mi costò una fatica indicibile restare in silenzio mentre facevamo ginnastica e durante la corsa. Io che trascorrevo giornate intere senza sprecare fiato, quel giorno volevo che la mia bocca esplodesse. Come mia abitudine è sempre stata però, quella di accontentare chiunque mi chiedesse di fare una cosa, rimasi in silenzio. No, se avessi aperto bocca l'argomento sarebbe stato quello di cui Sverre aveva deciso di tacere. Nemmeno lui si sprecò nel chiacchierare. Sapeva che imbeccandomi avrei imbastito il discorso su quanto era successo al nascondiglio. Quello che la pioggia, forse, aveva interrotto, e ripeto forse ancora, per il bene di entrambi.
Non mi godetti nemmeno la sua vicinanza. Era troppa la tensione che quel "riflettici" mi stava infliggendo. D'altra parte ero oramai assuefatto a lui. Era la proiezione di me stesso il suo modo di correre, di battere i piedi sulla strada. Il suo respiro che gli gonfiava il petto dava ossigeno anche a me. Il profumo del suo sudore che sognavo su di me, unito al suo corpo, era il premio di una di prova non contemplata da nessuna didattica della vita.
Di ritorno dalla corsa raggiungemmo la piscina, ci togliemmo le maglie, mantenemmo le brache addosso, e giù, dentro l'acqua. Lì almeno il buon senso imponeva sul serio di non parlare. Oh, quella piscina! Era avvenuto lì dentro il nostro vero primo incontro, era stato lì che ci siamo guardati in faccia sul serio. Quando, per lo scherzo di mio padre lui si era buttato con tutti i vestiti credendo che stessi affogando. Quando gli avevo restituito la collana di cuoio con l'opale che aveva rischiato di smarrire. E ora è stato lì, in quel momento, che Sverre mi prese la mano e mi baciò con trasporto, e con ancora quella malinconica disperazione che tanto avrei voluto togliergli.
Eravamo leggeri, fluttuavamo sorretti dall'acqua, benedetto il principio di Archimede. Ma sul serio a quello stavo pensando? Al fatto che un corpo immerso in un fluido riceve una spinta verticale pari al peso del volume del fluido spostato? Non potevo formularne uno io di principio? Non so, un bacio in acqua è migliore che non dato a tradimento dietro una porta che si vuole scardinare! Almeno sarei stato più presente mentre quell'uomo mi infilava la lingua in bocca in un modo che nemmeno immaginavo si potesse fare.
Risalimmo a galla non so dopo quanto. Sicuramente dopo pochi secondi, ma a me parve che anche il tempo in acqua aveva subito un alleggerimento. Come se si fosse fermato, come se in quei secondi ci fosse stato più tempo del reale.
«Stanotte fumiamo insieme.» Ruppe il silenzio con queste tre parole. Io, più confuso del solito, gli dissi che se voleva fumare gli davo il mio pacchetto, oppure glielo andavo a comprare. Scoppiò quasi a ridere perché non avevo afferrato al volo il senso di quelle parole. Era un invito. Anzi, era l'invito, il re degli inviti che si possa estendere a una persona. Voleva dire sì, un sì, sì, e ancora un sì in mezzo a tanti "no" che ci eravamo detti il giorno prima. Che rabbia! Ma ero davvero così immaturo? - Ohibò.
Sì, purtroppo. Lui lo sottolineò spingendomi la testa in acqua con una mano. Pazienza! Era proprio il caso di dirlo.
Preparai la colazione con un entusiasmo che non avevo avuto mai prima. Come gradita sorpresa si unì alla tavola fuori al terrazzo giardino anche Ludovico accompagnato da Anna. Quanto avrei voluto farli partecipe di quello che stavo vivendo in quel momento. Ma quel "riflettici" mi cascò in testa come una scure. In fin dei conti cosa caspita potevo dire al mio amico quasi fratello? Stanotte scoperò con l'australiano? Semmai glielo avessi detto, cosa avrebbe pensato di me? Sarebbe rimasto ugualmente un amico? Avrebbe voluto ancora frequentarmi? Ecco qui, è a questo punto preciso che avrei dovuto scegliere il biglietto da obliterare. La scelta era univoca, decidere di rimanere "il me" che voleva essere ancora "addormentato" nel castello in cima alla collina, o scendere, cambiare e confrontarmi con il mondo a muso duro; non potevo avere ripensamenti. Impensabile dire, nel caso non mi fosse piaciuta la nuova versione di me: "Ops, desolato, ho sbagliato biglietto, scelgo l'altro".
Non si trattava più soltanto di un peccato da soddisfare. C'era in gioco la scelta di definire ciò che sentivo di essere, o far finta di essere qualcun altro. Scegliere di continuare a indossare una maschera di vetro, oppure spaccarla in un modo così irreversibile da non poterla mai più usare.
Poi non so perché spostai l'attenzione su Sverre. Mi chiesi, una volta messe in evidenza le mie perplessità, quali erano le sue? In un senso lato, anche nonno Landino ai suoi tempi aveva ingaggiato una guerra parallela con sé stesso oltre quella reale assieme agli eroi partigiani tra le Alpi?
Poi come potevo tenere fuori dal gioco Tobia? Ormai a un passo dal diventare centenario, chissà com'erano andate le cose tra lui e nonno. Avrei voluto chiederglielo, se solo non fossi stato tanto troppo ubriaco di me stesso quel giorno.
L'euforia del momento scemò alla velocità della luce. Vedevo tutti seduti a tavola, papà, mamma. Anche Atticus, del quale ignoravo cos'avesse fatto il giorno prima, dato che non ricordavo averlo visto. Sverre accanto a lui che gli parlava nel loro idioma stretto, Olga e tre vicine di collina passate per chissà quale caso, e la coppia di amanti clandestini che si offrì di aiutarmi a servire la colazione. C'era armonia. Chiassosa normalità. Sembrava di dover chiedere dove sedermi, a casa mia.
"Ma allora, qual è il mio posto nel mondo?" Per quanto ancora avrei dovuto chiedermi: "Domani sarà tutto uguale? Dopo aver obliterato il dannato biglietto, io sarò lo stesso, potrò impormi di rimanere fedele a me? Quanto potrà mai cambiarmi la vita fare sesso con Sverre? Forse sarà il mio modo di pensare e vedere le cose a subire il cambiamento più evidente? Me lo si leggerà in faccia questo fottuto cambiamento? Mi chiameranno ancora con il diminutivo Diamantino? O col diminutivo del diminutivo Tino? Oppure Diamante, altisonante nome che sottintende la conquista di traguardi stratosferici".
Forse era stata l'attesa che giungesse la notte ad alimentare e ingigantire un ego che non sapevo di avere.
Non avevo ancora i requisiti giusti per compilare l'infinito questionario, che col trascorrere delle ore diventava sempre più sconfinato. Mantenni perciò fede al proposito del lavoro che richiedeva Pitagora, dopo aver assicurato a Ludovico e ad Anna un po' di tranquillità in piscina. Avevano accusato il caldo notturno giù a valle, e la pioggia del pomeriggio prima, come al solito, aveva intensificato l'afa, perciò erano venuti esplicitamente per trovare un po' di refrigerio. Poi c'era la amaca che avevano notato e chiesto di usare. Non c'era bisogno che chiedessero.
Sverre era andato allo zoo subito dopo colazione. Salutò la gioielliera, il Dottore, tutti meno me. Non me la presi però perché fece in modo che intercettassi il suo sorriso a volto basso per rassicurarmi, per evidenziare la nostra complicità. Sperai che il tempo accelerasse di colpo, e che lui non si soffermasse in qualche "bosco" all'ultimo momento. Ne sarebbe stato capace.
Ritornando al tempo che volevo scorresse rapido, giusto dopo aver sistemato i futuri sarmenti per i prossimi innesti di Pitagora, mi rasserenai. Non perché avevo ricevuto una illuminazione di qualche tipo ammirando le ramificazioni dell'albero, piuttosto per estenuazione dal troppo discutere con me stesso. Sì, estenuazione, era la parola giusta. Ero estenuato da tanto pensare. I pensieri, anche loro, prima o poi devono passare, come ogni cosa esistente in questo mondo.
Alla fine fu come aver chiuso gli occhi in pieno giorno e riaprirli scoprendo che era già sera. Ciò che avevo fatto, i lavori nel campo, le chiacchierate con Tobia, quelle con Ludovico, il mutismo affaccendato con Olga in cucina, e poi ancora le baruffe con mamma e papà, e di nuovo il silenzio con Atticus, il pranzo, l'attesa che tornasse Sverre, la cena. Un blob che vissi quasi senza sonoro, che alla fine ritornò stupendomi. L'ora della verità era addirittura già arrivata.
Era passata la mezzanotte e io lo attesi in camera mia. Tremavo. Avevo paura, e trattandosi di me, chissà che novità. Sverre aveva posto anche quel baluardo da superare, il timore, così che potessi avere una ultima chance di lasciare il mondo come lo conoscevo. E no! Non la volevo quella chance. Sentii i muscoli del viso reagire soli, mi nacque un sorriso spontaneo. Corsi alla porta, la oltrepassai senza chiuderla, diedi una schicchera a quella di Sverre.
«Entra.» Mi stava aspettando.
Entrai e lui era dietro la porta. Indossava la felpa rossa col cappuccio, la stessa che portava il primo giorno che lo vidi. Indossava solo quella, null'altro.
Non intuii la sua emozione quando aggiunse: «Stavo per venire da te.» Mi strinsi sulle spalle.
Ribattei intimidito.
«Vuoi che andiamo in camera mia?» Rise.
«Vieni.» Fece cenno con la testa. Mi pilotò sul suo letto che dava sulla portafinestra del balcone dove, a quanto pareva, ogni mattina sfamava uno scoiattolo. Non sapevo dove guardare. Eppure lui era là, difronte a me. Ero a disagio e lo capì.
«Siamo ancora in tempo per lasciare perdere.»
«Perché dovremmo lasciare perdere?» Trovai il coraggio di ricambiare il suo sguardo. Era disperazione quella che vedevo nei suoi occhi? Continuavo a chiedermi. Sospirò un sorriso. Mi tolse la maglia, mi spinse al letto e mi liberò di tutto il resto. Mi lasciò mezzo steso, e io per non perdermi le sue mosse, sollevai il busto impuntando i gomiti. Si avvicinò costringendomi ad allargare le gambe e lui con le sue le bloccò. Con un gesto rapido sfilò la felpa scoprendo con violenza tutto ciò che fino a un secondo prima avevo sognato. A quel gesto non sapevo cosa fare. Dove guardarlo. C'era un punto preciso dove concentrarsi? Il collo robusto puntinato di barba forse, o il petto dove i peli chiudevano a spirale i capezzoli tondi e sodi. Oppure il busto armonioso che invitava lo sguardo a scendere inesorabilmente verso i riccioli del pube e ancora verso ciò che la natura aveva disegnato esclusivamente per gli uomini. Lui non aveva dubbi sul fatto che non sapessi da dove cominciare, perciò, tutto ciò che aveva voluto facessi lo feci. E per tutto quello che aveva voluto farmi, lo benedissi.
Se mi aveva fatto male? Perché negarlo. E se mi era piaciuto vedere il suo volto fissarmi mentre si era fatto carico delle mie gambe sulle spalle e continuava a chiedermi: "fermami se non vuoi. Io mi fermerò." Sì, sì, e mille volte sì! Altroché se mi era piaciuto, l'ho adorato più di quanto sospettavo esserne in grado. Il mio corpo mi avrebbe dato torto se avesse avuto la possibilità di parlare per conto proprio, ma la parte migliore di me, quella dalla quale nasce ogni cosa, era al settimo cielo. Eravamo io e lui. Due corpi. Due sistemi armonici. Due insiemi di molecole che diventava uno solo. Due mondi fatti di atomi che si sono voluti, cercati, congiunti e infine esplosi.
Il silenzio che seguì il tumulto delle nostre carni esposte alla passione sopperì con dignità qualsiasi commento. Mi piaceva. Mi piaceva essere potuto rimanere con la testa appoggiata sul suo petto. Mi piaceva poterlo finalmente accarezzare. Mi piaceva poter essere libero di toccarlo. Mi piaceva che mi permetteva di essere libero di sfiorarlo ovunque.
E mi piacque che fu lui a spezzare il silenzio per primo. «L'hai trovato disgustoso?»
«Mh... - Ci pensai su cercando di capire quale risposta era la più esatta - no, assolutamente, forse un po' salato.» Scoppiò a ridere come non avevo sentito nessuno mai in vita mia. Avevo sbagliato risposta, intendeva dire a tutto ciò che avevamo appena finito di fare.
«Stupid, creasy boy!» Disse ridendo con una sfumatura di disperazione. O almeno era ciò che avevo visto. Mi sembrò lecito domandarmi: ma alla fine di questo viaggio, chi di noi era rimasto più sconvolto? A chi di noi il mondo sarebbe cambiato il giorno dopo? Non volevo pensarlo, però, a chi di noi due alla fin fine avrebbe fatto più male?
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