18 - Benedetta sia la Ospitalità
La prima a collaudare la amaca fu mamma, appena ritornata dalla "ronda punitiva" alla gioielleria di Udine. Fece in tempo a constatare che c'ero io a regolare i tensori meccanici della rete, salvata per un pelo dalle buffe grinfie di papà. All'inizio però era sospettosa, perché consapevole che a metterci le mani era stato anche il Dottore, per cui non lesinò simpatico scetticismo. Sverre, intuito il finto screzio che stava per innescarsi tra i miei, lo bloccò lo stesso sul nascere.
«Signora Sisilia - il suo modo di pronunciare Cecilia mi divertiva - Tino ha fatto tutto da solo.» Con estrema gentilezza poi la aiutò a sdraiarsi.
«Ah! È più difficile di quanto pensassi rimanere in equilibrio su questo coso!» Le tornò il sorriso, menomale. «Ottimo lavoro Diamantino!»
«Non credergli ma', l'abbiamo montata tutti e tre,» ribattei pacato, timoroso di contraddirlo. Ero imbarazzato, sentivo sulla schiena la nostalgia del suo petto, pochi minuti prima addosso, quando stavamo assicurando i bulloni. Mi guardai le mani, troppo presto orfane delle sue. Possibile che tutte le donne che hanno avuto a che fare con lui, col suo corpo, con la sua prestanza, soprattutto con quella sua spontaneità che strideva con la beffardagine machista, che ero sicuro ostentava in quelle occasioni, trovavano facile lasciarlo andare via? A quelle donne non rimaneva nulla a parte la soddisfazione del momento tacitamente concordato? Strano. Stavo provando compatimento per quelle là. Gli rivolsi uno sguardo intriso di smarrimento. Lui sentì addosso il peso. Lo intercettò. Se gli occhi potessero sul serio parlare, i miei avrebbero chiesto: "lo vedi quanto sto soffrendo?" Qualcosa sul suo viso cambiò. Il sorriso apparve smorzato, opaco, serio, l'aria beffarda evaporata.
Non avevo la forza di rimanere in terrazza a farmi giudicare da quell'uomo. Escogitai una scusa per andare a nascondermi in cucina. Lì avrei trovato il modo per sciogliere il nodo gordiano che mi impediva di conquistarlo.
Molti anni dopo, quando nacque il desiderio di leggere, alcuni libri mi raccontarono del nodo gordiano: il nodo impossibile da sciogliere. Era il nodo col quale era stato bloccato il carro di Zeus in un tempio a lui dedicato dalle parti della Frigia. Solo Alessandro Magno era riuscito a tranciarlo con la sua spada, e così, come aveva predetto la profezia di Sebazio, secondo la quale chi fosse stato in grado di liberare quel carro avrebbe conquistato l'Asia, Alessandro il Grande passò alla storia divenendo immortale. Io però non volevo mica un intero continente, non sono Alessandro Magno. Volevo solo un uomo.
Il nodo gordiano che mi riguardava, che non riuscivo a sciogliere, era la mia incapacità di chiarire le cose con Sverre.
Passarono i giorni e si avvicinava il momento in cui se ne sarebbe andato. Era questione di tempo, lo stretto necessario perché Jennifer ritornasse per accompagnare il fantomatico ambasciatore dell'ecosistema australiano a un convegno che si sarebbe tenuto allo zoo. L'immagine di un signore panciuto e impettito, con più puzza sotto il naso di quanta ne potevo immaginare, non mi aveva abbandonato sin dal primo momento che ne avevo sentito parlare.
Sverre non mancò più d'invitarmi a fare ginnastica, a correre, a rispettare la passeggiata in fondo alla piscina, prima di andare su in montagna a lanciarsi da un aereo, o giù in laguna a monitorare la salute degli animali di sua competenza allo zoo. Ma tutto iniziava e finiva quasi in silenzio. Non era ancora andato via e già sentivo la sua assenza. Cosa potevo fare io, privo di coraggio, se non curare l'orto insieme a Tobia, trascorrere del tempo al bar assieme a Ludovico e Anna, progettare modellini, e a ritagliarmi un'oretta per rifugiarmi nel mio nascondiglio segreto. Era lì che andavo quando meditavo di voler imparare qualcosa di nuovo. In uno di quei frangenti valutai d'imparare a dipingere, anche se le esperienze scolastiche delle medie mi gridavano: "cambia vocazione!"
Avrei tanto voluto non essere stato nel terrazzo giardino quella mattina quando, per uno strano scherzo del destino, quel paracadutista mi era finito addosso. Dapprima volevo solo conoscerlo. Così come i miei amavano conoscere e ospitare gente nella villa. Poi però avevo deciso di volere di più, un di più che non avrei mai ottenuto. Se fu questo il motivo che mi spinse a odiare? Sì. Ma non a rivolgere il mio astio verso lui, era verso me che cominciavo a provare repulsione. Come avevo fatto a illudermi che uno come Sverre di punto in bianco si sarebbe potuto interessare a me?
Un pomeriggio di quei giorni ormai incolori, approfittando della pennichella pomeridiana, che dopo pranzo coglieva con costante puntualità tutti gli abitanti della casa, compresi i nuovi ospiti a sorpresa di cui non mi interessa ricordare, scesi in cantina. Avrei potuto rimanere lì a godermi il fresco di quelle stanze scavate nella roccia, ma invece spostai la cassapanca che celava la scalinata segreta e la scesi. Ormai conoscevo ogni gradino che il tempo aveva eroso e reso ognuno un possibile inciampo se non si era abituati a percorrerli. Ogni fenditura e feritoia, rifugi d'insetti e ragni, era catalogata nella mia memoria tattile al punto che scendevo la gradinata accarezzando la parete e riconoscevo tutti i particolari, anche quello che indicava la cima e quello del fondo.
Uscire fuori alla luce della valle nell'anfratto selvaggio a ovest della collina, dopo essersi assuefatti alla pesante ombra della scalinata tortuosa scavata nella roccia, era piacevolmente sbalorditivo. Forse era questa una delle sensazioni che Charles Lutwidge Dodgson, alias Lewis Carroll, aveva immaginato per le avventure di "Alice nel paese delle meraviglie". Un libro che come tanti altri lessi in forte ritardo.
Mi incamminai con la stuoia e telo di spugna sottobraccio lungo il sentiero battuto che costeggiava le rocce della collina. Sfiorai le more dei rovi selvatici che scendevano ad accarezzare chiazze di fragoline spontanee. Mi sorse il desiderio di raccoglierle. Mi pentii di non aver portato un cestino. Siccome però non mi andava di risalire la scalinata per recuperarne uno, decisi che al ritorno avrei sacrificato la maglia trasformandola in bisaccia di fortuna.
La boscaglia era fitta, il passaggio era sempre ostacolato dalle ramificazioni legnose di novelli alberi di carpino bianco, che spuntavano in prossimità di quelli più sviluppati. Qua e là qualche frassino filtrava la luce solare che disegnava filigrane luminose sul terreno ghiaioso. C'era solo un tiglio, sul quale tronco io e il nonno avevamo inciso le nostre iniziali. Era quello il mio punto d'arrivo, dove più in là la terra era mescolata all'arenile e un gruppo di alberi di cerro si specchiava al laghetto di acqua sorgiva. Quell'acqua sempre pulita, invitava a bagnarsi.
Non avevo mai fatto vera attenzione a tutto il verde che mi circondava, lo davo per scontato. Sotto il cerro dalle fronde più lunghe e ricadenti, srotolai la stuoia e stesi su essa il telo di spugna. In quel momento ero solo io a produrre rumore. Un rumore che disturbava il frinire delle cicale, i concerti dei grilli, e indispettì pure un upupa. Mi sorprese vederla spiegare le ali da un ramo dell'albero che avevo scelto. Volò via con la cresta di piume arancio aperta a ventaglio. «Che meraviglia la natura!» Borbottai senza sentimento. Mi tolsi via tutto, maglia, pantaloncini e anche le mutande. Rimasi solo col berretto. Accettai l'invito del laghetto a bagnarmi. L'acqua era fredda, ma non tanto da essere insopportabile. Comunque non rimasi a lungo ammollo. Andai a buttarmi sul telo sotto l'albero.
C'era silenzio, finalmente. Niente chiacchiericcio degli adulti, nessuna attesa di entrare a far parte del loro club esclusivo, nessuna aspettativa di essere considerato. Nulla. Solo i canti degli uccelli e il cicaleccio soporifero degli insetti orchestranti. Chiusi gli occhi, ma senza tristezza. Mi parve strano. Forse perché conservavo, insieme all'ultimo brandello d'ingenuità dei miei allora quasi diciott'anni, l'esile speranza che con Sverre non era ancora tutto dato per finito.
Annegando in un mare di pensieri, giunsi a un labile dormiveglia. Faticai a realizzare che qualcuno mi stava chiamando.
«Ciao, Diamante!»
Dopo aver ricacciato l'intontimento del sonno, mi sollevai sulle braccia lentamente, un gesto meccanico dettato dalla memoria muscolare per l'abitudine delle flessioni che facevo ogni giorno. Chi mi aveva chiamato? Sverre! Crollai sulle braccia mentre lo vedevo avvicinarsi.
«Puoi metterti qualcosa addosso?»
«No.» Mi voltai dall'altra parte, privo di vergogna di essere nudo. Quella non era la prima volta che vedeva tutta la mia pelle esposta. Ero abituato. A scuola usavo frequentemente le docce insieme al gruppo di ginnastica. Se vedermi nudo lo imbarazzava il problema non era mio.
Ci fu silenzio. Sospettai se ne fosse andato, poi però sentii il leggero tonfo di sandali sulla terreno sabbia. Mi voltai e vidi la sua maglia e il resto sistemato su un masso levigato poco distante da me. L'odore dei suoi vestiti mi attirò. D'impulso lo cercai con lo sguardo, ma lui si era già buttato accanto a me, e come me tenne sollevato il busto sorreggendolo con i gomiti puntati a terra. Il volto serio. Gli occhi aridi. Non potevo sentirlo più distante di così. Nonostante ciò, la mia insistenza nel cercare un aggancio in mezzo al vuoto dei suoi occhi non vacillò. Toccava a me dire o fare qualcosa, qualunque cosa, eppure fu lui a esordire.
«Non sai più come farmelo capire, eh?» E finalmente mi confermò che sapeva che lo veneravo tutto, molecola per molecola.
«Vuoi che te lo dica chiaramente, a voce alta?»
«No.»
«Allora, posso baciarti?»
«No.»
In quel valzer cadenzato dai suoi dinieghi freddi e il tono grave di quella voce che mai avrei dimenticato, mi sarei maledetto per sempre se non mi fossi avvicinato alla sua guancia puntinata di corta barba castana, e che fosse giunto il sollievo o la dannazione eterna non mi importava, lo baciai sullo stesso punto della volta scorsa di notte mentre era addormentato in camera sua.
«È il secondo che mi rubi,» commentò. Dannazione. Allora era vero che quella notte quando ero scivolato in camera sua come un ladro, era sveglio, sveglissimo. Aveva compreso pure il senso di quel bacio, che non glielo avevo dato a tradimento, ma uno vigliaccamente estorto.
«Se vuoi, te li posso restituire,» biascicai, ora sul serio vergognoso di me stesso, per quello che avevo fatto. Giammai per ciò che ero e sono.
«Sei furbo,» sbuffò il migliore dei suoi sorrisi facendo rimbalzare la testa quasi sul suolo. «No, tienili, sono tuoi!» Ritornò serio a fissarmi col volto girato a tre quarti, gli occhi aggressivi.
«Non vado bene per te, lo sai?»
«No, non lo so. Lascialo giudicare a me,» sussurrai come una verginella turbata dalla troppa vicinanza a un uomo nudo.
«Tra poco tempo andrò via. Non voglio che tu soffra.»
«Più di così?» mi affrettai a sottolineare con foga, con il bisogno di espellere a voce il tarlo che mi stava divorando dentro.
«No, di più, di, così.»
Se non voleva che soffrissi nell'immediato futuro, quale poteva essere la soluzione da decidere calcolando le probabilità? Una vita insieme l'aveva esclusa perché aveva già deciso di non tornare mai più a R.. Quindi mi rimaneva solo essere un "bosco" per il suo uccello una volta e basta? Allora se c'era la possibilità almeno di essere la sua puttana per una notte, così come nei miei assurdi fantasmi immaginari mi avevano suggerito di diventare, volevo saperlo subito se potevo realizzare almeno quel desiderio. Me lo sarei fatto bastare.
«Ti sono indifferente?» Dentro me gridavo: "è la prova del nove".
«No.» Buttò di getto il responso senza nemmeno riflettere. Sapeva che glielo avrei domandato.
«Ma non vorrei provocare un danno, forse non dovevo rimanere.» Riusciva a incolparsi senza far trasparire reale contrizione. Io però riflettei sul fatto di non essergli indifferente. Possibile? E se fosse stato per me che aveva accettato la ospitalità dei miei? Allora, che il signore benedica in eterno la "ospitalità", che possa un giorno assurgere tra le virtù angeliche più favolose.
Quell'ultimo "no" mi autorizzò a sfiorargli il braccio e lui seguì incuriosito la mia curiosità tattile. Alcuni peli dell'ascella sbirciavano fuori dall'incavo brachiale. Non resistetti all'impulso di toccare pure quelli. Si mosse un po' infastidito, l'avevo solleticato, però a me nacque il desiderio di annusarli e quando mi avvicinai per farlo mi spinse via la testa, delicatamente, e mi strappò una mezza risata.
«No,» disse ancora, ma stavolta sorridendo di compassione. «Sto commettendo un errore, lo sai?»
«No, non lo so, se non l'hai ancora capito, io non so un bel niente.»
«Furbo,» ripeté, ma senza malizia o senso di giudizio. Dopo un po' si alzò di scatto. «Vado a fare il bagno.» Aveva deciso per sottrarsi alla mia curiosità. Potevo seguirlo? Mi disse "NO!" Indicandomi minaccioso mentre accennavo ad alzarmi. Rimasi fermo. Forse un po' deluso, e imbronciato. Tornai a sdraiarmi. Peccato. Da com'ero posizionato non avevo avuto modo di guardarlo. Però sorridevo come un perfetto ebete.
Tornò il silenzio tra noi. Il frinire delle cicale si fece più intenso, poi di colpo cessò come se qualcuno avesse abbassato l'interruttore. C'era un solo motivo per cui gli insetti musicisti fermano il concerto: la pioggia imminente, come mi aveva insegnato nonno.
Quando ritornò Sverre me ne accorsi, nonostante i suoi passi silenziosi. Scivolò alle mie spalle e mi mise il berretto in faccia, così da evitare che lo guardassi mentre si chinava sul masso dove aveva sistemato i vestiti. Ma non riuscì a nascondere ai miei occhi l'uccello penzolante in una posa indecente. Avevo sbirciato di nascosto. Tirò fuori dalla tasca del suo pantalone le sigarette e me ne offrì una, dopo essersi steso nuovamente accanto a me. Mi piaceva la sua vicinanza, anche senza il contatto fisico che ricercavo. Mi piaceva pensare a lui con lui presente. Alimentare all'infinito la voglia che avevo di stargli il più vicino possibile.
«Non ne posso più!» disse di punto in bianco. Temetti di averlo annoiato, di avere fatto qualcosa di sbagliato. Mi allarmai. Avevo sciupato tutto senza rendermene conto.
«Spezza il silenzio... Raccontami di me!» disse sbuffando fumo dalla bocca e dal naso. Cercai di comprendere cosa voleva che dicessi, e per prendere tempo aspirai il fumo imitando il suo modo di fumare. Forse voleva che gli raccontassi di me Diamante? No. Era stato preciso nel domandarmi di raccontargli di "me" inteso come lui in realtà. Così decisi, e gli raccontai del paracadutista che mi aveva sconvolto l'estate, forse tutta la vita, giacché di Sverre feci il metro di misura di tutte le pallide "felicità" conquistate dopo lui.
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