1 - Canestro e canestrelli
Quante possibilità c'erano che dal cielo un paracadutista mi piombasse addosso? È successo a me, sulle colline assolate del Friuli, durante un'estate degli anni novanta. Quel paracadutista era lui, Sverre, l'uomo che mi ha stravolto l'esistenza regalandomi un ricordo indimenticabile. Oh, e chi se lo dimentica il suo odore selvaggio, lo sguardo da predatore e i suoi maledetti sorrisi. Quei sorrisi che gli illuminavano il viso anche quando, mostrando la schiena, diceva addio.
Questo è il ricordo di una sola estate, ma per me ha il valore di un tempo mai misurato.
Secondo mia madre era destino che qualcuno di quei drogati di adrenalina, frequentatori dei centri di parapendio delle montagne attorno, prima o poi ce lo saremmo ritrovato sulla nostra collina. Però li ammirava quando riusciva a vederli fluttuare leggeri nell'azzurro.
«Prima o poi qualcuno farà canestro nell'insalatiera!» esclamava suscitando risate agli ospiti a casa, che non mancavano mai. Una piaga per me che non sopportavo avere gente attorno. Quelli erano clienti amici della gioielleria di mamma, oppure pazienti di mio padre psicologo, il Dottore, così lo chiamavano.
Perciò, le estati a R. erano chiassose, prive d'intimità, con tutta quella gente in giro. L'ospitalità, soprattutto da parte di mamma Cecilia, era radicata nella sue origini pugliesi, o almeno così la giustificava. L'importante però era non toccare l'argomento, altrimenti iniziava a ricordare gli aneddoti dei suoi nonni, e il tempo si fermava. Erano storie lunghe e intense, accomunate dal principio dell'accoglienza, e quella della sua Puglia la dipingeva iconica. Ecco perché chiunque bussava alla nostra porta veniva accolto sempre, anzi era invitato ad abbandonare le formalità e a fare parte della famiglia. Sì, aprivamo la porta a chiunque, e io vedevo quel flusso di gente, rapita dalle capacità artigianali da orafa di mamma, o stramboide bisognosa di scambiare due chiacchiere con il Dottore, invadere i miei spazi.
Anche con Sverre i miei non fecero eccezioni. Ma Sverre era tutta un'altra cosa. Avrei voluto ribellarmi per come aveva sconvolto la mia quotidianità, ma non riuscii mai.
Ci vuole poco per colpirmi, lo ammetto e lui mi aveva colpito, altroché! Ha ragione chi pensa che le possibilità del caso spianano la via a ogni evento possibile, purché si riesca a cogliere l'attimo in tempo. Carpe diem, diceva papà.
Ecco come tutto è cominciato.
Quella mattina d'estate ero in cucina assieme a donna Olga, la nostra collaboratrice domestica. Una donna di mezzo secolo e un quarto, che per noi era più di una personcina assunta da una vita per badare alla casa. Lei mi aveva visto crescere, e imparato a sopportarmi quando mi trinceravo in cucina per sperimentare ricette.
Quella volta stavo preparando i biscotti canestrelli, usando gli ingredienti genuini offerti dalle nostre terre. A Olga non era mai andato giù che cucinassi, perciò i battibecchi erano frequenti, soprattutto perché sosteneva che sciupassi la roba, come gli albumi sodi che, per quella preparazione, avevo scartato poiché superflui.
«No che non sono da buttare i bianchi sodi. Riempili con ciuffi di purè, formaggio e ficcali in forno. Vedrai che complimenti ti farà la "legione straniera"!» Era così che chiamavo gli ospiti.
Non mi nascondevo in cucina a causa della "legione straniera", né mi sentivo estromesso o dimenticato. No. Facevo tutto quello che mi passava per la testa, incurante del giudizio altrui. Tutto qui.
Non passavo il tempo solo a cucinare, mi interessavo anche della storia degli oggetti comuni. Immaginavo chi li aveva creati e come, fino a imparare io stesso a produrli. A partire dalle mensole della sala, intagliate, piallate, lucidate e montate da me, fino alla prolunga elettrica per la lampada da scrivania preferita di papà. «La prolunga!» esclamava ogni volta che la dimenticava alla casa di Ginevra, cioè sempre. Ne comprava una nuova ogni anno che tornavamo in Italia. Un giorno l'avevo visto rassegnato ad aggiungere l'ennesimo pezzo alla collezione. Al che gli avevo domandato di attendere, e dopo solo dieci minuti mi aveva visto tornare dal garage con in mano una prolunga, a suo dire nata dal niente. «Arista!» mi disse, non poteva mica dire: "eccellente" come i comuni mortali, sennò che senso avevano i suoi studi classici?
Quei biscottini non facevano eccezione circa la mia curiosità sulle cose. Li trovavo migliori fatti in casa. Li avevo preparati per i De Ginis, gli ultimi ospiti che, per la mia felicità, stavano andando via. Soprattutto per Bea, la figlia, per la quale avrei fatto di tutto pur di accelerare la partenza. La tolleravo dietro compenso dei miei, ma anche così non era facile sorbire, ogni volta che mi incrociava, i suoi vezzeggiativi. Chissà, forse oltre i suoi spessi occhiali vedeva un cucciolo di coniglietto, piuttosto che un diciassettenne suo pari.
Dopo cosparsi di zucchero i canestrelli, era rimasta da apparecchiare la tavola nel terrazzo giardino. Avrebbero potuto occuparsene i camerieri? Ma noi non ce li avevamo mica! Facevamo tutti un po' di tutto, specialmente all'ora dei pasti. Perciò mi diressi in giardino, carico di piatti, con sottobraccio una caraffa di succo di pesca. Quel giorno avevo le ali ai piedi, e anche se sulla soglia oltre il salone c'erano i miei che chiacchieravano di chissà cosa, li scartai come fossi un giocatore di football. Li sentii ridere dopo il mio virtuosismo di gambe. «Non correre, potresti cadere!» diceva mamma, in ricordo di quella volta che ero inciampato e finito steso sul divano, per fortuna messo di lungo a un passo dall'entrata.
«Cuoco, che profumino! Cos'è, crostata al limone?»
«Canestrelli, Dottore!» risposi così veloce che papà non capì, e nemmeno io capii cosa aveva ribattuto. Ignorai pure Olga che arrancava dietro, intenta a trasportare il resto delle cose per l'ultima colazione dei De Ginis. Ma mentre ero raggiante, Bea era scontenta, perché anche la sera precedente le avevo negato di ballare con me. Me l'aveva chiesto tutte le volte, incoraggiata dal fatto che ballavo bene pur non avendo mai studiato danza. Molti ospiti mi trovavano divertente in questo senso, perché con poco vivacizzavo le serate. Che fatica però.
Una volta finito di apparecchiare ammirai tutto, saltellando euforico. Anche la cinciallegra, col suo canto armonioso, si unì alla mia allegria. Forse era il suo ringraziamento per averle costruito una casetta per il nido. Quant'era bella, stava lì sotto il davanzale della finestra, a gorgogliare note, affacciata sul trespolino, a gonfiare il petto giallo e a scuotere le ali blu. Tutto mi sembrava più gradevole di quanto non fosse. Il bianco della tovaglia ricamata, i piatti colorati di Caltagirone, i bicchieri spaiati e tutto il resto apparecchiato, in mezzo troneggiavano i miei canestrelli. L'aria era quieta per fortuna, così lo zucchero a velo sui biscottini non sarebbe volato. L'ombra della casa era ancora ampia e fresca, in contrasto con il fulgore delle collinette assolate oltre la ringhiera del terrazzo giardino rialzato. Faceva quasi male agli occhi tutto quel verde brillante e l'oro delle terre in lontananza. Mi capitava spesso d'imbambolarmi di fronte a quel panorama. I profumi della terra, il sentore di rosmarino e salvia permeava l'aria, e impreziosivano l'atmosfera della tavola imbandita. Quella combinazione di odori sapeva di libertà dagli impegni con gli ospiti, e già pregustavo l'imbarazzo della scelta di cosa avrei fatto dopo, fosse stato anche strappare le erbacce dall'orto, lavare il fondo della piscina, o una pedalata giù in paese. Assuefatto a quel pensiero, ignorai l'ombra che calò rapida oscurando tutto intorno in un attimo.
La cinciallegra ammutolì. Sul bianco dei cuscini allacciati alle sedie nere si proiettò un rapido luccichio. Ero tentato di alzare lo sguardo per vedere cosa stesse accadendo in cielo, ma non trovai il coraggio. Venne un colpo di vento a decidere per me, soffiando lo zucchero a velo assieme al berretto, che volò via come afferrato da una mano arrogante. Mi pietrificai. Chiamai mamma e papà. Poi una voce forte e inattesa, come il vento poco prima, mitragliando una serie di: «No!-No!-No!-No!» precedette l'impatto di qualcosa contro la mia schiena. Un colpo che mi stese a terra all'istante, e che mi fece vedere il mondo capovolto.
Ricordo il telo del paracadute volare oltre la ringhiera e perdersi verso le colline. Sentii rimbalzare una rotella, un tonfo sordo. Nient'altro. Mi coprii gli occhi, già serrati con l'avambraccio, quando lui venne a soccorrermi. Sentii i suoi passi veloci. Ascoltai la sua voce concitata, ma non capivo. Era nel panico più di me. Forse, vedendomi a terra aveva pensato stessi piangendo dal dolore causato dal colpo che avevo incassato, dal momento che stavo respirando come uno scampato all'annegamento. Si buttò su me e mi costrinse a togliere il braccio davanti agli occhi; mi contorsi e lo scacciai. Assunsi la posizione fetale. Avevo paura. Patetico, lo so, però ho sempre avuto la fobia di guardare il cielo. È Imbarazzante, come lo è il nome che la definisce: anablefobia.
Per quegli episodi c'era solo una cosa che riusciva a resettare il mio autocontrollo. Niente di astruso, e ci pensò mia madre. Fece allontanare il paracadutista, e mi adagiò sul volto il prezioso cappellino, ristabilendo la barriera che mi difendeva dall'azzurro spaventoso del cielo.
«Ecco, bambino! È tutto finito!» mi disse, attenta a non sfiorarmi, perché ogni contatto fisico mi agitava ancora di più. La prima volta che mi era capitato, papà mi aveva costretto a reagire spontaneamente affinché non iniziassi a prendere pillole sin da giovane. Grazie Dottore.
Erano passati anni dall'ultima volta. Quella ricaduta era stata talmente tragica che avevo temuto di dire addio al dono della parola e dare il benvenuto al linguaggio dei segni.
Quando recuperai il governo sui movimenti, raggiunsi il primo divano, quello accanto alla porta della sala, e mi sedetti a braccia e gambe spalancate, incurante d'intralciare il passaggio. Reclinai la testa sullo schienale e il cappellino strisciò sul viso. Sospirai. "È passato! Menomale! Non me lo ricordavo fosse così tremendo!"
Lentamente ripresi a distinguere le voci dei miei, alternate a quella del paracadutista. Mi aspettavo un'accesa discussione, un rimprovero, una pretesa di scuse da servire al sottoscritto, invece stavano dialogando con tranquillità.
Con lo sguardo mezzo nascosto dal cappellino, lo vidi di spalle. Ascoltai il suo timbro. Mescolava l'italiano con una variante d'inglese dall'accento che non conoscevo. Sul momento non m'importava, volevo che se ne andasse via subito. Avrei fatto a meno anche del suo mea culpa, mea maxima culpa.
Il canto della cinciallegra tornò a dipingere l'aria non appena i miei sfilarono dentro la sala, richiamati dai De Ginis, che dalle loro finestre avevano assistito all'atterraggio del paracadutista. Fecero attenzione a non sfiorarmi le gambe, anche se forse avrei dovuto premurarmi di ritrarle.
Le voci si accavallarono, così quel poco che riuscivo a registrare diminuì drasticamente. Bene lo stesso. Tanto a breve sarebbero andati via tutti, e io avrei trovato il mio equilibrio. C'ero quasi riuscito, senonché sentii qualcuno avvicinarsi e inginocchiarsi tra le mie cosce, poco coperte dai calzoncini che indossavo. Il rapido tamburellare delle sue dita sulla gamba mi fece sussultare. L'irruenza di quel tocco mi agitò una felicità imbarazzante sotto l'ombelico. Che figura. Non potevo fare nulla per nasconderla, avendo lui tra le cosce. Arrossito, deglutii a vuoto.
«Cameriere, tutto okay?» Il tono aggressivo. Irruento. Cameriere a chi? Avrei voluto ribattere, e tu lo vuoi sapere davvero come sto? Avrei voluto chiedergli, spinto da un improvviso ritmo cardiaco accelerato, che però si era palesato per la felicità che provavo nell'averlo così vicino da sentire l'odore della sua pelle. Aveva un che di animalesco. Alzai la testa e il cappellino cadde dietro il divano e di nuovo nascosi gli occhi col gomito piegato. Così riparato, potei vedere solo la sua bocca, due labbra di uomo adornate da peli di barba. Lui, ne sono sicuro, aveva avuto di fronte un broncio imberbe. Scimmiottai un "okay" con il pollice e lui sorrise sospirando. Che denti perfetti. Alzatosi poi, recuperò il posto nella cerchia degli adulti lasciandomi a bocca aperta.
Tutto qui? Non si era nemmeno scusato. Dovevo scusarmi io per avergli fatto da cuscino? Dovevo rincorrerlo con un randello? Aveva l'aria di volermi sfidare. Fu il suo sguardo a convincermi che era un predatore, e il suo modo di tenermi d'occhio vedendomi abbandonare il divano per raggiungere Bea, me lo confermava. Per sciogliere i muscoli regalai a quella ragazza un giro di valzer, mentre ricambiavo lo sguardo di quell'uomo, che fronteggiava gli altri adulti.
Bea al termine del rondò per poco non sveniva. Sarebbe stato comico dopo il mio numero. Per lo meno era contenta. Si accontentava di poco. Io però cercavo ancora lo sguardo di Sverre.
Forse c'era stata una connessione tra noi, quando, approfittando del richiamo di donna Olga, in panico per la luce della cucina sfarfallante, lui mi notò fuggire dalla sala. Sarò sembrato un vigliacco. Ma anche così sentivo i suoi occhi addosso.
Altro che se non li avvertivo sulla pelle anche quando, terminata la colazione che i miei gli avevano offerto, lui se ne stava seduto di fronte a me, distraendomi con la rotella che faceva rimbalzare sulla mano, mentre soggiogava gli adulti suoi pari con i suoi misteri. Fu inutile usare Bea come scudo per ignorarlo, dedicandole attenzioni che mai le avevo concesso. Sverre mi attraeva come fa la pianta carnivora con l'insetto incauto.
Com'era certo sarebbe successo, caddi nella trappola, e gli chiesi da dove si era staccata quella rotella.
Che colpo al petto quando scattò il viso verso me. «Skysurf, è un pezzo importante!»rispose grave, mentre puntava le colline sparse nel panorama oltre le mie spalle.
«A cosa serve lo skateboard se ti lanci con il paracadute?» Soffiò un sorriso come per dire: "tu non capisci niente". Mi fissò. Giurai d'aver visto un volto animale. Mi sentivo aggredito, ma non arretrai.
«Cavalco il cielo, e lo skate serve per ammortizzare la caduta.» Dentro me si scatenò il sarcasmo. Cos'era? La sua missione buttarsi nel vuoto? Qualcosa da fare assolutamente ? Una questione di vita o di morte? La necessità primaria di un uomo?
Quando aggiunse allargando le braccia: «A me piace il cielo, a te no?» Compresi che apparteneva a ciò che a me era precluso. Questo era lui: il cielo che non potevo vedere. Uno spericolato, sportivo straniero. Io, giovane com'ero, avevo un campo visivo del mondo ancora ristretto, perciò mi aspettavo avesse gli occhi azzurri e la chioma bionda, invece no. Era totalmente castano, pure la pelle del viso era dello stesso tono, dipinta dal sole. E il nome non era il monosillabo che mi aspettavo da uno straniero, come: "Tod", "Ned" o Gym. Del resto nemmeno il mio vantava chissà quale risalto. M'imbarazzava sentirmi chiamare.
«Lo skateboard di Sverre ha bisogno di una riparazione, ci pensi tu, Tino?» Mi propose mamma, dopo tornata dall'auto dei De Ginis.
Aggrottò la fronte. «Tu, ripari?» mi chiese accentuando la cadenza veneziana. Era buffo quel suo accento, mi trattenni dal ridere. Ma nel momento in cui, oppresso dal caldo, decise di sfilarsi la felpa rossa, sorrisi. Poi sgranai gli occhi quando lo vidi annodarsela alla meglio intorno al collo. Quanta meraviglia! La maglietta bianca che portava di sotto sembrava esplodere per tutto quello che conteneva.
«Sì, io riparo.» Avevo la gola secca.
Soffiò di nuovo un altro sorriso veloce come il vento e guardandomi dall'alto in basso, agguantò una manciata di canestrelli e li divorò. «Buoni!» Con gli occhi però mi stava dicendo: "non sei capace".
«Li ho fatti io quei biscotti,» gli dissi, pareggiando il tono. Da come mi guardò mi parve volesse sfidarmi a braccio di ferro.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro