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Prologo

Guardai il soffitto della mia camera e mi scese un'altra lacrima.

Non l'asciugai, a cosa sarebbe servito? Sarebbe stata seguita da molte altre.

Voltai lo sguardo sul comodino vicino al mio letto e controllai la sveglia: le otto di sera. Sbuffai; era dalle tre di notte che piangevo, evitavo chiunque, non mangiavo e che non sentivo nemmeno il bisogno di farlo. Era da quasi un giorno intero che me ne stavo chiusa in camera a fissare il vuoto.

Mi portai le mani sugli occhi e li strofinai vigorosamente, come per impormi di essere forte e, soprattutto, di smettere di piangere.

Sentii bussare alla porta, ma non risposi, come avevo fatto da quando era arrivata quella dannata telefonata e i miei genitori avevano provato a interagire con me.

Mia madre stavolta, a differenza delle altre, non se ne andò con un sospiro, ma entrò in camera mia e chiuse la porta dietro di lei. Alzò lo sguardo e incontrai i suoi occhi tristi.

Rimasi immobile, incapace di dire o fare qualcosa, mentre lei mi si avvicinava lentamente e si sedeva sul letto. Prese un respiro profondo e si schiarì la voce.

-È pronta la cena- disse, tenendo lo sguardo basso.

Continuai a guardare il soffitto, come se non l'avessi sentita.

-Non ho fame- risposi, secca, dopo qualche secondo.

Rimase in silenzio.

-Lo sai che soffriamo tutti- sussurrò poco dopo, fissando le mie lenzuola rosse come il sangue.

Mi tirai a sedere sul letto con una velocità impressionante e la fulminai con lo sguardo.

-Tutti?!- ripetei incredula, allontanandomi di più da lei.

Mia madre lo notò e represse un singhiozzo, portandosi la mano alla bocca.

-Non fare così, ti prego, lo sai che non è colpa nostra- disse, scuotendo la testa e implorandomi con lo sguardo.

Non mi feci abbindolare da lei; se credeva che improvvisamente li avrei perdonati per quello che avevano fatto, si sbagliava di grosso.

-L'avete spedita in un cazzo di ospizio! Quale persona con un briciolo di cuore fa una cosa simile?!- esclamai, irritata.

Tutta la tristezza e la rabbia che provavo stavano uscendo in quel momento, senza che io riuscissi a fermarle.

-Non poteva rimanere per sempre qui, Ariel!- strillò lei sull'orlo delle lacrime.

A quelle parole persi il controllo e mi alzai in piedi, incamminandomi velocemente verso la porta.

La guardai con disprezzo e scossi la testa.

-E quanto è durato questo "per sempre", eh? Due mesi! Due fottuti mesi! Perché non l'avete ammazzata se vi dava così tanto fastidio?!- urlai, soffocando un singhiozzo insistente.

Anche lei si alzò e mi raggiunse, fissandomi con un'espressione incredula e ferita.

-Non dire queste cose, Ariel, non pensarle nemmeno!-

Mi era anche passata la voglia di urlare e litigare, quindi mi limitai a scrollare le spalle in un gesto di fastidio.

-Come vuoi- tagliai corto, uscendo dalla mia stanza e raggiungendo il bagno, sbattendo la porta e chiudendola a chiave.

Mi lasciai scivolare lentamente a terra con le spalle poggiate ad essa e mi presi la testa tra le mani, singhiozzando.

Non era colpa loro? Non era colpa loro se negli ultimi due mesi avevo passato pochissimo tempo con lei?

Mi alzai e mi posizionai di fronte allo specchio attaccato al muro, ma non guardai il mio riflesso, bensì fissai il vuoto davanti a me, ripercorrendo nella mente la nostra ultima conversazione, le ultime parole che ci eravamo dette.

Nonna Maggie mi guarda con gli occhi lucidi e sorride.

Le ho detto che, appena avrò una casa tutta mia, la porterò a stare da me.

Lei scoppia a ridere, forse non capendo che il mio non è uno scherzo. Siamo a settembre e tra qualche giorno inizierà il mio primo giorno di scuola dell'ultimo anno di liceo, così poi potrò andare a Yale, portarla con me e alloggiare in un appartamento tutto nostro.

Non capisco perché la cosa la diverta tanto, è un piano più che fattibile, mia nonna era un avvocato ed ha una pensione molto generosa, non sarebbe difficile vivere con quella e i soldi del lavoro che mi troverei.

-Tesoro, non dire sciocchezze- mi rimprovera bonariamente, mescolando il mazzo di carte che si trova sul tavolo. La guardo aggrottando le sopracciglia.

-Sciocchezze? Nonna, ne abbiamo sempre parlato, ti dico che mi accetteranno, farò tutto il possibile per essere ammessa- la prego con lo sguardo.

-Ma cosa pensi? Tu sarai sicuramente ammessa a Yale, tesoro. Sono io che...- si blocca un attimo, come per trovare le parole giuste, -... non so se potrò assistere alla tua piccola vittoria- ammette senza perdere il sorriso.

Ma è pazza? Non può dire queste cose.

-Chi ti ha messo queste idee in testa? Mamma e papà? Sono stati loro, non è vero?- esclamo, con un tono evidente di irritazione nella voce.

Lei scuote la testa, sempre con quella sua aria angelica, tanto che a volte mi chiedo se lei esista davvero o se sia effettivamente il mio angelo custode, visibile solo ai miei occhi.

-Non dare sempre la colpa a loro...- cerca di rabbonirmi, senza risultati.

-Ti hanno strappata a me- sussurro con le lacrime agli occhi.

Si sporge verso di me e mi accarezza una guancia, in un gesto pieno di affetto e amore.

-Sono malata, Ariel. E nessuno cambierà questo, te l'ho già detto. Non voglio passare nella tristezza i momenti preziosi che mi rimangono con la mia nipotina- dice, senza staccare gli occhi dai miei, mentre io sento il bisogno impellente di piangere, di scoppiare in singhiozzi; ma non lo faccio. Non lo faccio per lei, perché non voglio vederla triste.

Annuisco ricacciando indietro le lacrime e le stringo la mano, poi torniamo a giocare a carte.

Rimaniamo in silenzio per i successivi venti minuti, finché un'infermiera ci interrompe comunicandomi che l'orario delle visite è finito.

Mi alzo di malavoglia dalla sedia scomoda del tavolino di legno e sorrido divertita a mia nonna che fa dei gesti buffi da dietro l'infermiera.

Mi avvicino a lei e la stringo forte, imprimendomi il suo buonissimo profumo nella mente e nel cuore, poi mi allontano e mi giro una volta arrivata alla porta d'uscita.

-Prepara i bagagli, nonna. Yale ci aspetta-

Presi una spazzola e la tirai contro il mio riflesso, in un gesto d'ira.

L'ultima volta che avevo visto la nonna era stato qualche giorno prima. Il giorno seguente sarebbe stato il primo giorno di scuola, dopo il quale sarei andata da lei, le avrei raccontato tutto e la mia migliore amica Sarah sarebbe venuta con me.

Nonna adorava Sarah. Quando gliela avevo presentata, mi aveva detto che avevo scelto bene e sentirlo dire da lei, che di solito diffidava delle mie amiche, mi aveva fatto un enorme piacere.

Anche a Sarah piaceva molto la nonna e si era affezionata, tanto che spesso veniva a trovarmi apposta per parlare un po' anche con lei, una volta persino all'ospizio.

Nonna era molto brava con le parole, essendo un avvocato, e le sue esperienze e i consigli saggi che ci dava, erano sacri per noi due, come per molti altri. Era amata da molte persone, tutti le volevano bene. Era una persona solare, sempre gentile con tutti, anche con mia madre e mio padre, suo figlio, che l'avevano spedita in quel posto orribile come se fosse stato un inutile fardello.

Alla fine le persone migliori sono quelle che se ne vanno per prime.

Sospirai e, prendendo coraggio, fissai il mio riflesso, non riconoscendomi. I miei occhi enormi, scuri e profondi, erano gonfi, rossi e bruciavano. Mi passai una mano sulle labbra ancora bianche per lo shock e sulle guance rosse a causa degli strofinamenti delle mie mani quando mi asciugavo le lacrime.

Mi sciacquai la faccia e mi fissai ancora a lungo.

I miei capelli leggermente mossi, lunghi e neri, erano legati in uno chignon disfatto sulla testa.

Non persi neanche tempo a sistemarli e tornai in camera mia, trovandola fortunatamente vuota. Mi sdraiai di nuovo sul letto e chiusi gli occhi.

Il mio cellulare squillò per l'ennesima volta in quel giorno, ma lo ignorai nuovamente. In effetti mi sentivo un po' in colpa, sarebbe sicuramente stata Sarah, che aveva il diritto di sapere.

Allungai la mano e presi il telefono, poi lentamente me lo portai davanti e lo sbloccai: quindici chiamate perse, dieci da Sarah e cinque dal mio migliore amico Mike. Senza contare tutti i messaggi che mi avevano mandato.

Quel giorno ci saremmo dovuti incontrare tutti e tre al cinema, come avevamo deciso la sera prima, ma non mi ero presentata.

Volevamo celebrare la fine dell'estate, l'inizio del nuovo anno scolastico, l'ultimo per esattezza, ma non li avevo neanche avvertiti. Mi sentivo terribilmente in colpa, cosa c'entravano loro? Sarebbero stati preoccupatissimi.

Non feci in tempo a richiamarli che la porta della mia stanza si spalancò ed entrò Sarah sconvolta e in lacrime.
Mi guardò col labbro inferiore che tremava e istintivamente mi alzai e l'abbracciai, scossa dai singhiozzi. Rimanemmo strette per un tempo indefinito, poi si staccò e mi guardò tristemente.

-Quando...?- sussurrò in modo flebile.

-Stanotte. Alle tre e cinque-

Annuì e chiuse gli occhi.

-Non è giusto- mormorò, dopo qualche minuto di silenzio.

-Mike?- chiesi, cambiando argomento.

-È al piano di sotto-

-Me lo chiami, per favore? Non ho voglia di vedere i miei...- la implorai con tono sofferente.

Annuì e mi accarezzò la mano, come per tranquillizzarmi, poi uscì dalla stanza. Mi sedetti sul letto, leggermente sollevata. Il fatto che i miei migliori amici fossero con me mi aiutava tantissimo. Sapevo che nonna non stava bene, lo sapevo, ma speravo solo che...

Mi ero fatta un film in testa, come potevo davvero credere alle mie stesse parole? Era ovvio che non avrebbe sconfitto la malattia, perché i dottori ce l'avevano detto.

La porta si riaprì, ma io tenni lo sguardo basso.

-Ariel-

Mike si inginocchiò davanti a me e mi prese il viso tra le mani, per costringermi a guardarlo. Non disse niente, ma mi rivolse un sorriso mesto e triste. Tirai su col naso e lo abbracciai, stringendolo forte. Lui mi circondò con le braccia e mi baciò sulla fronte. Ci staccammo e mi sdraiai sul mio enorme letto matrimoniale. In silenzio, loro si sdraiarono ai miei lati e ci ritrovammo come quando a nove anni dormivamo tutti e tre insieme nello stesso letto. Era dall'età di tredici anni che i nostri genitori avevano convenuto che fosse meglio dividere me e Sarah da Mike.

A quest'età gli ormoni impazziscono, avevano detto.

Ma non capivano che noi tre eravamo come fratelli separati alla nascita, con un legame particolare e indissolubile. Fissammo il soffitto, ognuno assorto nei propri pensieri.

-Si vive una volta sola. Ma se lo fai bene, una volta è abbastanza-

Io e Sarah ci girammo confuse verso Mike.

-È un aforisma di Joe E. Williams-

Inarcai un sopracciglio. E lui come faceva a saperlo? Non era proprio una cima in fatto di cultura.

-Che c'è? Anch'io leggo ogni tanto!- si lamentò delle nostre occhiate scettiche. Riuscì persino a strapparmi un sorriso sincero. Se ne accorse e i suoi occhi brillarono di felicità.

-E voi ci credete?- chiesi io dopo qualche minuto.

-A cosa?- ribatté Sarah, confusa.

-A quello che Mike ha detto prima. Secondo voi una vita può bastare?-

Sarah si strofinò gli occhi, mentre Mike continuava a fissare il soffitto.

-No. Non basta- dichiarò lei alla fine.

-Io credo di sì- replicò il mio amico.

Sospirai e mi misi a sedere.

-Siamo due contro uno, mi spiace Mike- scherzai, con un amaro sorriso.

Per i successivi dieci minuti non parlammo. Mi piaceva quel silenzio, era quello che mi serviva: rilassarmi con i miei migliori amici. Loro non mi avrebbero abbandonato, ne ero sicura.

-Dovreste andare a casa, ragazzi, domani è il primo giorno- ricordai loro, come una madre preoccupata per i suoi figlioletti.

-No!- esclamò Sarah, scuotendo la testa.

Mike la assecondò e io li rimproverai con lo sguardo.

-Se vuoi che passiamo da te domani appena usciamo, diccelo- mi disse Mike alla fine, rassegnato.

-Domani vengo a scuola- li informai.

-Sicura?- chiese Sarah, con una lieve nota di preoccupazione nella voce.

Annuii e li abbracciai un'ultima volta, per poi guardarli uscire dalla mia stanza.

La scuola era l'ultimo dei miei pensieri in quel momento, ma avrei fatto di tutto pur di allontanarmi dai miei genitori, dopo quello che era successo.

Mi alzai e decisi di fare una doccia, anche se sapevo che tutte le sensazioni negative non se ne sarebbero andate via con l'acqua.

Presi un normale completino intimo bianco dal cassetto, raggiunsi il bagno e aprii la manopola dell'acqua, impostandola sul lato freddo. In casi come quello sembravo quasi masochista, ma, quando soffrivo, avevo bisogno di essere distratta da qualcos'altro, come la temperatura bassa dell'acqua, che mi impediva di pensare alla ragione del mio malessere.

Sfortunatamente, quella volta non funzionò, così uscii dalla doccia infreddolita e sempre più abbattuta. Mi asciugai il corpo e i capelli con movimenti automatici e lo sguardo assente, indossai il completino, tornai in camera mia e indossai il pigiama che mi aveva regalato la nonna qualche tempo prima.

Mi sdraiai sotto le coperte e spensi la luce. Non sapevo se sarei riuscita a dormire, non sapevo più niente. Guardai il buio per qualche minuto, poi mi tirai la coperta sulla testa, come per ripararmi dalle cose brutte, e mi addormentai.

Quella notte feci degli incubi, sogni spaventosi, e non c'era la nonna che mi rassicurava dicendomi che anche a lei succedeva e che era solo colpa del freddo. E sapevo che, almeno quella volta, la causa era un'altra.

Ciao a tutti! Questa è la mia prima storia pubblicata su Wattpad, nonostante la mia "esperienza" su altri siti. Spero che questa prima parte vi abbia incuriositi. Lo so, è leggermente triste, ma la vita della nostra Ariel sta per essere stravolta! Questa breve introduzione deve aiutarci ad entrare in contatto con la protagonista e con i suoi sentimenti, per permetterci di immedesimarci il meglio possibile nella storia.

Ho pensato ad inserire qualche foto riguardo a come io immagini i protagonisti della storia. Fatemi sapere nei commenti se volete che le inserisca o se preferite immaginarli personalmente!

Intanto io vi informo che gli aggiornamenti dovrebbero proseguire ogni settimana... ringrazio chi ha letto e vi aspetto, alla prossima!

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