Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

13 - Notazione specifica: sono un imbranato

«Posso venire anche io, allo show?» mi chiese Sverre, dopo essersi preso tutta l'attenzione di mamma, papà, Ludovico, Anna e pure quella di Olga, che con un pretesto assurdo si era unita al salotto solo perché c'era lui. Mi stava prendendo in giro, le labbra in procinto di sorridere bloccarono sul nascere l'irritazione. Che grande errore. Aveva inteso che volessi ferirlo e mi stava dando l'occasione di chiarire in faccia a tutti quanto lo detestassi. Dovevo correggere l'imperfezione. Incrociai il suo sguardo, e provai una morsa alla gola. Mi uscì fuori un: «Va bene.» Vergognoso.
Avrebbe declinato, ne ero sicuro. Stava cercando la maniera più delicata per lasciarci, col sottinteso che non sarebbe più tornato a R. L'avevo capito. Detestavo quando capivo le cose, perché il risultato matematico era sempre esatto.

Promise di essere dei nostri la sera dopo. Il suo accettare mi suonò come un favore personale a me. Per non apparire troppo entusiasta avrei voluto fingere felicità, scimmiottare indifferenza, ma ero contento sul serio, troppo per poterlo nascondere.

Ero contento anche che papà avesse proposto di guardare un altro documentario di Sverre. L'avrei suggerito io, ma avevo paura di esagerare con i segnali, ormai lui sapeva, sapeva tutto, me ne convinsi di nuovo. Me lo confermò il fatto che mi lasciò libero di armeggiare con la telecamera e i fili da collegare, deludendo l'attesa di una sua vicinanza fisica. Arruolai Ludos e la cosa lo innervosì, me ne accorsi da come aveva sbattuto le mani sulle cosce e camuffato quella reazione improvvisando un discorso da adulti. Mi spiaceva averlo irritato, ma non troppo. Sapeva però come rifarsi, perché divenne invadente, si mise a spiegare ogni cosa del filmato, tutto pur di distrarmi da Ludos, che ingenuamente mi toccava la schiena e mi sussurrava battute divertenti sugli strani animali che sfilavano nello schermo.
«Che carini, sembrate fratelli!» Ci disse Anna, osservandoci da dietro seduta insieme agli altri sul divano grande.

«Per me Tino lo è. Con il permesso del signor Sebastiano e signora Cecilia!» I miei risero complici.

Menomale che ero di spalle, seduto sul pavimento, altrimenti avrebbero chiamato il centodiciotto per come ero arrossito. Ludos era il castello tra le nuvole che avevo eretto prima di quello di Sverre. Proprio come la storia della villa ex castello distrutta e riedificata. Però, la dichiarazione di fratellanza mise un freno all'agitazione di Sverre, lo percepii da un sospiro, era il suo, era il preludio di un sorriso importante.

Finito il divertimento e spenta la TV, mamma e papà furono i primi ad abbandonare la sala, seguiti a ruota da Olga. Sverre si congedò un po' dopo, quando si assicurò che la sua preziosa telecamera fosse correttamente riposta nel borsone. Prima di salire in camera si avvicinò a me e Ludos. Noi ancora ridevamo delle sue battute. «Buonanotte stupidi,» disse per rinverdire il nostro divertimento.

Rimasi solo io in mezzo a Ludos e Anna sul divano. Mi ci vollero pochi secondi per capire di essere di troppo, e così lasciai gli amanti clandestini ad amoreggiare tranquilli.

Cosa avevo imparato da quel giorno? Che le sorprese possono non finire mai. Infatti, dopo aver indossato la canotta, e rimasto con solo quella, mi accinsi al mio solito rituale della sigaretta, quando sentii: «Apri la porta.» Era Sverre! Era lui! Voleva entrare in camera, di notte! Mi agitai. Gli aprii e lui entrò. Studiò rapido il caos delle mie cose sparse ovunque, i tavolini pieni di cianfrusaglie e progetti, l'arco che divideva la saletta in due ambienti e il secondo letto oltre la tenda di velluto verde. Sarebbe sembrata una camera quasi padronale se non fosse scambiabile per la succursale del garage, ma lui non si scompose. Vivevo di lavoretti, come li chiamavo io, e chi mi conosceva imparava a farsene una ragione.

«Ho finito le mie sigarette, me ne offriresti una, dopo esserti messo qualcosa addosso? Ti prego, non so più dove guardare per...» sbuffò un sorriso imbarazzato. Non l'avrei mai detto. Comunque aveva ragione, avrei dovuto infilarmi di nuovo i pantaloncini prima di correre alla porta. La cosa più strana era che io non mi sentivo affatto imbarazzato.

Rimesso un po' di decoro al mio basso ventre, tirai fuori il pacchetto delle sigarette, glielo porsi e lui ne estrasse una. Voleva fumare in camera mia. Ma un momento.

«Tu fumi davvero allora?»

«Ti sorprende?» feci spallucce.

«Posso?»

«Sul balcone, vuoi una sedia?» Se la prese da sé e io lo imitai.

«Sei fortunato, vivi in un bel posto,» esordì, mentre disegnava riccioli col fumo espulso dalla bocca. Mi soggiogava la mascolinità spontanea dei suoi atteggiamenti.

«In origine abitavamo a Ginevra. Poi ci siamo trasferiti per un annetto vicino Londra, e alla morte di mio nonno Landino siamo venuti qui,» dissi tutto d'un fiato per non annoiarlo.

«Siete cittadini del mondo,» sorrise con un calore che non gli avevo mai visto. «Io sono nato in Australia, da padre norvegese e madre veneziana, a volte però torno in Norvegia a Hardanger, lì c'è un fiordo molto alto dove ogni anno si organizzano gare di lancio.»

«E ti sei lanciato?»

«Ogni anno. Tranne quest'anno.» Non indagai oltre, già solo immaginarlo buttarsi da un fiordo mi faceva girare la testa. Non gli chiesi se avesse mai avuto paura, perché era chiara la risposta. Lo invidiai, ma nel senso positivo. Lo ammiravo, m'incantava il movimento delle sue labbra, circondate dai corti peli della barba. Come luccicava alla luce della lampada esterna del balcone. Vederlo circondato dalle piante fiorite nei vasi appesi lungo il parapetto mi distraeva piacevolmente. Avrebbe potuto rimanere in silenzio, l'avrei osannato come il più trascinante degli oratori. Tutti gli aneddoti che raccontava erano parte di lui, ora di me, di noi. Ogni tanto azzardavo a interromperlo introducendo la mia pochezza d'esperienza, e lui mi ascoltava. Mi ascoltava! È stato il momento più eccitante della giornata. Stavo discorrendo come fanno gli adulti. Lui mi permetteva di stare al passo, o forse rallentava di proposito per non lasciarmi indietro, per me faceva lo stesso.

Non mostrò imbarazzo quando gli argomenti sembravano esauriti. Si lasciò osservare, non come una statua scolpita dal migliore degli scultori, e nemmeno con dolcezza, e non ostentava virilità neanche nell'allargare le cosce ed emettere gli ultimi sbuffi di fumo. Non fece una piega quando gli cadde un mazzo di chiavi tenuto insieme da un ciondolo. Glielo raccolsi rapidamente, forse ero sembrato servile, ma non mi importava. Studiai il ciondolo, era un minuscolo cubo di Rubik tutto in disordine.

«Posso?» Capì che volevo rimettere a posto le tessere colorate ciascuna in ogni facciata.

Fece una smorfia. «Io ci ho rinunciato da una vita.»

«Sai, c'è il trucchetto di David Singmaster per risolverlo,» bisbigliai mentre facevo i calcoli e ruotavo le placchette. Mi chiese chi fosse. Feci in tempo a risolvere il cubo di Rubik prima di raccontargli della vita accademica del matematico, autore della formulazione della: notazione specifica - la più adottata ancora oggi per risolvere il rompicapo che avevo appena restituito. Se lo rigirò davanti al naso e gli scappò una smorfia.

«Sei furbo!» Chissà perché mi aspettavo un altro giudizio. «Aggiusti tutto.» Si guardò attorno. Sembrava indeciso su cos'altro dirmi, perciò gli tolsi l'impiccio.

«Posso venire allo zoo con te?» arrossii come una verginella che chiede al suo uomo di mostrarglielo. È vero. Aveva già esteso l'invito ai miei, ma era rimasto tutto in sospeso. Oltretutto la mia richiesta era diversa. Volevo stare da solo con lui. Più chiaro di così.

Lo fu. Promise di organizzare un giorno.

Lo stesso non potei dire di me, perché quando si alzò dalla sedia e mi diede una schicchera sulla visiera del berretto, mi disse che la sua camera era di fronte. Ovvio che era difronte alla mia. Non carpii però l'invito a seguirlo. Quando il mattino seguente realizzai d'aver perso l''occasione, mi diedi dello stupido insieme a tanti altri epiteti.

«Forza! Alzati pelandrone!» sorrisi alla voce di Sverre. Non era arrabbiato, forse un po' scocciato, ma non potevo biasimarlo. Quanto ero stato stupido a non aver compreso. Forse voleva esaudire il mio sogno. Ero pieno di felicità, ma non di quella solita fisica, quella era sempre presente quando lui era nelle vicinanze, ciò che provavo era il prodotto della sua compagnia, di ciò che avevamo condiviso, dei momenti impacciati e del disordine delle nostre parole.

Uscii dalla camera con il viso mal lavato, vestito in fretta e furia, e non mi ferì lo sguardo altezzoso. Senza usare le parole, mi accusò di essere solo un ragazzino che non capisce niente. Finché avessimo fatto ginnastica insieme, corso su e giù dalla collina e passeggiato in fondo alla piscina, poteva esprimere qualsiasi stato d'animo con quegli occhi.

«Fai piano, non fare rumore!» mi fece il verso in bisbigli mentre scendevamo le scale, tanto per darmi la conferma che non era davvero risentito per ciò che avrebbe potuto accadere la notte appena trascorsa. Per "punirmi" però, immaginai avesse indossato a posta lo stesso short blu e il vogatore della volta scorsa. In pratica stava esercitando il ballo cerimoniale degli uccelli del paradiso, le paradisae che imparai a conoscere grazie ai suoi documentari.

Al ritorno dalla corsa volle salire per la scorciatoia per entrare nel terrazzino di Pitagora. Lì sorprendemmo Tobia, che però ci lasciò soli nonostante il mio invito a tenerci compagnia.

«Pitagira,» disse Sverre storpiando il nome dell'albero. Lo corressi. Non mi ero accorto che non aveva compreso la pronuncia.

«I frutti sono buoni,» lo rassicurai mentre lo vedevo studiare la ramificazione del mandorlo. Ne staccai una manciata e lui mi seguì con lo sguardo. Lo invitai a sedersi sul muricciolo roccioso, poi appoggiai i frutti su un masso vicino e li ruppi con un sasso. Gli allungai i cuori delle mandorle, i tesori bianchi nati dai fiori. Era un po' scettico quando ne mise uno in bocca. Poi sorrise come un bimbo appena scoprì la dolcezza.

«Wonderful!» Lo sapevo. Gli offrii tutti quelli che voleva, prima di passare alla ramificazione delle albicocche e poi anche delle pesche. Grazie a Pitagira facemmo colazione a base di frutta in piedi, nella terra e insieme, ed era tutto perfetto, tranne il tempo che minacciava pioggia. L'aria era acquosa e il sole velato dalle nubi. In pratica annaspavamo nell'umidità. Sverre annunciò che sarebbe piovuto, ed era contrariato perché non poteva fare skysurfing. Perciò, dopo aver esaudito, ed esaurito, tutti i crismi ai quali ci eravamo abituati e rincasammo, decise di andare allo zoo. Però promise ai miei che sarebbe venuto la sera direttamente in piazza per assistere allo spettacolo dei gitani. E siccome vennero giù per davvero una serie di acquazzoni, non potei lavorare l'orticello, non potei andare nel mio posto segreto, non potei fare nulla, solo contare le ore prima di sera. Nemmeno Ludos era stato incline a farmi una improvvisata. Ero nervoso.

Venne sera finalmente, indossai anche la camicia tanto cara a mamma che mi voleva sempre elegante, a suo dire, e comunque avrei fatto di tutto pur di uscire di casa. Gli acquazzoni non avevano rinfrescato l'aria. L'umidità diede alla gente maggiore motivazione per riversarsi in piazza Pacifico. Di fronte alla palazzina del comune, nascosto dal palcoscenico tutto illuminato da suggestive luminarie variopinte, c'erano sistemate file di sedie dove la gente iniziava a confluire. C'erano i posti d'onore, quelli per il sindaco Mariarosa Michielin, che ebbe lo squisito pensiero di riservarne due ai miei genitori. Per il resto, io dovevo arrangiarmi a sedere alle loro spalle, e menomale che mi raggiunsero Ludovico e Anna, altrimenti avrei dovuto sedermi accanto a Marika, che già stava arpionando con lo sguardo chiunque somigliasse anche vagamente a Sverre. Quanto mi irritava quella! Comunque dell'australiano dei miei pensieri non c'era nemmeno l'ombra. Non veniva, pensai. A costo di perderci, preferivo fosse meglio così, avrei goduto della delusione di quella là, che già come mi vide non perse occasione per punzecchiarmi. Chissà cosa le avevo fatto per essere così piena di acredine. Eppure dovevo ammettere che era attraente, indossava un abitino attillato con le spalline a stringhe allacciate. Più volte Ludos le consigliò di allontanarsi, ma dovette voltarsi mia madre per risolvere la situazione.

«Gira alla larga da mio figlio, ragazzina!» la minacciò, e io iniziai a scivolare sulla sedia nel tentativo di nascondermi dagli sguardi curiosi della gente attorno.

«La lasci stare, è mia figlia!» si aggregò la madre di Katia.

«Le credo sulla parola signora!» ribatté mamma, alludendo averlo capito dallo stesso abito scollato che le due portavano.

«Mia figlia è libera di fare quello che vuole!» alzò la voce.

«Ma si capisce! È libera come una spiaggia che aspetta l'ombrellone giusto!» La madre di Katia, smorfiosa, si girò dall'altra parte e richiamò la figlia. La reazione aggressiva di mamma mi insospettì. Mi girai verso Ludos che, come un effetto domino, si voltò verso Anna. Aveva trovato la maniera di spifferare l'infelice episodio in spiaggia avuto con Katia ai miei, e fu allora che volevo sprofondare nelle viscere della terra sul serio. Menomale che lo spettacolo iniziò presto.

«Ci sono le donne nude,» constatò papà, fissando una giovane ragazza. Era coperta solo dalla vita in giù con pochi veli e un reggipetto a fascia. Mamma rise. E siccome avevo colmato la misura dell'imbarazzo, con la scusa di cedere il posto a una signora anziana, andai in fondo alla folla. Ma non rimasi solo, Ludos e Anna mi raggiunsero all'istante. Snobbammo lo spettacolo con le nostre chiacchiere. Almeno fino a quando non esplosero i tamburi e tutti in piazza orientarono gli sguardi verso cosa stava succedendo sul palco.

Anna indicò le artiste succinte, e coprì gli occhi a Ludos. «Che razza di ballo è?»

«Danza del ventre, cosa per sole donne,» risposi, anche se il ritmo mi piaceva da pazzi. Le odalische si muovevano a tempo, sorridendo al pubblico.

«Bugiardo! C'è anche una coppia di maschi che balla!» mi corresse Anna, e stavolta fu Ludovico a coprirle gli occhi. Io invece non resistetti. Il ritmo musicale era trascinante, e il mio corpo sfuggì al mio controllo. Ma se avessi saputo a quale situazione stavo andando incontro, avrei dominato l'istinto danzante. Infatti, mi ritrovai tirato per le braccia da due odalische, scese di proposito dal palco da dove mi avevano adocchiato. E Ludos, divertito, diede loro una mano spingendomi da dietro.

«Vieni! Vieni!» dicevano quelle. Sapevo d'aver superato la gradazione di rosso sul viso perché cominciavo a vedere tutto viola. Tra la folla incrociai i volti di mamma e papà, distorti dalle risate che stavo suscitando. Compresi che stavo per morire socialmente. Sospirai. Se proprio devo, facciamolo bene; tanto le cose quando vanno male poi peggiorano, è una costante matematica patrimonio di tutti, tant'è vero che finalmente notai Sverre affacciato sul balcone della fruttivendola Vittoria. Aveva detto si sarebbe fatto vedere in piazza, ma proprio da quell'altra doveva andare? Quella che con la scusa di spostare i mobili faceva entrare in casa uomini di tutte le età. Non era nemmeno distante dal palco, aveva la visuale perfetta, e chissà da quanto era stato là a osservarci.

Abbandonai il broncio e mi concentrai sul giovane ragazzo che incitava la folla a incoraggiarmi. La musica tornò a colorare l'aria, e con molto impaccio mi adeguai ai movimenti dei due ragazzi che, accidenti! Non erano gitani, erano arabi. Indossavano con disinvoltura i tipici calzoni a sbuffo a vita così bassa da intravedersi i perimetri dei pubi. Indecenti, e anche sorridenti, come le due ragazze che abbandonarono le linee di ballo il tempo necessario per aprirmi e togliermi la camicia. Dopo quella perfetta umiliazione pubblica mi rimaneva solo decidere se tumularmi vivo sulla collina il giorno dopo, oppure fuggire di notte a Ginevra e non tornare mai più in Italia. L'espatrio mi sembrava l'opzione più opportuna.

Come diceva sempre il Dottore, quando la situazione è difficile, affrontala a testa alta. Così imitai i passi dei ragazzi, che almeno non sculettavano teatralmente come le ragazze. Assomigliava a una versione più sofisticata dell'hip-hop, c'era pure "l'onda", ma il tutto era giocata sul controllo dei muscoli addominali, e il tipo con i lunghi capelli neri e arricciati era formidabile, faceva vibrare a comando ogni fascia muscolare dell'addome.

Non avevo fatto una bella figura, ma almeno l'attività fisica svolta da anni mi fece portare a casa il punto della bandiera. Alla fine mi aspettai fischi, insulti e uova marce. Invece la compagnia di ballo mi applaudì e anche il pubblico; mia madre si sbracciò euforica, la solita esagerata.

Qualcuno chiese pure il bis. A quel punto sì, saltai giù dal palco, indifferente alle risate di mezzo paese. Avevo dimenticato pure di riprendermi la camicia e inaspettatamente "capelli ricci" me la riportò, mentre Ludovico mi faceva scudo contro la gente invadente che voleva congratularsi. Che casino!

«Posso offrirti da bere?» mi chiese sfrontato, trascinandomi via dalla bolgia fino ad arrivare nel tranquillo retro del palco.

«Sono Naadir.» Mi porse la mano e gliela strinsi. Eravamo entrambi sudati marci.

«Diamante.» Lo guardai negli occhi scuri e mi sorrise.

«Sei molto bravo, ti piacerebbe unirti alla mia famiglia?»

"Eh?! Famiglia?!" Mi spiegò che tutte le ragazze e ragazzi danzatori erano suoi fratelli, differivano ognuno di a malapena un anno di età. Ero scioccato, ma non tanto da dimenticare un minimo di diplomazia.

«Sei gentile a credermi all'altezza della vostra arte, ma io ho una mamma e un papà che mi spettano.»

«Ah, sì. Dove abiti, vengo a trovarti.»

«Se vorrai, sei mio ospite. Abito nella villa in cima alla collina qui vicino.» Scoppiò a ridere, ma non gli diedi peso. Forse non mi aveva creduto.

«Sono invitati anche tutti i tuoi fratelli.» Da come mi fissava capii che aveva compreso la mia serietà.

Naadir chinò lo sguardo. Forse era dispiaciuto, ma anche gentile, mi aiutò a rimettermi la camicia.

«Posso baciarti?»

«No.»

«Peccato, peccato, peccato, non averti incontrato prima, peccato...» ripeteva mentre si allontanava. Rimasi basito, ma anche sollevato. Lo vidi voltarsi solo una volta con in bocca ancora il mantra: "peccato." Gli feci il verso con un'alzata di spalle: «peccato!» Chissà quale storia si portava dietro quel bel ragazzo. Mi chiesi se un giorno l'avrei rivisto di nuovo, e nel frattempo realizzai d'aver perso l'ennesima occasione di fare esperienza. Mi guardai attorno, e prima di ributtarmi nella folla alla ricerca dei miei, sorpresi Sverre a osservarmi dal balcone. Aveva visto tutto. Ballo e dopo ballo. Eppure il balcone della signora Vittoria non era molto alto. Ero pieno di vergogna per me stesso. Pure lui doveva provarne per sé, visto che il suo uccello era volato in tutti i boschi del circondario. E la fruttivendola, a detta dei paesani, era un bosco di larga accoglienza. Perciò non seppi a chi dei due calzava meglio l'epiteto di puttana. Ma vergogna lui non ne provava perché ci raggiunse nel momento in cui stavamo rincasando con la jeep. Entrò festoso. Si sedette sul sedile dietro dov'ero io, e nonostante la solita affabilità con la quale prese a scherzare col Dottore e mamma, a me serbò uno sguardo così feroce che non riuscii a sostenere. Dov'era il coraggio che avevo avuto prima? Mi girai dall'altra parte.

Arrivare a casa fu un calvario di risentimenti. Io e Sverre stavamo dando il massimo per sfuggire l'uno dall'altro, e la cosa più terribile era che ne eravamo consapevoli, e ugualmente non riuscivamo a porre un rimedio. Mi fiondai in camera mia senza salutare nessuno. La lunga doccia fredda mi tolse un po' di umidità e sudore di dosso. La solita sigaretta sul balcone mi distese un po'. Rimasi molto tempo in piedi, ma non era una novità, mi addormentavo sempre con fatica. Il silenzio notturno e l'oscurità che mi impediva di vedere il panorama oltre la porzione del terrazzo giardino mi inquietava. Solo le lucine del borgo calamitavano lo sguardo e mi faceva rimuginare su Naadir e la richiesta disattesa di un bacio. Che sfrontato! O forse ero io ad averla presa per il modo sbagliato, magari un bacio a uno sconosciuto poteva essere emozionante. Ciò che mi aveva frenato non era stata solo l'irruenza con la quale mi aveva proposto di baciarlo. Piuttosto per il pudore di non tradire Sverre. Anche se a tutti gli effetti non gli dovevo proprio un bel niente, e al suo sguardo feroce in auto, col quale mi implorava di odiarlo, risposi in tutt'altro modo. Odiare è faticoso, estenuante, ti consuma dentro. Impedisce di tirare fuori il meglio da se stessi. Così mi diceva nonno Landino. Aveva ragione. Odiare implica l'impiego di molta intelligenza, appartiene alle attività cerebrali che si affannano a mettere in ordine il caos prodotto dall'inquilino più in basso, il cuore. Il mio era davvero dispettoso, ne procurava di lavoro ai piani alti.

Quanto picchiava duro il cuore quella notte! Era così assordante da farmi vibrare le orecchie e sentir pulsare le radici dei capelli. Il rumore a momenti copriva anche i passi in corridoio, erano quelli di Sverre. Lo sapevo, li riconoscevo ormai. Era lui che aspettavo entrasse in camera mia come fosse la sua, e nei miei sogni la nostra. Ma non venne. La porta dirimpetto si chiuse delicatamente. Il discreto cigolio della maniglia suonò come un addio.

Attesi lo stesso, forse avrebbe avuto un ripensamento, o magari stava ripassando il testo delle cose che voleva raccontarmi. Magari ero io che mi stavo sopravvalutando come il misogino egocentrico che ero. Ma non me ne fregava niente. Senza nemmeno valutare le conseguenze, ero già dietro la sua porta. Era trascorsa appena una manciata di secondi e già dimenticai d'aver percorso i pochi metri che mi separavano dalla sua soglia. Se le buone intenzioni alimentano i timori, quelle sbagliate si armano di coraggio, è la vita. E io stavo per compiere una pessima azione. Aprii la porta lentamente, la luce accesa mi sorprese come fossi un ladro. Lo chiamai ma non rispose. La linea verticale della porta svelò l'ordine della sua camera. La porta aperta del bagno emanava ancora vapori profumati. Sul tappeto le orme dei piedi segnavano il percorso verso il letto dove lo trovai addormentato.

Lo richiamai con un sussurro ma di nuovo non rispose. Dormiva sul serio. Bene. Tanto non avrei saputo cosa dirgli, oltretutto mi accorsi di essere ancora nudo! Mi avvicinai a lui. Aveva il volto rivolto verso me e il braccio sinistro cadente intorno al petto strizzato perché era steso di lato, il ciondolo di opale incastrato in mezzo a quel petto ricoperto di velluto castano avvolgente, quel volto e la barba rada. Se un giorno avessi imparato a dipingere sarebbe stato solo per ritrarre lui.

Svegliati e fermami, oppure tieni gli occhi chiusi e lasciati baciare. Sfiorai con le labbra il confine tra lo zigomo e la barba. Pizzicava un po'. Mi assalì la paura d'averlo svegliato, dopo esser fuggito via come un ladro, perché sì, quel bacio non sentivo di averglielo dato bensì rubato.

Mi gettai sul mio letto come una zattera in balia delle onde, immaginando fosse lui la nave promettente salvezza. Rabbrividii al solo pensiero che avesse finto di dormire, e se avesse aperto gli occhi mentre uscivo dalla sua camera? Che cosa avrebbe pensato di me? Sarebbe rimasto ancora qualcosa su cui sperare, oppure mi avrebbe biasimato e insieme riso per un gesto inopportuno?

Lo sognai come mai immaginavo possibile. Nudo nel mio letto accanto a me, vicino me, sopra di me. Rassegnato, mi convinsi che di lui sarebbe rimasto solo un sogno.

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro