Chào các bạn! Vì nhiều lý do từ nay Truyen2U chính thức đổi tên là Truyen247.Pro. Mong các bạn tiếp tục ủng hộ truy cập tên miền mới này nhé! Mãi yêu... ♥

IV

Per parecchio tempo smisi di frequentare la villa, ignorando le richieste di mia madre, mi chiusi di più in me stesso, costruii una vita che pareva inedita in tutto, solo perché da ogni cosa avevo dovuto tirare fuori Simone.

Quella scelta iniziò a pesarmi soprattutto di domenica, una giornata in cui non avevo nemmeno la scusa della scuola a distrarmi e mi ritrovavo a fare colazione da solo sul tavolo della cucina.

In realtà, non sapevo fino a che punto avesse senso il mio comportamento.
Razionalmente anzi, ero consapevole che io e Simone avevamo intricato così tanto le trame delle nostre esistenze che pure i legami familiari finivano per confondersi e diventare di reciproca appartenenza, impedendo un vero e proprio distacco.

E la dimostrazione di questo la ebbi appena qualche giorno dopo quando, travolto da un'ansia insormontabile, mi presentai senza preavviso da Rossana e ad aprire la porta venne proprio lui.

Erano passati un paio di anni dalla prima volta in cui lo avevo portato a casa sua e sin da subito avevo intuito l'affetto che uno avrebbe avuto per l'altra.

Ci tornammo poi spesso a trovarla e ricordo che si intrattenevano a parlare per ore e ore: Simone all'inizio più impacciato, lei invece espansiva e ospitale come sempre.
Mi faceva ridere sentirli in quel misto tra dialetto stretto e italiano impeccabile nel quale, chissà in che modo, riuscivano a capirsi comunque.

Non so allora perché mi stupii nel vederlo così tranquillo anche senza di me, ma mi sembrò insopportabile che io fossi angosciato specialmente per causa sua, e lui invece pareva avere tutto sotto controllo e mangiava pure spensierato i cioccolatini che Rossana gli aveva offerto.

Stetti in loro compagnia un'oretta appena, il tempo necessario per rovinare qualunque equilibrio avessero costruito.
Trattai Simone come un estraneo, pensando che se mi fossi mostrato distante io, anche la padrona di casa lo avrebbe fatto.

Lui ci rimase male e me lo fece presente appena Rossana si fu allontanata per prepararmi un caffè.
"Sono settimane che sei sparito nel nulla e mo manco mi guardi in faccia" disse secco "ma mi spieghi che cazzo di problemi hai?"

Non mi aveva mai parlato in una maniera tanto rude e sul momento mi colse in contropiede.
Che di solito partiva già scusandosi pur essendo nel giusto e invece quella volta fu un attacco frontale, netto, gliela lessi negli occhi la consapevolezza di avere ragione.

Ricordai con il batticuore il tenero contatto di settimane prima, la dolcezza nei suoi movimenti e nel viso, nonostante la mia rigidità di quel momento, e – non ritrovandola nel Simone che avevo davanti – mi sentii perso.
Che poi avesse tutte le ragioni del mondo per porsi in modo distaccato lo sapevo, ma ammetterlo significava riconoscere anche di aver sbagliato, accettare che ciò da cui ero fuggito non era un errore, ma qualcosa che io stesso volevo.

Non poteva e non doveva essere.
Io non sono gay – mi dissi di getto - a me non piacciono i maschi.

Era solo Simone che faceva sembrare tutto diverso, che mi aveva confuso e messo in testa paranoie che non avevo mai avuto prima, che era ovunque e mi affollava la mente.
E come potevo disfarmene e stare meglio se mi perseguitava dappertutto?

Quel quesito in particolare si rivelò decisivo.
Se lui avesse smesso di tormentarmi con la sua presenza, io avrei smesso di fare quei pensieri, di dannarmi in maniera così logorante e senza pace.

"Sei tu il mio problema" sputai allora con rabbia esagerata "me pari na persecuzione Simo'! Non so più dove cazzo andare per evitarti."

Le vidi a rallentatore le parole uscire dalla mia stupida bocca e schiantarsi dritte verso il volto di Simone che ne fu tramortito.

Aveva un viso adulto ormai – c'erano lievi accenni di barba attorno alle labbra carnose e due basette sempre più spesse a testimoniarlo – eppure in quell'istante lo vidi tornare lo stesso ragazzino del nostro primo incontro, come se una sola frase avesse avuto il potere di provocare tanto di quel male da risucchiarci nel passato e cancellare quattro anni di rapporto.

Non mi diede modo di dire altro comunque.
Si tirò su in piedi alla velocità della luce, scappò in cucina dove sorprese Rossana con uno schiocco sulla guancia e vaneggiamenti sui compiti, gli impegni, la nonna che lo aspettava, e poi andò via di corsa, non rivolgendomi neppure uno sguardo.

Per un breve attimo pensai che tutta la stanza se ne fosse andata con lui: le piante rigogliose sparse ovunque, la piramide di cioccolatini sul tavolino, il tavolino stesso, persino il tepore dell'ultimo sole della giornata che filtrava dalle finestre e pure io, qualsiasi mia reattività ed emozione, trascinata via attraverso la porta che si chiudeva alle spalle.

Rossana arrivò in soggiorno trafelata, tanto che la tazzina tra le mani faceva tin-tin-tin con il cucchiaino, la posò in fretta, poi si guardò attorno come a cercare nelle pareti di casa una spiegazione per il devasto appena accaduto e, non trovandola, si rivolse direttamente a me.

Io mi indispettii ancora di più, cosa ti ha raccontato? È venuto qui a confessarsi?, domandai e lei mi rivolse un'occhiataccia prima di cominciare a parlare.

Disse che Simone non aveva detto manco una parola contro di me, che stava là tranquillo finché non ero arrivato io e che lei mi aveva sentito mentre lo attaccavo. Disse anche che l'avevo delusa e che ero stato uno stronzo – sì, usò proprio questa parola – e mi impressionai, mi vennero subito le lacrime agli occhi, che mai l'avevo saputa così sgraziata nel parlare, lei che pure dietro il suo dialetto usava solo termini buoni, magari variopinti, ma non brutali, che le brutte parole vanno alle brutte persone diceva sempre, eppure le stava rivolgendo proprio a me.

Fu però pacata nei toni, intanto che mi faceva sentire piccolo come una formica, e quello mi spaventò ancora di più.
Mi venne di scusarmi subito e affannosamente, non potevo accettare che proprio lei ce l'avesse con me.

Quella reazione angosciata la colpì molto, parve ritornare in sé, quasi che per cinque minuti ci fosse stato qualcun altro al suo posto.
Mi abbracciò stretto, disse che parlava così perché ci teneva a me, ma ci teneva pure a Simone, che voi vi appiccicate sempre, ma si vede che vi volete bene assai.

Me ne andai da casa sua abbattuto, promettendole che avrei subito cercato di chiarire, ma facendo tutto tranne quello.
Sapevo di aver esagerato, eppure continuavo a pensare che forse un periodo di distacco da Simone poteva servire a entrambi, a me specialmente.

Questo almeno fu ciò che mi dissi.

In verità poi ad occuparmi di continuo il cervello rimase un solo pensiero.

Lo scacciavo come potevo, riempiendomi la testa di attività e impegni, ma quello trovava altri modi per palesarsi, cambiando forma, ma mantenendo sempre lo stesso contenuto:
Simone, Simone, Simone.

Arrivò a condizionarmi così tanto che pure nei sogni non mi lasciò in pace.

In piena notte mi svegliavo di soprassalto, con la fronte imperlata di sudore e, una volta, anche un evidente erezione fra le gambe.

C'era un'intera parte di me che si ribellava alle mie scelte e, in quell'istante, pulsava dolorosa per ricordarmelo.
Mi rigirai nel letto, provando a riprendere sonno, a non darci peso, ma non vi riuscii.

Allora per darmi tregua provai a pensare alla studentessa con cui continuavo ancora quella specie di relazione e mi dissi che il giorno dopo l'avrei cercata, ma che per il momento potevo anche solo immaginarla.

Impegnai la mente a ricostruirne il viso dolce, poi il corpo sinuoso e finanche il candore della pelle e la voce delicata; mi figurai poi fra le sue gambe che aprivo piano per scivolarci in mezzo e far placare le mie pulsioni, dimenticandomi così di Simone.

Lui doveva cercare altrove il suo piacere, occupare la testa di qualcuno di diverso da me, farsi toccare da altre mani pronte a vezzeggiarlo e prepararlo con cura, che magari era la sua prima volta e chiunque fosse sprofondato nel suo corpo accogliente ne avrebbe preso un possesso eterno.
E Simone a quel possesso si sarebbe lasciato andare docile, arrendenvole, prendimi – avrebbe pigolato – prendimi, fammi tuo Manu e io non avrei potuto negarmi, che sei già mio Simo, mio, mio, mio, gli avrei risposto a ritmo con le spinte che infliggevo fino a sciogliermi sul vuoto materasso sotto di me.

Da quella notte sfiancante fuggii con un carico di vergogna che quasi mi schiacciò.
Scappai dal letto come se il peccato commesso rimanesse lì e non mi seguisse ovunque.

L'idea di andare a scuola poi mi spaventò terribilmente, mi pareva che quanto fatto poche ore prima ce l'avessi scritto in fronte e tutti avrebbero potuto vedermi, scoprirmi, giudicarmi.

Virai allora con la moto e corsi a casa della solita studentessa sperando di trovarla.
Lei mi accolse entusiasta, "ti sei svegliato col pensiero stamattina" disse iniziando a denudarsi e io annuii febbricitante, "ho pensato a te tutta la notte" confermai, per convincere più me stesso che altro.

Scoprii intanto una capacità di eloquio mai posseduta, uccisi ogni silenzio con parole dolci, tenere, poi sempre più passionali, cariche di un desiderio che mi costruii al momento.
Scopami ti prego, implorò quando mi vide scendere fra le sue gambe che spalancò impaziente.

La guardai allora dal sesso al viso e viceversa.
Era bella, delicata, femminile, e tanto mi sarebbe dovuto bastare per sentirmi a mio agio, maschio, eccitato.
Eppure non accadde.

Ci provai per un numero imbarazzante di volte, tentando di ricordarmi come si faceva una cosa che non avevo mai dovuto realmente imparare, ma si rivelò uno sforzo vano.
Lei si acquietò, fu comprensiva, capita a tutti, mi disse mentre io, paonazzo in volto, soffocavo un urlo nel cuscino.

Mi rivestii in fretta per andarmene, volevo a tutti i costi cancellare l'ennesima vergogna, ma fui invitato a restare, a rasserenarmi un attimo, che questa può essere l'occasione per parlare un po', che in effetti fuori dalla camera da letto non ci conosciamo proprio.

Accettai svogliatamente, ma pensando che almeno mi sarei distratto dal resto dei pensieri che ormai mi seguivano come una nuvola sopra la testa, e sedetti per la prima volta, dopo più di un mese passato solo a scopare, in una cucina che non avevo mai visto se non di sfuggita.

Frugai dentro di me alla ricerca di un argomento su cui conversare, ma nulla sopraggiunse alla mente.
Ci guardammo così in faccia per dieci minuti buoni non sapendo cosa dire e solo allora mi resi conto, rammaricato, che parlare con gli altri, averci un'affinità elettiva, non era così facile come invece lo era con Simone.

Lei poi divenne improvvisamente impacciata, quasi bambina ai miei occhi che l'avevano sempre vista tanto adulta e nell'indecisione sul da farsi pensò bene di allungarsi fino al cesto di frutta vicino ai fornelli e offrirmi dei mandarini.

"Sono senza semi" specificò e io scoppiai in una risata isterica che la confuse, fino a snervarla quando "credo che non dovremmo vederci più" attestai alzandomi e raggiungendo la porta.
"Ho detto qualcosa che non va?"
"No, no" la rassicurai prima di andarmene "solo che quelle sono clementine."













*

Come superai la maturità in quelle condizioni non lo so nemmeno io.

Mi privai di tutto ciò che potesse costituire una distrazione, le uscite, gli impicci familiari, quelli degli amici, le letture per diletto e pure la musica, chiudendo in un cassetto i pochi dischi e libri che ero riuscito a comprarmi negli anni.
Trasformai la camera in un'estensione di me stesso, svuotata dal superfluo, spersonalizzata e assolutamente inospitale.

A ripensarci ora, fu una sorta di penitenza quella che mi imposi perché, piuttosto che confrontarmi con i miei tormenti, preferii punirmi e apaticamente affrontare solo i vari doveri che mi toccavano.

Chicca e Matteo mi cercarono spesso fuori da scuola, ma mi negavo sempre, temendo che magari mi avrebbero teso un'imboscata, convincendomi ad incontrarci e facendomi poi trovare Simone lì con loro.

In realtà il mio terrore era l'esatto opposto: andare lì da loro e scoprire che non c'era, che mentre io pensavo a lui, lui non lo faceva, che insomma non fossi più io a tenerlo distante, ma che fosse Simone ad essersi allontanato definitivamente.

Una mattina di metà luglio però, forse esausti della mia latitanza anche dopo l'esame, si presentarono a casa e con la forza mi portarono a mare.
Per un po' non mi chiesero nulla e io nulla dissi, preferendo godermi quell'unico giorno di svago che mi sarei concesso e rimanendo sotto il sole quanto più possibile.

Inebriato da quel tepore, mi illusi anche di potermi rasserenare, riaccogliere l'euforia dei vari bagnanti che popolavano la spiaggia e farla mia.
Guardavo il mondo scorrere fuori di me e lo pensavo gentile, allettante, in grado di restituirmi un entusiasmo che mancava da tempo e che si presentò timidamente sotto forma di brevi interazioni con Chicca e Matteo.

Parlottammo del più e del meno, degli inciuci di classe, del terrore per il futuro più prossimo, lavoro o università che fosse, ci immaginammo adulti, coraggiosi e risolti, ma poi anche impauriti e senza reali ambizioni.

Poiché però non volevo angosciarmi di nuovo, cercai di diminuire l'entità del discorso, ricondurlo su argomenti più presenti, attuali, meno incerti, che mi si rivoltarono contro quando Chicca, evitando giri di parole, "oh, tra poco te metti a commenta' pure il meteo" attestò "ma 'na parola su Simone non la dici!"

Io trasalii, capendo che, con il suo nome finalmente buttato fra noi, fosse caduta una specie di censura e, con essa, pure la farsa che stavo portando avanti.
"Cosa dovrei dire?" contestai fiaccamente "non lo sento da un po'..."

Mi aspettavo allora, in risposta alla mia ammissione, che mi raccontassero loro qualcosa, che mi dicessero come stava, cosa faceva, con chi lo faceva e già preparavo lo stomaco alla stretta che l'avrebbe colto.
Eppure non mi rivelarono nulla, nessuna informazione o confidenza.

Quel silenzio mi infastidì al punto che fui proprio io a domandare se lo stessero vedendo e, dato che annuirono entrambi, incalzai ancora: "ebbé? Quando vi incontrate che vi dite? Di che vi parla?"
Chicca chinò appena la testa, mi mise una mano sul braccio e "di te, Manu" rispose "Simone parla sempre di te."





Tornai a casa più stanco di come vi ero uscito, chiudendomi in camera e berciando contro mamma che borbottava di non lasciare sabbia ovunque.

Mi corse pure dietro, pronta forse a farmi una reprimenda, ma cambiando idea appena entrò nella stanza.

Divenne infatti apprensiva, si sedette sul letto e "ma che hai fatto qua dentro?" domandò guardandosi attorno inorridita "dove sono finiti i dischi? I libri? Manuel, amore di mamma, ma che succede?"

Mi bastò quel presagio di consolazione e affetto che le sentii nella voce per lasciarmi andare con la testa sul suo grembo e, tenendo le mani in faccia per nascondermi, cominciare a sproloquiare.

Le raccontai della costante paura del futuro, della storia interrotta con una ragazza più grande di me, del litigio con Rossana, di come a volte mi sentissi in colpa per tutto, anche per essere nato, e glielo rivelai con una sincerità che andò scemando, pian piano che introducevo Simone nel discorso.

Ora soltanto mi rendo conto che quello lì fu uno spaventato tentativo di propormi a lei nella mia vera natura, rimuovere strato dopo strato tutte le versioni di me che avevo con spavalderia portato avanti e presentarmi per ciò che davvero ero.

Lo feci però per vie traverse, adoperando metafore e provando a mantenere un distacco da quanto usciva dalla mia bocca, come se le parole le stessi prendendo in prestito da qualcuno, come a dire io ci provo mamma, mi affaccio timidamente, ma non mi mostro per bene, così, se non ti piaccio, posso rientrare e tu fai finta di non avermi proprio visto.

Lei rimase in silenzio ad accarezzarmi i capelli per tutto il tempo in cui mi confessai e, solo quando ebbi finito, si concesse di rispondere.

Prese il discorso alla lontana, o almeno così parve a me.
Si mise a parlare della mia infanzia, del periodo nero in cui venivamo sfrattati da una casa all'altra e di tutte le volte che Rossana ci aveva dato ospitalità, aggiunse poi che in più occasioni si era preoccupata di non farcela, che mi sentivo il peso del mondo addosso e nessuna forza per sorreggerlo. Ma in quei momenti sai cosa facevo?

Negai piano con il capo, senza però fiatare, che mia madre non si confidava mai così tanto e non volevo interromperla.
"Pensavo a te" disse "quando credevo che non avrei retto il peso di tutto, pensavo a te amore di mamma e stavo meglio."

Scoppiai in lacrime tra le sue braccia, perché mi dici questo?, piagnucolai colmo di un affetto che non sapevo nemmeno più dove mettere tanto mi riempiva.
Mamma mi strinse forte, "perché sei la cosa più bella della vita mia" spiegò come fosse ovvio "e perché, se c'è nel mondo una persona che ti rende felice anche solo esistendo, allora adesso devi andare da lui."

Non me lo feci ripetere di nuovo.








Avevo lasciato Villa Balestra l'ultima volta che era appena passato Natale, ci tornavo in estate piena e sotto un sole cocente.
Eppure quando vidi il giardino, l'albero di mandarini ancora coperto dalle lucine colorate e Virginia pronta con un altro aneddoto di gioventù, pensai che tutto era rimasto in sospensione ad attendermi.

Mi chiesi allora se fosse solo un contorno consolatorio, se l'edificio, le piante, la continua aria di festa e pure la nonna, i suoi racconti e il suo abbraccio accogliente, fossero lì per illudermi, o se ognuno di essi mi avrebbe riportato all'unica felicità che avevo conosciuto.

C'era musica a spandersi tra le mura di casa e io la seguì assorto, ripetendo nella mente le parole che sapevo, anche loro mai diverse, mai cambiate da quando ero andato via.

Simone lo trovai in camera sua, le spalle alla porta socchiusa e il viso rivolto alla finestra aperta che affacciava sul giardino.
Stava canticchiando a bassa voce e pur avendo tutto lo spazio per sé, sceglieva di non occuparlo, ma di tenersi fermo in un punto con i piedi nudi ben piantati a terra.

Rimasi a guardarlo per qualche secondo, finché una consapevolezza mi arrivò addosso quasi facendomi perdere l'equilibrio.

Simone esiste – pensai di colpo – nell'universo, nel mondo, nella città in cui abito, nella vita che conduco, nei pensieri che faccio, nelle canzoni che ascolto, Simone esiste.
E mi ha aspettato.

Entrai nella stanza temendo che da un momento all'altro potesse sgretolarsi sotto i miei occhi, come se i mesi lontano, le colazioni da solo, il silenzio di camera mia, il peso sul petto ad angosciarmi, ognuno di quelli sarebbe potuto tornare a tormentarmi se non avessi agito subito.

Lui si girò di scatto, nessuna sorpresa sul volto, ma un'evidente ansia manifestata nella voce tremante "ti ho visto arrivare dalla finestra" disse solo e io mi chiesi come avessi fatto tutto quel tempo a stargli lontano, a non guardarlo negli occhi e scoprirmi innamorato ogni giorno di più.

Avrei voluto confessarglielo, folle come mi sentivo, oggi ti amo meno di domani, e se domani me lo permetterai ti amerò meno di dopodomani e così avanti all'infinito.

Mi avvicinai piano, per la prima volta sicuro non solo dei suoi sentimenti, ma anche dei miei, un cicaleccio assordante entrava dalle persiane aperte e, dal giradischi, Lucio Dalla riempiva il silenzio che era calato nella stanza.

"E' arrivata l'estate" cantava e io mi ritrovai a ripeterlo con lui, mentre portavo entrambe le mani sul viso dolce di Simone e mi sporgevo per lasciargli un bacio sulle labbra salate.

"Amore mio" mormorai carezzandolo "è arrivata l'estate."





Ci amammo come se l'avessimo sempre fatto, lui arrendevole nello stesso modo in cui l'avevo immaginato e io smanioso, quasi animale, accecato da un desiderio di farlo mio che mi stupì nella sua intensità.

Glielo sussurrai prima all'orecchio, dolcemente, poi sul collo che allungava per permettermi di marchiarlo, scendendo sull'addome e lo stomaco morbido sul quale mi inebetii, finché "Manu, ti prego" mi richiamò "non ce la faccio più ad aspettare."
In quell'impazienza allora ritrovai pure la mia e, come svegliato da un incanto, ripresi a muovermi, scesi tra le sue gambe, sfilai i pantaloncini leggeri a coprirne l'intimità e la accolsi tra le labbra, senza mai distogliere gli occhi dai suoi che si chiusero solo nel momento dell'estasi.

Fu lui a chiedermelo dopo, con un sussurro che a stento colsi: lo fai l'amore con me? disse al mio viso premuto sul suo ventre ancora agitato e pochi minuti dopo scivolai nel calore del suo corpo, le spinte profonde e i gemiti che ingoiavo senza smettere per un attimo di baciarlo, nemmeno mentre annunciavo un orgasmo rovesciato tra le carni bollenti e gli ricordavo all'infinito che sei mio amore, mio, mio, mio.

Ci acquietammo e addormentammo piano piano, una discesa lenta da un apice che non avevo mai sperimentato cosi inebriante.
Io, che del sesso pensavo di conoscere ogni sfaccettatura, capii quel giorno che in realtà non ne sapevo niente, che non era solo una pulsione momentanea come credevo, ma un atto che aveva scombinato ogni parte di me in modo permanente.

Mi risvegliai poco dopo, trovando Simone intento a guardarmi con un sorriso pacato sul volto.
Seguii il contorno delle dolci labbra e avvampai stupidamente per il bacio che lasciò sopra le mie dita.
"Sai che giorno è oggi, Manu?"
Scossi confuso il capo, che per me poteva essere pure Natale o Pasqua, felice com'ero, poco mi importava.

"E' domenica" disse e prima ancora che potessi capire già mi stava tirando giù dal letto e trascinando a pian terreno.

Pensai quasi di immaginarlo il silenzio che ci circondava, così come la tavola apparecchiata con la caffettiera in ceramica a svettare sopra e la ciotola straboccante di clementine posta nel mezzo.

Spostai gli occhi su Simone e lo guardai come se lo stessi vedendo per la prima volta.

"Ma da quanto tempo è che mi aspettavi?"
Lui sorrise del mio stupore, poi con una mano scese ad afferrare la mia.
"Da tutta la vita."




———————————————————————
nota dell'autrice:
questa storia sconclusionata era in cantiere da così tanto tempo che nemmeno mi ricordo da dove ero partita quando ho deciso di scriverla.

Fa schifo come tutte le altre, ma ci sono un po' più affezionata perché, tra la signora Rossana e il personaggio di Virginia cucito interamente su mia nonna, ci ho messo tanto di me e forse troppo poco di Simone e Manuel.
Spero mi perdonerete.

La canzone citata è ovviamente Attenti al Lupo di Lucio Dalla e il finale è ispirato ad una scena di C'era una volta in America dell'immenso Sergio Leone.

P.s: come sempre grazie a Nanni e Les che sono per me quello che Simone è per Manuel e a voi che mi regalate un affetto immenso e che faccio del mio meglio per ricambiare.

P.p.s: la copertina è uno scatto di Luigi Ghirri.

Ciao! 🧚‍♀️

Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro