19 - Il ponte levatoio alzato
Se c'era una cosa che avevo odiato di quel pomeriggio nel mio rifugio segreto, era la pioggia cha aveva sorpreso me e Sverre. Aver sciolto il nodo impossibile da sciogliere era un evento che non andava premiato con un diluvio. Si sa però che nulla avviene in modo perfetto. La goffaggine mia nel dichiararmi a Sverre era stata iconica in quanto a imperfezione. La pioggia aveva sciupato un bel momento, ma non importava, finalmente Sverre sapeva tutto, ed era la sola cosa che contava.
Scattammo a rivestirci già dalle prime goccioline d'acqua, che avevano stemperato bruscamente le nostre schiene arroventate dal sole. Però avevo ancora in mente di raccogliere le fragoline selvatiche prima che tutta l'acqua del cielo le rovinasse. Usai la maglietta come sacco, e nonostante Sverre mi rimproverasse perché non capiva la smania che avevo di fare quel servizio, alla fine si unì alla spigolatura delle fragoline. In qualche modo riuscì pure a divertirsi.
La bisaccia di fortuna si riempì subito e così tornammo su a casa. Visto che eravamo già bagnati, non gli importò più di correre. Perciò si lasciò incuriosire da alcuni resti sparsi nel terreno. Erano travi e tronchi anneriti dal tempo, tagliati a fette e inchiodati con ferraglie ancora più scure. Mi chiese cosa fossero, convinto che lo sapessi, e aveva ragione. Facendo buon viso, gli raccontai che la villa anticamente era un castello. Il laghetto un tempo era una sorgente che circondava l'intera collina come un anello fluviale, perciò quelli che stava vedendo erano i resti del ponte levatoio. La stessa scalinata, che scoprii non conoscerla nonostante gliel'avessi accennata il giorno prima della commemorazione degli ebrei, in origine era la corsia della catena del ponte levatoio. Solo in seguito fu trasformata in scalinata. Mi confermò che aveva percorso tutta la strada esterna e aggirato la collina per venire a cercarmi.
Anche in mezzo al diluvio sentivo che gli piaceva ascoltare la mia voce, e a me piaceva che mi ascoltasse.
Lo pilotai lungo la stradicciola sterrata, dove mi graffiai la schiena con i rovi, ma non importava. Ciò che mi premeva era insegnargli il passaggio segreto, anche se non l'avrebbe mai usato. Forse. Quando entrammo nel ballatoio coperto, che lui scambiò per una grotta, e un po' l'aspetto era quello data la storia, sentii il bisogno di ringraziarlo. Lui mi fissò col fiato corto. Le gocce di pioggia che scivolavano sulla fronte, dal naso e dalle guance adornate di quella barba rada mi chiamavano. Non potendo rimanere sordo all'invocazione, salii due gradini per pareggiare l'altezza con lui. Lo baciai e succhiai l'acqua piovana incastrata tra i peli della barba durante quel contatto a fior di labbra. Mi piacque che non si fosse sottratto, piuttosto agevolato quel capriccio. Però inarcò le sopracciglia, sembrava stufo ed emise l'ennesimo no. Mi prese il mento con il pollice e l'indice e avvicinò la sua bocca. Voleva baciarmi, cioè, toccava a lui baciare me?
«Non qui, non adesso,» sussurrò lasciandomi andare. Qualunque cosa intendesse, o qualsiasi posto a me sembrava giusto e accogliente, persino la scalinata scavata nella roccia collinare, per me sarebbe stato il luogo perfetto.
«Quanto tempo ci vuole per salire?»
Eravamo al buio. «Non lo so, non ho mai cronometrato il tempo. Tieni presente che questi gradini percorrono tutta la lunghezza della collina.» Avrei voluto dirgli che quel passaggio scomodo un tempo aveva salvato delle vite umane, e che in quel momento la stava salvando un po' anche a me.
Sbucare dal pavimento della cantina era come uscire fuori dalla tana del Bianconiglio - tanto per rimanere fedeli al tema iniziale - non perché fosse stato divertente, anche se Sverre riuscì a farlo diventare uno spasso con le sue battute. Ma era stato anche estenuante, e raggiungere la superficie un traguardo da benedire. Ridemmo come folli, eravamo fradici e io invece di stare appiccicato a lui come sognavo, o come sarebbe stato giusto e lecito, stringevo la maglia imbottita di fragole. Il nostro baccano sorprese Olga che si trovava esattamente in quella cantina per attingere forse dell'olio, non ricordo. C'era anche mamma. Sentendoci, era accorsa dal laboratorio dove stava intervenendo ancora sui turchesi rovinati dalla commessa licenziata giorni prima.
«Guardali guardali! Con questo tempo siete usciti? Vi prenderete un malanno! Correte subito a cambiarvi! Madonna Madonna! Sei tutto graffiato!» imprecò mamma, accennando a una sberla che non arrivò mai; da che ho memoria non mi aveva mai colpito.
«Era per non sprecare le fragole ma'!» Le mostrai orgoglioso la maglia un tempo bianca ora tutta arrossata del succo dei frutti.
«E proprio la maglia dovevi togliere? Tra un po' andrai in giro nudo!» Si alterò, e Sverre rise, non perché aveva immaginato l'eventualità accusata da "Sisilia", bensì perché sapeva che già lo facevo laddove nessuno poteva vedermi. Però fu diplomatico e si tenne distante dalle mie piccole bugie evitando ogni complicità con la mia disonestà. E poi ero io quello furbo. Mi trascinò via, e mentre sfilavamo dinanzi a mamma e Olga, Olga mi osservò gelida. Durò un solo istante, un istante dove c'era dentro un mondo di ricordi suoi e di suo padre Tobia, che di mio nonno Landino era stato l'amante. Forse lei sapeva tutto di loro due e stava rivivendo le stesse cose osservando me e Sverre. Sperai non volesse accusarmi o giudicarmi, da lei non l'avrei accettato, mi avrebbe ferito qualsiasi commento.
Chiusa la porta che dava sull'ultima scalinata verso il piano terra della villa, mi bloccai per origliare. Sverre perse la presa sul mio braccio e si insospettì.
«Non può fare sempre tutto quello che vuole, signora Cecilia, dovete metterlo in punizione!» suggerì la cara vecchia stronza.
«E cosa faccio? Lo devo legare a una sedia! Perché qualunque cosa gli do da fare a lui piace!»
Sverre mi afferrò da dietro il collo e mi spinse a salire le scale. Lo scappellotto che mi diede era perché non piaceva che avessi origliato. A me scappò di ridere, a lui di rincarare la dose di scappellotti se non fosse stato sorpreso da papà che, con pipa in bocca e vassoio traballante in mano, transitava verso la cucina.
«Diamante! Mettiti a posto subito perché c'è Loredana che vuole ballare!» Il tono ammonitore perché ero a torso nudo. Gli ospiti dalla sala inclinarono i busti per inquadrare la mia sciatteria. Allargai le braccia e feci un mezzo inchino mantenendo lo sguardo fisso verso loro ma su nessuno in particolare. «Datemi un minuto e sarò subito da voi!» Chi era poi questa Loredana lo ignoro tutt'ora.
«Buffone!» borbottò ridendo il Dottore. Alzai le spalle e Sverre scosse la testa salendo in camera sua.
La serata scivolò via fastidiosa come la pioggia del pomeriggio. Facevo le cose come al solito, perché me lo chiedevano. Per dovere verso i miei. Come antidoto a quel fastidio attinsi dalla mente il registro di ciò che era avvenuto nel nascondiglio segreto; soprattutto l'emozione di sapere che a Sverre non ero indifferente. Mi estraniai completamente. Il mio corpo era là, quello fasullo, quello vuoto, quello che non conta. Tutto il resto invece, quello più vivo e significativo, era da un'altra parte. Ero così fuori persino dalla logica che non posso dire ancora oggi se davvero avevo ballato con quell'unica ragazza presente quella sera. Se davvero avevo ballato con lei, allora quella poveretta avrà avuto l'impressione che i fantasmi esistono, perché quella per me era trasparente e lo stesso io per lei.
Di tutt'altra forma e consistenza corporea era Sverre, quell'uomo che calamitava con ancora più forza il mio sguardo, il mio pensiero segreto, anche dopo che tanto segreto più non era, mentre si confrontava con gli ospiti che, come biasimarli, subivano il fascino australiano esemplificato nel sogno reale che lui era.
Avevo tante aspettative, più di quante ne riuscivo a quantificare, e in mezzo a un oceano di probabili possibilità, o meglio, l'esaudimento di un certo desiderio avrebbe segnato la soluzione finale della famosa "equazione fantasma". Qual era il desiderio? A questo punto potrei edulcorare il senso di questo desiderio, abbellirlo per un mio quieto vivere, per giustificare con una eleganza che non mi è mai appartenuta, l'atto che avrebbe segnato tanto la chiusura della porta dell'adolescenza quanto l'apertura del mondo degli adulti. In definitiva, volevo essere anch'io un "bosco" per il suo uccello.
Se c'era rimasta ancora qualcosa da chiedermi era: quando? Dando per scontato che anche lui aveva in mente le stesse cose mie. Io lo volevo subito, volevo lui, lo volevo anche col rischio di bruciare le tappe. A discapito pure di scoprire errata l'equazione fantasma. Potesse piacermi o meno, sul momento sapevo che almeno non mi avrebbe dispiaciuto tuffarmi tra le sue braccia, in mezzo alle sue gambe, o in qualunque parte di pelle aveva deciso di offrirmi.
Gli ospiti si attardarono ad andare via, benché per me era stato come se non fossero mai esistiti. Dovessi incontrarli oggi non li riconoscerei nemmeno. Anche mamma e papà trovarono più piacevole del solito trascorrere le ore piccole con Sverre, e lui mica si era tirato indietro. Di fatti mise uno dei suoi video documentari da vedere tutti insieme. Non sono mai stato un genio a capire certi atteggiamenti. Però mi stava evitando. Non avevo bisogno di scomodare nessuna logica numerica perché potessi esserne sicuro.
Ed ecco la risposta. Almeno per quella notte nessuna porta sarebbe stata chiusa, nessun mondo scoperto, ma solo un confusionario ritorno alle origini della genesi del peccato al quale aspiravo: io, che sospiravo, seduto a terra accanto a lui e sul divano dietro noi mamma e papà - e la onnipresente Olga - a guardare le sue prodezze immortalate nei video.
Ma stavolta si trattava davvero di prodezze, perché non era un documentario ciò che aveva messo, bensì le riprese dei suoi lanci dall'aereo e le spericolate acrobazie del suo skysurfing.
Non mi unii al divertimento dei miei. Vedere per un istante appena il cielo, seppur ascritto nel rettangolo dello schermo televisivo, mi faceva girare la testa. L'anablefobia, maledetta, è fatta così. Ma non me ne feci accorgere. Nemmeno quando stavo per perdere i sensi per essermi costretto a fissare Sverre in caduta libera mentre si avvitava a testa in giù, ruotando su sé stesso con ai piedi lo skateboard.
Fu una tortura della quale non avevo bisogno. Sperai terminasse quanto prima. Certo, potevo andarmene in camera mia a fumare mezzo nudo sul balcone, ma rimasi. Se non altro per accettare la sua volontà di condividere indirettamente una parte di lui, del suo mondo, di una delle tante cose che ci ricordava quanto fossimo diversi.
Oh, lo ricordo troppo bene, "non svenire", mi dicevo, "non mostrarti debole, vigliacco!" Poi finalmente finì.
«Che ne dici?» mi chiese Sverre al termine forse di un discorso al quale non avevo fatto attenzione, perché troppo preso dal cercare di non perdere i sensi.
«Ci vuole molto coraggio e lucidità mentale per fare tutte quelle cose,» Indicai il televisore finalmente spento. Lui, gasato, sciorinò un sacco di terminologie tecniche dello skysurfing e i metodi per eseguirli correttamente. Menomale, avevo dato la risposta giusta, non sarebbe stato carino deluderlo.
Quando mamma annunciò il suo ritiro, mi alzai anche io. Barcollai. Ero ancora scosso dallo shock visivo del cielo chiuso nella TV, e prima di rischiare di cadere, trasformai i movimenti in un ballo improvvisato e per renderlo più credibile coinvolsi mamma.
«Quanto dura la tua energia?» disse ridendo prima di essere trascinata via dal Dottore.
Rimasi solo con Sverre nella sala grande. Olga era stata la prima a cedere alle lusinghe del sonno.
Salimmo al piano di sopra e mi illusi che volesse farmi entrare in camera sua. Mi bloccò sulla soglia dandomi la buonanotte che si dà ai bambini. Ero confuso. Di nuovo. Volevo capire.
«Sverre io.»
«No.» mi fulminò prima che riuscisse a chiudere la porta la bloccai mettendo il piede sulla cornice.
«Togli il piede, devo chiudere a chiave,» mi ammonì con un sussurro per non disturbare i miei in fondo al corridoio.
«Chiudi pure a chiave, tanto so come aprirla lo stesso, e senza fare rumore.» Lui, sveglio, notò che i cardini della porta erano all'esterno, perciò intese che la cosa fosse possibile, soprattutto perché conosceva la mia attitudine da fai da te. Sbuffò senza sorridere. Mi prese per la maglietta in mezzo al petto e mi tirò dentro, con prepotenza, e mi baciò a tradimento sulla bocca.
«Riflettici!» disse secco. Poi mi mise sulla porta. Era successo tutto così in fretta che mi sentivo come risucchiato in un vortice. Tornai in camera mia già ossessionato da quella parola. Riflettici. Era un ultimatum. Riflettere, su cosa poi. Ma se non ho fatto altro dacché l'ho conosciuto, anzi, già da prima la mia vita era una lunga, estenuante riflessione. Poteva essere un avvertimento? "Se davvero andremo fino in fondo, molte cose potrebbero cambiare?" Se sì cosa? Io? Tu? Noi? Il mondo? O magari è perché andare in fondo alla questione non sarebbe stato come me lo immaginavo? Non potevo credere che quello era solo un mio capriccio.
"Riflettici " Forse ciò che gli stavo chiedendo non era una ingenuità, ma qualcosa di deflagrante, la rottura di qualcosa che poi non si sarebbe potuta più aggiustare. Io che di cose ne sapevo riparare, forse quella non sarei stato capace di accomodare. La scoperta di qualcosa di avvilente, la fonte del vuoto interiore. Ovvero, quello che succede alle donne che sono state con lui, che di lui a loro non rimaneva che un vuoto bisognoso di essere continuamente riempito. Una cupidigia sessuale inestinguibile. Se davvero stavo per andare incontro a qualcosa di simile, avrei voluto che qualcuno mi dicesse cosa fare. Non volevo fosse come scambiare un sasso per una gemma.
Mamma e papà, come li avrei visti dopo aver commesso quel peccato? Soprattutto mamma, che prima della mia nascita aveva perso le speranze di avere un figlio, come mi avrebbe visto, ipotizzando venisse a sapere cosa ero in realtà?
Oh! Ma come facevano tutte le donne avute da Sverre a fotterlo e dopo finito a fottersene di tutto e tutti?
No. Non potevo pensarci più, non ne ero in grado. Presi quattro cuscini e li buttai nel ballatoio del balcone, e poi mi misi a una estremità. Infine benedissi l'anablefobia perché alzai di proposito lo sguardo al cielo nero e crollai svenuto sulle imbottiture.
Silenzio, finalmente.
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