III
Rivedendomi oggi, sapendo adesso ogni artificio che la mia testa è in grado di creare pur di sabotarmi, posso dire che alcune situazioni avrebbero avuto ben altro sviluppo se le avessi affrontate già allora con queste stesse consapevolezze.
Da ragazzo invece mi intricavo in trame complesse, faticando dieci volte più del necessario per essere qualcosa che non mi rappresentava neanche e, nell'ossessione di una personalità artefatta, mi confondevo e dimenticavo quello che davvero ero.
Anche allora, senza che me ne rendessi conto, Simone mi aiutava a ricordarlo.
Ci formammo insieme negli anni dell'adolescenza, definendo reciprocamente i nostri confini e, talvolta, anche valicandoli, per ritrovarci sfumati l'uno nell'altro.
Io ero meno gentile nel farlo, approfittando dei labili bordi in cui si stringeva il suo carattere e nei quali trovavo modo di inserirmi, fino a smuoverlo verso azioni che compieva non per desiderio suo, ma per influenza mia.
Mi beavo in quel coinvolgimento che avevo ottenuto, nella garanzia che avrebbe sempre scombinato la sua vita per me e che quindi, io potevo pure dedicargli pensieri, ma alla fine era Simone quello che si sbilanciava davvero per starmi dietro.
Da parte sua invece non c'erano pretese, nemmeno nelle occasioni in cui avrebbe potuto averne; me ne accorsi chiaramente quando mi presentò ad alcuni suoi amici e rimase imperturbabile difronte alla mia evidente antipatia per uno di loro.
Lasciò che fossi me stesso, che perfino esasperassi i miei modi già poco cordiali verso il povero malcapitato che nulla aveva fatto se non indispormi per gli eccessivi slanci d'affetto nei suoi confronti.
Mi pareva di aver perso la centralità sempre mantenuta per ricevere in cambio un'indipendenza della quale inizialmente approfittai come un bambino scappato dai genitori, ma proprio come il bambino poi, in tutto quello spazio libero mi vidi perso.
Alla consapevolezza così acquisita, seguì un senso di disorientamento che mi turbò, tanto che una volta rimasti soli confrontai Simone, ma lo feci alla mia maniera.
Divenni polemico, provocatore, t'ho fatto fare brutta figura oggi con Giulietto tuo?, chiesi alterato, ma lui non si scompose.
"Al massimo l'hai fatta tu la figura" chiarì "non è mica responsabilità mia il tuo comportamento."
Andò avanti poi sempre con lo stesso tono pacato, rallentando il passo a ritmo con le parole e respingendo i vari tentativi di farlo innervosire, di avere una reazione, anche un vaffanculo, qualsiasi cosa insomma lo smuovesse da quell'atteggiamento di sufficienza.
"Perché te ne sei stato zitto allora? Perché non te sei tolto lo sfizio de da' ragione a quello?"
"E che senso avrebbe avuto Manuel? Se dici alcune cose è perché le ritieni giuste."
Più lo ascoltavo parlare e più realizzavo che, quella che avevo erroneamente inteso per calma, poteva essere rassegnazione, magari anche un dispiacere, che teneva nascosto solo per non provocarlo in me.
Mi misi allora in ansia, improvvisamente pensai di aver esagerato, di aver fatto una pessima impressione con i suoi amici e di conseguenza con lui.
Rividi la scena davanti agli occhi, capii che non avevo scusanti, eppure per me Simone le avrebbe trovate lo stesso e mi sentii un ingrato.
Distratto dalle paranoie, persi buona parte del suo discorso, cogliendo solo il finale che bastò a raggelarmi: "tu sei fatto così" disse e io mi piantai in mezzo alla strada e, per la prima volta in vita mia, mi chiesi se fossi fatto male.
Lui intanto aveva proseguito a camminare, forse nemmeno si era accorto di avermi lasciato indietro.
Alzai allora il passo, Simo!, Simone!, chiamai affannato finché non decelerò.
"Che c'è Manu?"
"E' un problema per te?"
"Che cosa?"
"Il mio carattere... è un problema per te?"
Fece una faccia perplessa, poi mi scrutò da sotto in su come se la risposta la dovesse ricavare dalla mia parvenza di quel momento, e, nello stato di sospensione in cui stavo fluttuando, mi sembrò che il mondo avesse ripreso di nuovo a girare solo quando scosse il capo e sorrise.
*
Gli anni del liceo, da un certo momento in poi, mi parvero volare e in un attimo mi ritrovai in quinta superiore, stranamente senza particolari intoppi.
Non posso negare però che fu anche un periodo parecchio confuso per me quello, una nuvola di fumo denso dal quale ogni tanto riuscivo a intravedere qualcosa di più nitido.
C'erano i compiti che prosciugavano molte delle mie energie, ma c'era pure una studentessa universitaria conosciuta durante l'orientamento scolastico che mi aveva rincoglionito completamente.
Ci barricavamo in camera sua – all'ultimo piano di un vecchio appartamento che condivideva con altri due inquilini – e lì passavamo ore intere.
Con lei mi ero per la prima volta avvicinato ad un sesso passionale, appagante e soprattutto complice.
Non ero più solo io ad affannarmi come capitava con le mie coetanee, a dare rassicurazioni e continuo conforto, ma potevo finalmente concedermi ad un egoismo nel piacere che mai avevo saputo e dal quale non volevo più tornare indietro.
Avevo quasi diciannove anni, stavo vivendo un rapporto sessualmente maturo e credevo bastasse quello a rendermi adulto.
Mi vedevo cambiato e di tale cambiamento volevo informare chiunque, portarlo all'attenzione prima che gli altri potessero notarlo, facendo discorsi nei quali enfatizzare che una volta avrei detto o fatto questo, ma adesso che sono diverso dico e faccio tutt'altro.
Smaniavo perché anche Simone se ne accorgesse.
Lui ancora ragazzino ai miei occhi, il mito della maggiore età imminente a ossessionarlo, me lo immaginavo intento a pensare di me grandi cose, a dirsi oh come vorrei essere anche io come Manuel e tanto che ero certo di questa versione dei fatti che ne fui deluso quando non accadde nulla di tutto ciò.
Gli raccontavo dei miei intercorsi sessuali, della libertà che quel rapporto mi concedeva, e vederlo poco coinvolto mi snervava, mi portava ad esagerare, a rendere la narrazione fittizia persino alle mie stesse orecchie.
Sembrava avesse altro per la testa, ma pur provando a chiedere non ottenni nulla se non risposte vaghe sulla lontananza da sua madre – ormai trasferita all'estero – e i troppi compiti che lo rendevano più stanco del solito.
Quel pomeriggio studiammo in un silenzio a cui non ero abituato, scambiandoci solo uno sguardo ogni tanto da sopra la fortezza di libri che ci circondava e chinando poi il capo come colti da un improvviso imbarazzo.
"Ascoltiamo un po' di musica?" mi chiese quando ebbe finito di trascrivere una versione e, fintanto che io asserii chiudendo a mia volta i quaderni, lui aveva già messo il solito disco di Dalla a girare sotto la puntina.
Avrei voluto, ma decisi comunque di non fargli nessun'altra domanda e lui neppure provò a introdurre discorsi inediti.
Ci stendemmo invece sul lettone, la mia testa all'altezza dei suoi piedi e i miei all'altezza della sua, e cominciammo a canticchiare guardando il soffitto.
Doveva essere un momento spensierato, ma a me tramise solo tanta malinconia.
Ragionai sul fatto che forse non riuscivamo a parlarci perché stavamo perdendo quella confidenza degli anni passati o perché magari qualcosa a turbarlo c'era davvero, ma non si sentiva abbastanza tranquillo da parlarmene.
Nei giorni a seguire la situazione non migliorò.
In particolare ci fu un pomeriggio nel quale lui era cosi preso dallo studio che non scese nemmeno a fare la solita merenda.
Io invece ne approfittai per parlare un po' con Virginia, facendomi raccontare qualche aneddoto di gioventù che ascoltavo rapito.
Parlava spesso della vita durante la guerra e dei mille modi inventati per sopravvivervi.
Disse che le donne della sua famiglia avevano l'usanza di riunirsi ogni giorno assieme e passavano pomeriggi interi a ricamare, a sferruzzare tovaglie, lenzuola, corredi infiniti, nella speranza poi di poterne fare uso, trovando un marito che non ci venisse ammazzato sotto le bombe.
Aggiunse poi che non piaceva a tutte come attività, che c'era chi di loro invece voleva leggere, ma doveva farlo di nascosto – che all'epoca la cultura la chiamavamo istruzione ed era roba solo per gli uomini – e che, mentre certe compagne di ricamo si affaccendavano per migliorare la loro tecnica, altre divoravano libricini di opere teatrali rubati all'uscita del Teatro Eliseo dove avevano sempre sognato di andare pur non potendoselo permettere.
Nella foga del racconto a un certo punto si animò e, forse per dare più consistenza alle parole, per renderle reali agli occhi miei, decise di aprire vari cassetti della cucina tirando fuori centritavola e altro che mi mostrò fiera.
"Vedi caro, questi li facevamo io e le mie sorelle."
Li osservai incantato, trovandoli, nonostante ve ne fossero alcuni storti e irregolari, di una bellezza commovente: non c'erano solo parole a dare continuità alla vita di Virginia – il cui desiderio di sopravvivere oltre se stessa si percepiva in quella necessità di raccontarsi – ma testimonianze tangibili che persino io, sessant'anni dopo, potevo toccare e vedere.
Le feci i complimenti, mi dissi sinceramente colpito e onorato di quelle confidenze e addirittura proposi che un giorno avrebbe potuto insegnare anche a me a ricamare.
Lei sorrise e spiegò che non aveva mai davvero imparato bene a farlo, ma che alla fine non ne era così dispiaciuta.
Quando le domandai perché non le dispiacesse, mi disse solo "beh, perché io so leggere, caro."
Quella chiacchierata mi risollevò l'umore.
Mi sembrava che tutte le mie paranoie fossero di colpo diventa minuzie facilmente superabili.
Con una nuova carica allora, presi la solita ciotola di mandarini già sbucciati e risalii su da Simone.
Stava ancora come l'avevo lasciato, in un angolo del lettone, curvo su un tomo di italiano a ripetere a bassa voce, quasi sussurrando, quello che aveva appena letto.
L'immagine mi intenerì: nemmeno da solo riusciva ad occupare spazio, a pretenderne di più di quello a lui indispensabile.
Lo richiamai con un fischio greve che lo fece rimbalzare sul materasso e spaventare, ma sei scemo?, mi rimproverò portandosi una mano al petto e io mi avvicinai sorridendo senza nemmeno sapere perché.
"T'ho portato la merenda, principe, potresti almeno ringraziare."
"Io non ti avevo chiesto nulla... e poi non ho molta fame."
"E io l'ho portata lo stesso! Mo stacce e magna!"
Gli avvicinai la coppetta al viso, ma lui si ritrasse, provai ancora a posarla sopra il libro che giaceva sulle gambe e anche lì mi scacciò, t'ho detto che non ho fame, ribadì e io feci finta di non sentirlo, prendendo uno spicchio e puntando alle sue labbra che rimasero sigillate.
"Manu dai che ho un'interrogazione tremenda domani e non so niente!" lamentò, ma non era vero. Simone diceva sempre così, eppure poi gli otto e i nove fioccavano sulla pagella e nel suo liceo era considerato tra i più bravi.
"Ma chi ce crede Simo', che sei il cocco dei prof! So sicuro che quella de matematica se farebbe caccia' pur di stare un quarto d'ora da sola con te a parla' degli assi cartesiani!"
Lui avvampò tantissimo, un rossore feroce che gli colorò il viso rendendolo ancora più dolce, si portò le mani alle guance e vi premette sopra prima di zittirmi chiamandomi persino bestia.
Risi a crepapelle per la sua reazione, con la frutta che rischiava di rovinare a terra per colpa dei miei movimenti a scatti.
"Per carità!" esclamai poi sedendomi vicino "non je toccate gli assi cartesiani a Simone Balestra che se sente male!"
Ci provò a resistere, ma dopo un po' cominciò a ridere con me, facendo cadere il libro e reclinando il capo contro la spalliera del letto.
Quel momento di debolezza lo colsi subito e nella sua bocca aperta indirizzai lo spicchio di mandarino che ancora tenevo in mano.
Per poco non si strozzò e divenne allora
un gioco farlo mangiare così.
Non riflettevo più intanto che mi mettevo a cavalcioni sora le sue gambe per impedirgli di muoversi, né mentre porgevo un altro pezzo di frutta che lui prendeva lambendomi leggermente le dita con la lingua, e neppure quando, dopo aver ingollato l'ultimo spicchio, si spingeva in avanti e grazie Manu, mormorava pacato.
Di ciò che davvero stava accadendo, me ne accorsi solo nel momento in cui, sulle mie labbra ancora schiuse in un di niente Simo altrettanto sussurrato, posò piano la sue.
Quel contatto mi rimescolò persino gli organi, una sensazione così forte che pensai mi si sarebbe crepata la pelle e che, dalle bocca, si estese fino al centro dello stomaco in un solo guizzo.
Non ebbi la forza di muovermi però, qualsiasi gesto o reazione poteva diventare una partecipazione attiva al momento, una presa di coscienza innegabile e a me mancò il coraggio.
Rimasi dunque in bilico, come fossi tra il sonno e la veglia, protagonista del sogno, sì, ma non abbastanza per decidere cosa fare.
Simone invece non fu altrettanto reticente.
Mantenne gli occhi fissi nei miei tutto il tempo, con un progetto di sorriso sul volto che voleva arrivare a compimento, ma che reprimeva in favore di un'espressione neutra.
Capii allora che mi stava dando una possibilità, offrendo, anzi, una via di fuga da una situazione che – ammetto a posteriori – avrebbe gestito meglio di quanto non sarei riuscito a fare io.
Avevo spesso sospettato che tra noi due, nonostante le apparenze, il più audace fosse lui, ma realizzarlo in un momento del genere mi mise davanti ad un'evidenza scomoda.
Mi vidi privato di un ruolo che nel tempo mi ero cucito addosso, non perché fossi davvero così, ma perché non ero capace di fare altro.
Tolto quello allora, tolta la spavalderia, la faccia tosta, gli scatti di rabbia e l'emotività feroce, scoperto insomma l'inganno della mia fragilità, cosa rimaneva?
Di me che restava?
E Simone, sebbene lo definissi piccolo, ragazzino, eccessivamente amato e protetto da una famiglia intera come io mai ne avrei avute, quanto più presente sapeva essere?
Quanto più vivo?
Non fuggiva l'errore, l'ignoto, il rifiuto.
Stava lì, fermo sul letto, gli occhioni enormi di spavento, ma la testa alta nell'affrontarlo, la fermezza nei pensieri e nelle azioni, che lo facevano – ancora una volta – sacrificare per me.
Agì lui perché io non avrei saputo, scacciò il dubbio e mise la certezza dei fatti, me lo disse senza dirlo: mi prendo questo peso, il tuo sguardo turbato, il silenzio che mi riserverai dopo, la colpa di ogni cosa anche se non ho fatto niente che pure tu non volessi.
Lo faccio per te.
E io accettai.
Scattai dal letto in un secondo, rimisi in ordine i vestiti, i capelli, la faccia su cui scorsi una mano, come se tutto fosse stato travolto e scompaginato da Simone, come se bastasse scappare via, lasciarlo lì tra mille paure, per tenerlo fuori da me.
Se mi fossi fermato un attimo in più, forse di tutto quel discorso mancato avrei sentito almeno le parole finali.
Lo faccio per amore.
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