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Quel giorno sulla spiaggia - Parte 1 [Bluebird/Longshot]

Tipologia: Oneshot, Origin Story [Canonica]

Rating: Per tutti

Avvertenze:

- Contiene SPOILER sul personaggio di Kolt, è consigliata la lettura dopo il capitolo 35 di Bluebird


L'estate di quell'anno era così calda che la famiglia Bilmer aveva atteso con ansia la Domenica per fuggire dall'afa, caricare il necessario nell'automobile acquistata di recente e partire per la spiaggia più vicina per godere di una giornata al mare.

Elyssa, che dopo due parti conservava un fisico invidiabile, si distese su un lettino armata di pazienza, nella speranza che il sole accentuasse la sua abbronzatura facendo risaltare i suoi occhi color miele, gli stessi che aveva lasciato in eredità ad entrambi i suoi figli. Ruben invece non aspettava altro che il momento per tuffarsi in acqua e concedersi una lunga e rilassante nuotata, ma solo dopo essersi assicurato che entrambi i pargoli avessero compreso che non dovevano per nessun motivo uscire dal campo visivo della madre e soprattutto che mai e poi mai avrebbero dovuto allontanarsi dalla riva.

Si era assicurato di fissare bene i braccioli arancioni sulle braccia di Enai, di soli cinque anni, e aveva più volte raccomandato a Keten – che di anni ne aveva dieci, e il suo nome non era ancora diventato Kolt - di tenerlo d'occhio, promettendo che al suo ritorno lo avrebbe lasciato libero di fare ciò che preferiva. Nessuno dei due aveva opposto resistenza e si prospettava una giornata tranquilla, com'era nei piani.

A vederli in quei momenti di relax, i Bilmer sembravano una di quelle famiglie perfette che venivano rappresentate sulle pubblicità dei giornali, e tolto qualche litigio quotidiano non era un quadro poi così distante dalla realtà: Ruben era un avvocato facoltoso, innamorato del suo lavoro tanto quanto della sua famiglia, e offriva a moglie e figli sia un'agiata condizione economica che la presenza di un uomo onesto e affettuoso. Elyssa era una scultrice con un estro creativo invidiabile, ma non sufficiente a farla vivere della sua arte, motivo per cui i primi mesi del suo matrimonio si era sentita ingombrante e superflua, una banale casalinga buona solo a vivere di rendita. Solo con la maternità aveva compreso e accettato che poteva seguire la sua passione artistica per diletto e avere la fortuna di essere presente per i suoi figli a tempo pieno, senza doversi sentire in colpa per questo.

Enai e Keten erano il loro orgoglio e la loro gioia, pur essendo così diversi tra loro: il minore era bonario ed energico, amante della compagnia e ricco di giocosa fantasia, mentre il maggiore era introverso e svogliato, dotato di una scaltrezza che preferiva applicare per svicolare dai suoi doveri. Non avevano coltivato tra loro uno stretto rapporto d'amicizia, complice anche la differenza d'età, ma andavano d'accordo. Kolt non ricordava quali fossero i suoi precisi pensieri sul fratello, ma ripensando a quei giorni poteva dirsi certo di avergli voluto bene. Lo ricordava così chiaramente da considerarlo ovvio.

Ma non era stato abbastanza.

E i Bilmer, che erano teoricamente una famiglia unita e felice, che avrebbe teoricamente potuto superare qualunque problema, erano crollati come tessere di un domino senza che nessuno sapesse spiegarsi il perché.

A voler cominciare con il gioco delle colpe, l'idea delle pistole ad acqua era stata di Enai. Era rimasto incantato da quell'immagine pubblicitaria a tal punto da assillare i genitori per quattro giorni interi, fino a quando Ruben non aveva acconsentito a comprare una coppia di pistole giocattolo a patto che non le utilizzi in casa, e a lui era sembrato un compromesso accettabile.

Aveva poi passato i successivi due giorni a tormentare il fratello così da fargli promettere di giocare con lui una volta in spiaggia, e alla fine l'aveva avuta vinta anche su quel fronte. Keten non aveva interesse per un simile giocattolo da parecchio tempo, ma si era abbassato a giochi ben più infantili per farlo felice e non era mai stato un vero problema. Enai era spesso fastidioso, questo lo riconosceva, ma Elyssa gli ripeteva sempre che doveva avere pazienza, con lui, e che tutto ciò che voleva era passare del tempo con il suo fratellone. E nonostante gli sbuffi e le lamentele, non riusciva mai a dirgli di no.

Aveva pensato più e più volte a quei giorni, sostituendo il gioco delle colpe a quello dei se: se non avesse visto la pubblicità, se papà non le avesse comprate, se non fossimo andati in spiaggia... ma in qualunque modo la rigirasse il più grande se, la più grande colpa era da attribuire a lui.

Il motivo principale che spingeva Keten a trovare noiose le pistole ad acqua era, paradossalmente, che possedeva una mira eccellente. Non era un'abilità che aveva allenato, quanto più un talento naturale, ed era così bravo da non trovare alcun divertimento in un gioco se non c'era sfida. Inoltre, Elyssa gli aveva suggerito di lasciar vincere Enai di tanto in tanto, così da non intristirlo troppo, perciò quel passatempo risultava persino frustrante.

Si impegnava il minimo indispensabile: lasciava che gli schizzi d'acqua di suo fratello lo raggiungessero e gli permetteva di vantarsi, aveva deciso che l'avrebbe fatto divertire finché non si fosse stancato o fino al ritorno del padre. Non era neanche considerabile un gioco vero e proprio: non c'erano regole o punteggi, Enai si divertiva a sparargli getti d'acqua addosso e quando riusciva a colpirlo si esaltava e rideva, tornando a riempire la pistoletta o scappando quando si rendeva conto di essere diventato il bersaglio.

È vero, stavano giocando ormai da una ventina di minuti e la figura di Ruben non si scorgeva ancora. È vero, le risate di Enai stavano diventando fastidiose, e perdere - anche se per finta, anche se costretto - non gli era mai piaciuto. È vero, cominciava a sentire l'irritazione aggrapparsi al suo petto, ma era sopportabile. Se lo ripeteva spesso, richiamando alla mente quei ricordi ancora e ancora, cercando di definire sempre più dettagli nella sua memoria: era annoiato, un po' nervoso, impaziente di andare a fare il bagno, ma nient'altro.

Non era arrabbiato. Non era affatto arrabbiato.

Non lo era neppure quando inciampò su un sasso nascosto tra la sabbia, e ruzzolò a terra con una smorfia talmente tanto buffa che Enai si piegò in due dalle risate. Elyssa aveva abbassato gli occhiali da sole per accertarsi che tutto fosse sotto controllo, ponderando se raggiungere o meno i due ragazzi: Keten era più orgoglioso di quanto potesse sembrare, e se si fosse avvicinata per una semplice caduta lui avrebbe tenuto un broncio offeso per tutto il giorno, ripetendo che era abbastanza grande per cavarsela da solo. Così rimase a guardare mentre il figlio più piccolo puntava la pistola giocattolo sul maggiore, lanciandogli sulla fronte un fresco ed innocuo getto d'acqua.

«Preso!» dichiarò sbruffone, per quanto sbruffone possa essere un bambino di cinque anni.

E così ti sei arrabbiato, avrebbero detto a Keten giorni più tardi mentre ascoltavano cos'aveva da dire.

Era vero che il suo orgoglio aveva subito una lieve ammaccatura, ma era solo un gioco e stava perdendo volontariamente. L'unica cosa che voleva fare era prendersi la sua rivincita e mostrare la sua vera abilità: era con questo pensiero che aveva sollevato la pistola, osservando Enai correre via da lui ridendo nel tentativo di allontanarsi, sperando di non farsi colpire. Il getto d'acqua lo avrebbe colpito alla schiena, Keten avrebbe urlato "Preso!" e sarebbero stati pari. Avrebbero riso insieme e avrebbero continuato a scambiarsi schizzi fino a svuotare i propri serbatoi, e magari avrebbe convinto Enai a nuotare un po'. Era così che doveva andare. Era questa l'immagine che si era creata nella sua mente.

"Non farlo!" urlava Kolt al se stesso del passato, ogni volta che quel ricordo riaffiorava alla mente. "Lanciagli della sabbia o persino il sasso, quello su cui sei inciampato. Qualunque cosa gli farà meno male."

Ma Keten non poteva sentirlo. Drizzò il braccio prendendo la mira, concentrandosi in quel gesto come non faceva da mesi. Con l'abilità naturale di un tiratore professionista, oscurò qualunque cosa attorno a sé che non fosse il suo obiettivo, che ingenuamente scappava in linea retta costituendo così un facile bersaglio. Keten assottigliò gli occhi dorati e puntò al centro della sua schiena, lì dove le probabilità di colpirlo erano più alte - e successivamente avrebbe ringraziato se stesso per non aver scelto la testa.

Colpirlo, nulla più. Colpirlo a ogni costo, sì, ma niente di serio. Non aveva mai, nemmeno per un secondo, nemmeno nell'angolo più remoto della sua mente, desiderato di fargli del male.

Quando Keten premette il grilletto di plastica la pistola ad acqua emise un rumore che non le apparteneva, e sparò qualcosa che non fu in grado di seguire con lo sguardo. Ricordava solo di aver spalancato gli occhi, sobbalzando per il rumore improvviso, e di aver osservato la figura di Enai fermarsi in uno spasmo prima di cadere a terra.

Il sangue cominciò a riversarsi sulla sabbia. Qualcuno urlò. Sua madre si precipitò da suo fratello mentre lui rimaneva lì per terra, silenzioso e confuso, con la pistola giocattolo dalla canna fumante tra le dita tremanti.

Il vociare attorno a lui si fece confuso. C'era agitazione e sconcerto, c'erano sguardi di preoccupazione e spavento, e lui non riusciva a muoversi. Sua madre piangeva a dirotto e qualcuno che non conosceva lo sollevò e lo portò con sé, pronunciando parole che non riusciva a capire.

L'attimo dopo, o quantomeno quello che a lui sembrò l'attimo dopo, erano nella sala d'attesa di un ospedale. Quello lo ricordava, perché era lì che suo padre li aveva raggiunti: dopo aver ascoltato il racconto dell'accaduto si era accostato a Keten, abbassandosi per poter guardare il primogenito negli occhi, posando le mani grandi sulle sue spalle.

«Cos'è successo?»

Fu la domanda che formulò dopo lunghi istanti di silenzio, ma non era interessato al racconto degli eventi: voleva sapere perché.

Mi fidavo di te, sembrava volesse dirgli, e guarda com'è finita.

«Volevo colpirlo» fu tutto ciò che riuscì a dire Keten. «Era un gioco. Doveva essere acqua... solo acqua...»

Si rese conto solo in quel momento che stava parlando tra lacrime e singhiozzi, e che il suo corpo tremava come se il gelo gli avesse raggiunto le ossa. Avrebbe voluto che suo padre lo stringesse a sé: aveva un disperato bisogno di sentire quel contatto, di ricevere una rassicurazione, di avere qualcosa di solido a cui aggrapparsi ora che il mondo sembrava essersi capovolto in una realtà confusa e distante, che non riusciva ad afferrare.

Ma un medico li raggiunse in quell'istante, attirando le preoccupate attenzioni di tutta la sala d'attesa, e Kolt non avrebbe mai saputo se suo padre l'avrebbe abbracciato oppure no.

La voce della dottoressa aveva una nota agrodolce, quanto le notizie che portava con sé. Enai era fuori pericolo, ma il proiettile aveva sfiorato la colonna vertebrale e non erano certi che sarebbe tornato a camminare.

Però è vivo, ripeteva, e lo ripetevano tutti, perché quella era l'unica speranza a cui potersi aggrappare. È ancora vivo, ed era un'oasi nel deserto, la sola cosa che avrebbe permesso ai Bilmer di avere la forza per affrontare l'angoscioso inferno che stava per arrivare.

La prima cosa che fu chiara a tutti era che Keten fosse un Dotai. Gli specialisti del Centro di Ricerca lo sottoposero ad alcuni test base, ma riuscirono a malapena a identificare il suo Naru, Altershot, perché Keten continuava a rifiutarsi di impugnare l'arma giocattolo o simil tali. I test approfonditi non erano obbligatori, ma avrebbe dovuto imparare a controllare le sue abilità se voleva evitare di ferire altre persone: prima di farlo, però, era necessario superare il trauma che lo Sblocco aveva causato.

Elyssa e Ruben accolsero il consiglio di far seguire Keten ad uno psicologo. Non ricordava il suo nome, se non che fosse qualcosa di simile a "Gian" o forse "Jannon",  né il suo volto; ogni volta che provava a rievocare la sua figura nella sua mente, tutto ciò che riusciva a mettere a fuoco era il suo sorriso melenso e gelido al tempo stesso. Anche le sedute non erano qualcosa su cui riusciva a soffermarsi: i giorni diventavano confusi, domande e discorsi si mescolavano tra loro perdendo significato, e forse il problema era che al tempo le cose non erano troppo diverse: la terapia avrebbe dovuto aiutarlo, ma riusciva solo a confondergli le idee.

«Uno Sblocco scatenato è legato alla sfera emozionale, è una manifestazione involontaria e diretta di potere. Keten è caduto a terra durante un gioco che non voleva fare, schernito dal fratello che era stato costretto a controllare» aveva detto lo psicologo ai suoi genitori. «Dunque si è arrabbiato e ciò ha causato involontariamente lo Sblocco: se questo è il caso, si è trattato di uno sfortunato incidente.»

«Se questo è il caso?»

«Alla sua età potrebbe anche trattarsi di uno Sblocco naturale, ma questo implicherebbe che Keten volesse sparare a suo fratello, che sia stato un atto volontario e lucido nell'intenzione di fare del male. Non aveva idea di possedere un simile desiderio, ma il suo subconscio ha elaborato il pensiero e il suo potere ha fatto il resto. Siamo ancora all'inizio del nostro percorso e attualmente non posso escludere nessuna delle due ipotesi. Mi segue, signor Bilmer?»

Sì, lo seguiva; Keten non altrettanto.

Rinnegava di aver provato emozioni così negative, ma anche di aver voluto ferire il fratello; non si rivedeva in nessuna delle due ipotesi, ma lo psicologo sosteneva che fosse impossibile, e si lamentava con i suoi genitori sostenendo che si rifiutasse di collaborare. A quel tempo, quei discorsi erano troppo complessi perché Keten riuscisse a cogliere le implicazioni, o a capire perché i suoi genitori lo spingevano ad ammettere qualcosa che non era vero; sapeva solo che continuava a dire la verità, eppure tutti gli ripetevano che stesse mentendo.

Elyssa fu la prima a cedere. Quando non era accucciata accanto al letto di Enai in ospedale, passava buona parte del suo tempo a piangere. Aveva rotto i suoi scalpelli in un impeto d'ira e si rifiutava di fare qualunque cosa, tanto che aveva assunto una governante per tenere a posto la casa e il giardino. Comprendere che non aveva la stabilità mentale di occuparsi neppure di quello la fece solo sprofondare più a fondo nella sua depressione, tornando a quello stadio di inutilità in cui era sprofondata nei primi tempi del suo matrimonio. E la maternità, che prima era stata la chiave risolutiva, ora rappresentava il suo fallimento più grande: continuava a chiedersi come avesse fatto a non accorgersi di nulla, lei che aveva passato con i figli tutto il suo tempo. Non importava quale fosse il parere degli esperti, per Elyssa l'accaduto era la prova schiacciante che lei fosse una pessima madre.

Cominciò a bere tre settimane dopo l'incidente. Un mese dopo, il suo disprezzo per se stessa si era evoluto, per istinto di sopravvivenza, in disprezzo per quel figlio che le era rimasto a casa e che si era convinta fosse pericoloso e risentito nei loro confronti. Non lo faceva notare in modo aperto e diretto, mancando forse di coraggio, ma rivolgeva al primogenito lunghe e gelide occhiate, e gettava con parole taglienti nuovi pesi ad alimentare il suo senso di colpa. Era da lei che era partito il gioco delle colpe, che procedeva così a ritroso da affondare radici nella prima infanzia di Keten.

Poi arrivò il momento in cui anche il sostegno di Ruben venne meno.
«Se lo ammettessi, una buona volta, sarebbe tutto più semplice! Stiamo cercando di aiutarti mentre c'è gente che vorrebbe rinchiuderti e tu rendi le cose più difficili! Lo capisci o no?» continuava a ripetergli, e mai prima d'ora Keten l'aveva sentito urlare così furiosamente «Dove abbiamo sbagliato? Dimmelo, dove?»

Quegli scorci nei suoi ricordi, quelle frasi e quegli sguardi, continuavano a martellargli le tempie persino dopo quindici anni dall'accaduto. Era certo che avrebbe potuto dimenticare ogni cosa della sua vita, ma quello sparo lungo la spiaggia e il sofferente declino dei suoi genitori, quell'amore mutato in rifiuto e odio, l'avrebbero accompagnato fino alla sua morte.

E infine anche la sua mente crollò. Non sapeva dire quando, ma cominciò a pensare che forse i loro timori erano fondati. Forse era come diceva lo psicologo, forse odiava suo fratello così tanto che aveva elaborato il pensiero di sparargli davvero, ma ne aveva rimosso il ricordo per proteggere se stesso dalle conseguenze. Era un ragionamento complicato, troppo per un bambino di dieci anni, ma quell'uomo ne parlava con una certezza che rendeva difficile dubitare.

Enai era spesso fastidioso. Rumoroso, capriccioso, appiccicoso. Sempre troppo energico e persino stupido. I suoi genitori erano meno severi con lui, e su Keten avevano riversato la responsabilità di proteggerlo, controllarlo e assecondarlo. Non sempre gli piaceva averlo attorno. Non sempre gli piaceva giocare con lui. Non sempre gli piaceva assecondare le sue richieste infantili.

Ma non lo odiava.

O forse sì? Sapeva cosa volesse dire odiare qualcuno, tanto per cominciare? Se persino i suoi genitori avevano smesso di credergli, come poteva esserne certo?

Sotto consiglio dello psicologo a Keten era stato impedito di vedere suo fratello, ma due mesi dopo l'accaduto decise di permettere un incontro. A quel punto, le speranze che Enai tornasse a camminare sulle sue gambe erano ridotte ad un filo sottile, ma il bambino mostrava una volontà molto forte. O forse era ancora in quella fase della vita in cui si ha ancora la forza di sognare persino di fronte all'inevitabile; forse si aspettava che un Dotai o un essere magico venuto fuori dai suoi fumetti avrebbe rimesso tutto a posto, e nessuno tra gli adulti aveva il cuore o la forza di contraddirlo.

Ciò nonostante, Keten era convinto che Enai provasse del risentimento nei suoi confronti. Non era certo del fatto che volesse vedere chi l'aveva ridotto in quello stato: si aspettava paura e rabbia, urla, forse pianti, un susseguirsi di "Stai lontano" e "Vai via". Sarebbe stato comprensibile. Se davvero Keten lo odiava, ricevere in cambio il suo disprezzo sarebbe stata una giusta punizione.

«Questo è un chiaro segnale» aveva detto lo psicologo ai suoi genitori, ignaro che Keten fosse lì ad origliare. «Sa di aver colpito intenzionalmente, pertanto sa che l'odio da parte di Enai sarebbe giustificato. Si aspetta ciò che ritiene di meritare.»

Keten si accostò alla porta della stanza ventitré con rassegnazione, già pronto ad abbandonare la camera non appena gli occhi del fratello si sarebbero posati su di lui. Avanzò non appena gli fu concesso per accostarsi al letto, Enai si girò a guardarlo e il suo viso si illuminò di gioia nel vederlo, mostrando il più dolce dei sorrisi.

«Fratellone!» esclamò con così tanta gioia da lasciarlo incredulo, stendendo le braccia verso di lui. Lo abbracciò con una tale naturalezza da spiazzare tutti, tanto da rendere quella mezz'ora surreale, quasi fosse un sogno. Fu Enai a parlare per quasi tutto il tempo cominciò raccontare che con un po' di buona volontà sarebbe tornato a muovere le gambe, quindi doveva stare tranquillo, perché lui era davvero molto forte. Il bambino di cinque anni costretto a letto da un suo proiettile gli diceva di stare tranquillo.

Keten riuscì a tenere lontano qualunque pensiero negativo fino a quando non uscirono dalla stanza d'ospedale, e fu in grado a mantenere un decoroso silenzio durante tutto il tragitto in macchina. Poi si sdraiò sul letto della sua stanza, strinse le ginocchia al petto e cominciò a piangere.

Pensieri e ricordi confusi si ammassarono nella sua mente, dal comportamento freddo e sempre più distante dei suoi genitori, al fastidioso sorriso dello psicologo che sembrava volerlo convincere di avere un problema, più che capire quale fosse. E proprio quando credeva di aver finalmente compreso qualcosa, quando si stava rassegnando ad accettare quella versione dei fatti, il sorriso di Enai aveva riempito la sua mente come il sole d'estate.

Perché la persona che più di ogni altra avrebbe dovuto odiarlo era l'unica a non dubitare di lui?

Keten pianse fino a che non ebbe più lacrime, fino all'ultimo sofferente spasmo, fino a sentirsi svuotato di pensieri, emozioni e dolore. Restò rannicchiato nel suo letto, stretto al cuscino umido e freddo, fin quando non giunse il tramonto.

E allora comprese che la verità non aveva alcuna importanza.

Il suo psicologo cercava quella risposta quasi fosse il tassello mancante che avrebbe risolto il puzzle, ma non c'era più nulla da risolvere. Non c'era più niente da salvare. Che fosse l'una o l'altra versione, non avrebbe cambiato il fatto che era stata la sua pistola a sparare.

Suo fratello sarebbe stato costretto alla sedia a rotelle per causa sua.

Sua madre era scivolata nella depressione per causa sua.

Suo padre si era chiuso nel suo dolore per causa sua.

E non c'era nessuna scusa, nessuna giustificazione, nessuna buona volontà che avrebbe potuto aiutarlo o mettere le cose a posto. C'era della verità nelle parole del suo psicologo: Keten era colpevole e doveva essere punito per ciò che aveva fatto ai suoi genitori e ad Enai. 

Non seppe dire quando, nel vortice confuso dei suoi pensieri, decise di alzarsi di scatto dal letto e raccogliere il suo zaino. Lo riempì degli abiti che reputava necessari, aspettò che calasse la notte e sgattaiolò in cucina per aggiungere allo zaino viveri e acqua, e infine riempì le tasche laterali di tutti i gioielli e i soldi che riuscì a sottrarre ai genitori senza rischiare di svegliarli.

Diede un'ultima occhiata alla stanza che fino a qualche mese prima aveva condiviso con suo fratello e si chiese come avrebbe preso la notizia. Si domandò se allora l'avrebbe odiato con tutte le sue forze, se detestarlo avrebbe in qualche modo reso più sopportabile la vita a cui l'aveva costretto. E di certo, questo era quello che Keten meritava - non i suoi sorrisi, non il suo affetto, non il suo perdono.

E i suoi genitori? Li immaginò impegnati nelle ricerche per qualche giorno, forse settimane, ma era certo che avrebbero smesso piuttosto in fretta. Avevano altro di meglio a cui pensare che ritrovare un figlio che entrambi avevano imparato a odiare. Non ne era dispiaciuto; sperava anzi che andasse così. Sparito lui, forse sarebbero spariti anche i problemi che aveva causato.

Decise quindi di lasciare una frettolosa nota in cucina prima di andare via, l'ultimo saluto che non era stato capace di pronunciare a voce.

"Mamma e papà, ho deciso di andarmene. Ho cibo, vestiti e soldi, quindi starò bene."

Scrisse molte altre righe dopo quelle, ma le cancellò tutte. Abbandonò alla svelta foglio e penna sul tavolo e fuggì, lasciandosi inghiottire dalla notte.

Vi voglio bene, si leggeva con difficoltà alla fine della nota, l'ultima frase che aveva malamente cancellato. Non voglio farvi ancora del male.


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