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Venti, o le Selve.

1478, 13 maggio.
Lemuria, terzo giorno.

Le foglie larghe delle viti, lasciate potate a metà sui filari, raccoglievano i raggi d'oro del meriggio. Un giovane, in piedi su uno sgabello di legno, mescolava con un lungo bastone la pastura dei maiali.

Le cicale avevano cominciato a frinire e non avrebbero smesso fino al calare della sera.

Quando un cavallo, sbuffando e frustando con la coda, gli fece ombra e spinse le mosche verso il trogolo, lui voltò prima gli occhi e poi il viso. Interpose una mano tra sé e il sole per schermare gli occhi dalla luce, ma non riuscì a scorgere i lineamenti dell'uomo che era arrivato.

«Siete voi il Poliziano?» domandò. Simultaneamente, lui scese da cavallo e il ragazzo, dopo aver scacciato con il bastone uno dei suoi maiali, che si era avvicinato troppo al trogolo in cerca di cibo, saltò giù dallo sgabello.

Non più ostacolato dai raggi del sole, poté vedere le mani della persona che aveva davanti. Erano sottili, le nocche prive di segni, le unghie corte e senza nemmeno una sbeccatura o un'incrostazione. Indossava un anello d'oro, di una foggia che aveva visto solo le poche volte che era uscito dal suo tugurio per andare a portare le galline a Siena, al dito di mercanti coperti di stoffe pregiate. Alzò lo sguardo sul suo viso, rasato alla perfezione da una lama affilata: gli unici segni, lievi, della giovinezza che stava lasciando il passo a un'età più matura erano le rughe d'espressione ai lati della sua bocca. Di riflesso, il ragazzo si passò una mano sul volto: sentì le cicatrici che il vaiolo gli aveva lasciato sulle guance, poi la barba ispida che gli cresceva sotto al mento.

«Sì, dovete essere voi,» concluse. Era lui, piccolo e magro e di bile gialla come dicevano. Era lui: Piero gli aveva descritto alla perfezione i suoi begli occhi, lievemente divergenti a guardarli bene, e le sue ciglia. Ma questo non glielo disse.

Poliziano, ancora con le redini in pugno, guardava verso la campagna, osservava i maiali che strofinavano il grugno a terra. Uno di loro spezzò qualcosa di duro con i denti.

«Sei stato te a mandarmi a chiamare?» domandò dopo qualche istante. Aveva un atteggiamento distaccato, composto, ma non dava segno di essere disturbato da quel luogo fatiscente o dall'odore dello sterco.

«Sì».

«Qual è il tuo nome?»

Il ragazzo era tornato a mescolare il mangime per i porci. Un odore acre saliva dal trogolo.

«Cecco,» replicò lui. Fece una pausa e, staccata una mano dal bastone, si deterse con la manica la fronte, dove il sudore gli aveva appiccicato i capelli sottili. Guardò negli occhi Poliziano, senza dare segno di temerlo, prima di continuare: «Non pensavo che ci venivate da solo». Qualcosa nella mangiatoia attirò la sua attenzione, e lui riprese il suo lavoro. «Non pensavo neanche che ci venivate, a parlare con un pastore».

«E perché?» chiese il poeta, mentre muoveva un passo avanti.

«Fermo!» Cecco lo bloccò in tono perentorio, con una mano aperta tesa davanti a sé. Interdetto, Poliziano si immobilizzò e il ragazzo spiegò con voce più calma: «C'è la merda, lì per terra. Vi sporcate le scarpe».

Cecco volse gli occhi alla propria abitazione, in silenzio. Forse il Poliziano sapeva di cosa parlavano i contadini, ma lui mica sapeva di cosa parlavano i poeti. Guardò il tetto di legno: mezze travi gliele aveva bruciate un incendio l'anno prima, ed era stato costretto a ridurre le stanze in cui si poteva vivere. Poco male poiché, a parte ospiti occasionali, era rimasto l'unico vivo in quel posto.

Alzò l'indice e, con gli occhi socchiusi per la luce, lo puntò di fronte a sé.

«Io Piero lo conoscevo perché gli facevo usare il casolare,» spiegò. Il poeta lo ascoltava, e il vento che in quei giorni spazzava le campagne, e rapidamente faceva mutare le nubi, gli sollevò i capelli bruni. «Quando magari c'aveva un cliente che non si poteva portare in casa, o se magari uno voleva scopare, dico io, in modo un po' particolare. Scusate per come parlo, eh, Poliziano».

«Ah,» ribatté lui, con un'alzata di spalle, «si scopa anche a palazzo».

Quell'osservazione strappò un sorriso a Cecco, che tirò le labbra timidamente senza scoprire i denti.

«Lo immaginavo,» rispose. Il vento soffiò di nuovo, più impetuoso di prima, come se volesse spingere il fantasma di Piero tra loro due. «Qualche sera che non avevamo clienti, per avere meno freddo è capitato che lo facevamo tra noi due. Mi ha parlato di voi, mentre stavamo a letto. Di come vi doveva tutto ciò che sapeva... tutto ciò che era, forse». Calò il silenzio, spezzato dai grugniti dei maiali. Poliziano lo guardò; Cecco si chiese come potessero i suoi occhi contenere tanta luce.

«È morto per voi,» concluse, «ecco cosa avevo da dirvi».

*

«Ah, sì... sì!»

Assecondando le mani del suo cliente, che lo spingevano a cavalcarlo, Piero gettò all'indietro la testa e continuò a gemere. Era diventato in fretta bravo a far finta di godere, in modo tale che gli uomini a cui si concedeva si sentissero appagati dalla propria prestazione oltre che dal possedere il bel corpo di un ragazzo nel fiore degli anni. Quando l'atto in sé non riusciva nemmeno a eccitarlo, immaginava o ricordava momenti che gli avevano dato piacere. Talvolta pensava al modo in cui erano cambiati i baci e le carezze di Poliziano nel momento in cui, a letto, lui gli aveva chiesto di privarlo della verginità. Al tono spezzato e sommesso della sua voce che gli chiedeva di prenderlo in bocca.

Riuscì, immerso in tali pensieri, a giacere ancora una volta con un uomo che aveva l'età di suo padre. Sentì il ventre ispido del suo cliente contrarsi mentre lui concludeva con soddisfazione, le sue mani poco delicate infilate tra i capelli. Piero gli offrì l'immeritata visione del proprio corpo nudo inarcato dolcemente, le labbra socchiuse in un'espressione di forzata estasi e il respiro irregolare. Dopo qualche istante, il ragazzo aprì gli occhi e guardò nella penombra - gli scuri socchiusi bloccavano i raggi impietosi del sole - l'uomo disteso sotto di lui.

Egli gli afferrò il volto con una mano e lo costrinse ad abbassarsi per baciarlo sulle labbra.

«Vieni qui, bello».

Dicendo che aveva da festeggiare, il suo cliente si era portato nella stanza del casolare un codice rilegato in cuoio e una bottiglia di vino. Il suo alito aveva un odore rivoltante.

«Cosa stiamo festeggiando?» chiese Piero in tono civettuolo, guardando negli occhi il suo cliente, in modo da non doverlo baciare di nuovo. Gli mostrò un sorriso quando sentì le sue dita scendere al limitare della schiena.

«La rivolta a Firenze, bellino,» gli rispose l'uomo. «Finalmente saremo tutti uguali... anche quelli come te».

«Anche quelli come me?» ribatté Piero con una risata leziosa. Si distese prono sul letto, di fianco all'uomo, e passandogli un dito sul petto piegò le ginocchia e dondolò in aria le gambe. «Sembri qualcuno di importante...» lo lusingò. «Cosa succederà in città?»

«Oh,» replicò l'uomo, con una risata roca, «lo vedrai. Io sono solo un messaggero di novità».

Piero gli appoggiò con delicatezza femminea le labbra sulle clavicole.

«Perché non me lo dici adesso?» mormorò. Non era inusuale che gli uomini, ammorbati dalla sensazione che li possedeva dopo il coito, e dall'istinto di considerarlo non più che un giocattolo, gli fornissero informazioni che poteva rivendere a prezzi anche più alti di una prestazione.

Il cliente di Piero rise di nuovo, solleticato dai suoi baci.

«Sei a letto con un uomo che potrà pagarti molto se la rendiamo un'abitudine, bimbo,» gli disse.

«Oh, sì? E come mai?»

«Perché quel libro lì vale tanto oro quanto pesa».

Piero inarcò le sopracciglia con fare sempre più interessato.

«Davvero?» gli domandò, il capo poggiato leziosamente sul braccio. «Come le armi di Brenno?»

«S'arriverà a colpire finanche i signori, quando giungerà a destinazione».

«Colpire i signori?»

«Uccidere,» confermò l'uomo, tronfio. Un presagio sinistro strinse lo stomaco di Piero. Quel tale era solo uno sgherro dalla bocca larga, senza alcun pregio, imbaldanzito dal compito che gli era stato affidato in modo imprudente. Un omicidio non era fatto con cui scherzare, e allo stesso tempo era un'informazione che costava.

Piero si prese qualche istante per decidere se giocare o meno col fuoco. Fece gli occhi dolci all'uomo e ridendo gli si mise a cavalcioni, con le mani sul petto.

«Mi sto eccitando,» disse con il tono più frivolo di cui era capace, vuoto d'ogni intelligenza. Poi abbassò la voce per chiedere: «E chi si vuole uccidere?»

«Qualcuno della corte di Lorenzo».

Il ragazzo sorrise in modo malizioso e strofinò il bacino contro quello dell'uomo, che gli strinse prontamente il culo con entrambe le mani.

«E chi?»

«Questo non lo so».

«Dai, sì che lo sai...»

Con un movimento rapido, Piero si alzò dal letto. Sapeva che avrebbe dovuto giacere una seconda volta con quell'uomo, quindi si diresse a riattizzare la brace nel camino, senza preoccuparsi di indossare qualcosa. Prima di raggiungere la meta, si fermò accanto al mobile su cui il suo cliente aveva appoggiato il libro. Sollevò le pagine e riuscì a vedere, anche se solo per un istante, che al suo interno era stata infilata una lettera con un elenco. Lesse un paio di nomi che gli parvero tipi di piante, ma non riuscì a continuare perché la voce del suo cliente lo richiamò:

«Ah, maledetto me che te l'ho detto... non sbirciare, dai, vieni qui».

Per non farlo arrabbiare, Piero chiuse il volume. Tuttavia, non tornò con lui nel letto ma si diresse verso il camino.

«Dimmi chi è,» insistette, mentre muoveva la cenere con l'attizzatoio. «Voglio vedere se lo conosco».

«Si vocifera Poliziano».

Il rumore del ferro che grattava sulla pietra del camino s'interruppe all'improvviso.

«Poliziano il poeta?» chiese la voce distratta di Piero.

«Così ho sentito».

In quell'esatto momento, il ragazzo si rese conto di aver stretto le dita attorno all'attizzatoio. Lì in piedi, nudo con un'arma in mano, era una statua in un mondo immobile. Fece vagare gli occhi per la stanza da letto senza riconoscerla. Lo stesso nome che era uscito dalle brutte labbra del suo cliente suonava estraneo.

Poliziano.

Il poeta di corte avvelenato. Un'informazione del genere l'avrebbe fatto uccidere. Doveva scappare immediatamente, far perdere le proprie tracce prima che i mandanti di quell'uomo venissero a sapere che s'era lasciato sfuggire quell'informazione. Sempre che non fosse già successo.

«Ah, sì,» disse, «lo devo aver sentito nominare».

Le sue dita si strinsero ancora sull'attizzatoio.

*

«...polisindeto,» aveva mormorato Piero, prima di alzare lo sguardo con timore reverenziale sul suo maestro di lettere, seduto davanti a lui. Non sapeva come evitare che la voce tremasse, che una gabbia di spine gli trafiggesse il cuore. Solo nella sua stanza, si era astenuto da qualsiasi atto impuro, aveva pregato per la salvezza da quel male contrario alla natura dell'uomo. Non era servito. Avrebbe dovuto dire a Poliziano di non impartirgli più lezioni in privato, ma quelle parole l'avrebbero senz'altro offeso.

La veste di Piero aveva frusciato quando lui si era accorto di aver sfiorato con la gamba quella di Angelo, e l'aveva ritirata. Si era sistemato i capelli ricci dietro le orecchie, nella speranza che lui lo trovasse attraente.

«Prova a leggere,» aveva esortato Poliziano. «Attento alle legature».

Le iridi scure del maestro si erano trasformate nelle righe del foglio che Piero aveva davanti.

«Benedetto sia 'l giorno, e 'l mese, e l'anno,» aveva cominciato a recitare il ragazzo, con pronuncia chiara, ma anche con una certa timidezza che non gli derivava dal Petrarca. Aveva alzato di nuovo gli occhi sul viso del maestro, intrecciato le dita delle mani sul tavolo, e guardandolo proseguiva a memoria, la voce sempre più flebile:

«E la stagione, e 'l tempo, e l'ora, e 'l punto». Non riusciva a concentrarsi sulla legatura, accecato dal desiderio di concedersi al suo maestro, lasciarsi prendere il viso tra le mani e abbandonarsi a un bacio colombino. Poliziano forse lo sapeva da tempo. Le dita di Piero, tremanti, si erano sciolte dalla loro vicendevole presa e si erano posate a fianco al libro, forse nell'inconscia speranza di venire afferrate.

«E 'l bel paese, e 'l loco ov'io fui giunto». Quella poesia gli pareva sempre più personale, come se parlasse a parti della sua anima che lui, invano, aveva sepolto. Il suo piede era di nuovo tra quelli di Poliziano. Non aveva saputo comprendere chi dei due avesse preso l'iniziativa, ma le dita della sua mano destra si erano trovate intrecciate a quelle del maestro, a cui con la sinistra accarezzava il viso.

«Da' duo begli occhi che legato m'hanno,» aveva concluso. Il lento avvicinarsi delle loro labbra si era affrettato verso un bacio appassionato. E dietro alle ciglia chiuse di Piero era scoppiato per la prima volta il giorno.

*

Piero gridò ancora e ancora, ma urlare non aumentava il suo coraggio. Non lo faceva sentire un guerriero. L'uomo giaceva nel letto con la testa spaccata, aveva schizzato sulle lenzuola sangue e un liquido grigiastro. Il ragazzo infierì sul corpo, colto da un impeto di violenza e terrore. Non pensava di possedere tutta quella forza, né tutta quella ferocia.

Non appena tornò in sé, con gli occhi fissi su ciò che aveva fatto, sentì il vomito risalire lungo la gola.

O io o lui. L'attizzatoio che stava stringendo tremava spasmodicamente. O io o lui o...

«Angelo...» mormorò in tono soffocato, con una mano davanti alla bocca. Fissava il corpo molle del suo cliente riverso sul materasso, e quando tornò in sé lasciò cadere l'arma a terra e si precipitò verso la porta.

«Cecco!» gridò. Le lacrime gli bruciavano gli occhi, e così fece il sole quando lui uscì all'aria aperta, con addosso i pochi abiti che era riuscito a recuperare. Sapeva che a quell'ora il suo amico ancora non sarebbe tornato dai campi. Le gambe lo sostenevano in una corsa disperata che si lasciava alle spalle una scia di sangue, un grido non conosciuto dall'inverno. «Cecco!»

Ora che era un mostro, Poliziano non lo avrebbe amato mai più.

*

«Venne da me e mi raccontò tutto. Si gettò ai miei piedi e piangeva. Io subito pensai che l'avevano violentato, perché una volta era successo, ma poi mi disse che aveva ucciso un uomo e mi chiese di aiutarlo con il corpo».

Cecco fece forza sul palo affondato nel trogolo, per mescolare qualcosa di più denso del resto. Poliziano abbassò lo sguardo e scoprì i denti con una smorfia di dolore. Sentiva sul petto un peso di cui non ricordava di aver mai letto. Lo ricercò nelle righe dove Achille aveva perso il suo Patroclo, nel suo urlo di vendetta, però nell'animo di un eroe c'era ira e non ineffabile colpa.

Fino a quel giorno aveva pensato che Piero fosse morto per disgrazia. Invece la rivelazione lo aveva infilzato come un colpo di balestra: era morto per amore, e grazie al suo gesto quell'elenco di veleni non era mai arrivato a chi di dovere. Lui, invece, anche quella notte avrebbe provato a cercare nel corpo di un amante il suo perduto calore.

«E te, lo facesti?» domandò Poliziano.

«Sì,» rispose Cecco senza esitare. «Die' anche foco al libro con la lettera».

Gli dèi, gli stessi che amavano le selve, avrebbero mai smesso di riversare addosso agli uomini il dolore?

Di fronte a quella sofferenza, e ai maiali, Poliziano era solo. Non gli sarebbe servita davanti al vuoto la sua eloquenza, né d'uso la teoria latina; né la tromba dei guelfi né l'esilio del poeta.

Niente. Si alzava il fumo dai campi, l'aratro riposava sulla maggese. Le bestie grufolavano a terra, sbriciolavano col muso sporco di polvere ogni osso.

«Vieni, ragazzo. Avvicinati».

Cecco esitò. Alzò un poco la mano, in un gesto che a metà perse la sua forma, e guardò il poeta con diffidenza. Le sue iridi erano tanto chiare da sembrare di vetro.

«Non temermi,» continuò a dire Angelo, con tono risoluto e tranquillo. Allargò il braccio destro come l'ala di un cigno. «Vieni qui».

Il ragazzo si strinse a Poliziano: era un poco più alto di lui, ma chiudendosi nelle spalle si fece piccolo. L'uomo passò il braccio attorno alle sue spalle.

«Speravo che Piero vi raggiungeva,» gli confidò Cecco, «per chiedervi perdono lui».

Poliziano gli posò il mento sulla testa china. Guardò verso le cime dei cipressi e si domandò se avesse senso, in quel caso, chiedere perdono.

«Non c'è riuscito,» mormorò, senza lasciarlo. «L'hanno trovato prima loro».

Il poeta sciolse l'abbraccio e interpose una certa distanza tra sé e Cecco, tenendogli le mani sulle spalle e osservandolo. Nonostante la vita avesse lasciato i suoi segni su di lui, era molto giovane. Lo si notava dalla forma ancora arrotondata del volto.

«Lo amavi?» chiese Poliziano in tono estremamente diretto. Non aveva paura della risposta, e non ne aveva neanche il ragazzo.

«Sì». Cecco strinse le labbra e si grattò la guancia destra, arrossata da un eritema. «Ma lui amava un uomo potente, e s'è fatto ammazzare per lui. Io c'ho solo dei porci, ogni tanto il formaggio».

Angelo soffiò l'aria fuori dal naso e, senza battere ciglio, squadrò col capo inclinato il giovane che aveva davanti.

«Dovresti confessarti a Dio,» concluse, e fece per dargli le spalle. «Non a me».

«Non v'ho chiamato per confessarmi».

Quella frase fece sì che il poeta si fermasse e si voltasse di nuovo verso Cecco. Con le sopracciglia aggrottate, osservò il riflesso rossastro del sole sui suoi capelli, sporchi alla radice e tagliati in modo asimmetrico.

«Per cosa, allora?» replicò.

Cecco alzò il mento come se fosse sul punto di sostenere il giudizio di un re.

«Io c'ho paura che quelli mi trovano e mi ammazzano anche a me per averlo aiutato». Lo disse tutto d'un fiato, e fu costretto a respirare a fondo prima di proseguire: «Voglio chiedere la vostra protezione».

Angelo si accorse di aver affondato gli incisivi sul labbro solo quando cominciò a sentirlo bruciare. Rivide davanti a sé Piero, il suo bellissimo viso contorto in una smorfia mentre lui lo pregava di smettere con quella vita. Lui non sapeva nemmeno come avrebbero fatto, ma si amavano, e con i soldi della cassa di Lorenzo...

Non c'era stato verso di convincerlo, e ora non avrebbe mai più sentito un "no" uscire dalle sue labbra delicate.

Era impossibile, con quel sole alto e sfolgorante, guardare verso la città dei Fiori.

«Posso nasconderti a palazzo,» decretò infine il poeta, riguardando la campagna toscana. Nell'ordinare a Cecco di raccogliere le sue cose e trovare qualcuno che gli curasse le bestie, camminò avanti, nello stesso modo armonioso in cui doveva aver camminato il figlio di Eagro dopo aver appeso la cetra al ramo.

Sopra alla sua testa, nuvole bianche che prima non c'erano si sfilacciarono nel cielo azzurro, e i loro stralci, le loro ombre si trasformarono in donne feroci che dilaniavano il corpo dell'uomo che avevano ai piedi, il loro senno annegato nel vino falerio che l'adolescente Bacco ha mesciuto per noi.

Poliziano si voltò. Con il palmo appoggiato sul fianco del cavallo, guardò controluce il casolare dalla porta socchiusa. Cecco era svanito al suo interno; una seconda figura, eterea, se ne stava andando nel fruscio delle foglie, nel lamento d'amore che li aveva disfatti entrambi.

«Sic fluit occulte, sic multos decipit aetas,» cantavano in latino Angelo e le selve. Erano sempre le stesse lodate da mille anni, quelle degne dei consoli, stanche di cercare cos'ha di diverso di volta in volta la voce colta di ogni poeta. Nel frattempo, nei pressi di una radice nodosa moriva un verme, predato dal becco di un uccello per finire nella gola di un pulcino. Poliziano si sentiva in centro a tutto, rosa dell'Arcadia e spina del Liceo, cinto dall'acanto flessibile e dall'edera.

Nel frattempo, serbato da mura spesse, il Rinascimento moriva troppo velocemente nella gola dei signori, nelle feste e nelle guerre, nelle selve solitarie che cantavano in latino: «Sic venit ad finem quidquid in orbe manet» .

Figliolo d'Eagro, ben venga maggio.

*

1478, 13 giugno.
Idi di giugno.

Il canto di un gallo lo aveva svegliato ben prima del sorgere del sole; al che lui, infastidito, si era girato sulla pancia e aveva ripreso a dormire. Quando i raggi del sole avevano proiettato l'ombra del suo naso sul viso - simile al Monte Corno che ritarda il giorno sulla valle - Poliziano si era reso conto che si era rigirato di nuovo. Tutte quelle posizioni si erano rivelate fondamentalmente inutili per lenire il dolore che gli scendeva dalle spalle fino ai lombi.

Con un lamento roco, scacciò l'ultima eco di quel ricordo d'amore finito che gli era giunto in sonno. Nel tentativo di sopportare il vociare insistente che proveniva dai corridoi di Cafaggiolo senza dover aggiungere patemi al mesto cappellano dietro al confessionale, fece vagare lo sguardo sul soffitto e mosse le dita sulle lenzuola pulite. Lo avevano lasciato da solo nella stanza padronale, in un letto pensato per ospitare un'intera famiglia, che aveva l'unico effetto di farlo sentire ancora più minuto. Dopo la scomunica di Lorenzo per le rappresaglie contro i Pazzi, e le conseguenti incursioni della coalizione papale nelle roccaforti di campagna, la guardia agli uomini della corte era sempre più serrata. Quindi lui, di fatto, era costretto all'astinenza sessuale anche se erano ormai finiti gli Ambarvali. Meglio: avrebbe dedicato il suo tempo alla filologia.

Non senza fatica, si mise a sedere sul materasso e incrociò le gambe. Maledisse la tenda del baldacchino, che scostò per appoggiarsi mollemente al sostegno di legno e guardare verso la finestra. Un tempo, nella sua irrequieta adolescenza, per far tacere un bastardo come lui non sarebbero stati sufficienti della carne a cena e un letto. Ma erano cresciuti tutti, sotto i sei occhi tondi dello stemma, e quello stesso letto coperto di stoffe preziose era diventato motivo di contesa.

Dire che l'ostinata decisione di Lorenzo di far alloggiare Angelo nelle stanze signorili della villa era stata accolta con riserbo da sua moglie sarebbe stato un eufemismo che il poeta - grande estimatore dell'invettiva - non avrebbe mai accettato.

Clarice aveva strepitato, aveva gridato allo scandalo, si era strappata i capelli. Poi un giorno, durante una lite, li aveva tirati ad Angelo, e per risposta lui l'aveva afferrata per il polso e strattonata. La donna aveva urtato una credenza: le era rimasto sul braccio un livido che non mancava di mostrare al marito tutte le volte in cui si lamentava dell'educazione che Poliziano stava impartendo ai loro figli, con testi che - a dirla tutta - erano ben lontani dalla morale cristiana.

La volta successiva in cui avevano litigato, Clarice aveva rotto un vaso di porcellana contro il muro, molto vicino alla testa del poeta, spingendolo a rimanere per un giorno intero chiuso a chiave nella camera padronale. Lorenzo aveva dovuto intercedere di persona; aveva calmato la moglie con lunghi discorsi dietro porte chiuse, a lui invece aveva regalato manoscritti di pregio.

Poliziano cercò la forza per alzarsi e prendere Seneca. Avrebbe letto quel passaggio delle Epistole, quello che consigliava di non dolersi delle sofferenze passate, non cruciarsi per ciò che ormai è sepolto. Anche Catullo...

Ritardò quella sua decisione, e prese a osservarsi le punte dei capelli alla luce che entrava dalla finestra. Li aveva lasciati crescere senza controllo e ora stavano cominciando a rovinarsi. Il rumore di qualcuno che bussava lo fece sussultare e perdere la presa sulla ciocca che stava stringendo.

«Poliziano,» giunse la voce di un servitore dall'altra parte.

«Cosa vuoi?»

Erano due giorni che si dava per indisposto. Perché venivano alla sua porta?

L'altro rispose in tono molto piccato:

«Me l'avete detto voi di avvisarvi quando sarebbe tornato Lorenzo!»

Lorenzo. Senza nemmeno accorgersene, Poliziano era corso verso la porta chiusa e vi aveva appoggiato la tempia. Non sentì più nulla: il servitore se n'era andato; ma lui pensava solo a Lorenzo, che era la sua stella tramontana.

*

«Mio signore. Mia luce. Sono felice di vederti in salute».

Dopo averlo baciato sulla guancia, Poliziano chinò il capo e la schiena di fronte a Lorenzo, che l'aveva voluto vedere da solo nella piccola sala dedicata ai ricevimenti dei familiari, sotto gli affreschi che illustravano i miti di Giove. Quando il poeta alzò la testa, notò che lui lo stava fissando come se volesse accertarsi che nulla fosse cambiato. Il suo sguardo tranquillo non trasmetteva passioni; sembrava che le battaglie non gli avessero tolto la serenità.

«Salute, Poliziano,» rispose dopo qualche istante. Con un cenno, congedò un domestico dalla stanza e gli ordinò di chiudere la porta. «Come procedono le cose qui a Cafaggiolo?»

Il giovane pensò a se, e come, mentire. Lorenzo, impegnato a coordinare le truppe al fronte, non era mai presente. Quando aveva tempo, si recava piuttosto a Firenze, lasciando ad Angelo in piena fiducia la gestione della casa.

Non era un compito che lo rendeva felice.

«Perché non rimani a vederlo coi tuoi occhi?» ribatté Poliziano con un sorriso dimesso. Afferrò entrambe le mani di Lorenzo, più fredde delle sue, e lo guardò speranzoso negli occhi. Di nuovo non vi trovò alcun calore. «Potremmo passeggiare assieme nel giardino questo pomeriggio. Ho dei pensieri che-»

«Sono desolato, ma mi tratterrò solo fino a domani e sono costretto a rinunciare ai tempi d'ozio. Mi occuperò dell'amministrazione della villa».

Il poeta allentò la presa sulle mani di Lorenzo. Gettò gli occhi in basso a destra, dove incontrarono le gambe intagliate di una sedia. Quelli che il principe definiva tempi d'ozio erano il suo lavoro. In quella villa nessuno parlava con lui, poiché non avevano l'intelletto o la cultura per capirlo; oppure, quelli che li avevano, non volevano perdersi in discorsi che lo coinvolgessero.

«Fai visita almeno a tua moglie,» concluse, amareggiato. «Non conviene che rimanga in questo posto così a lungo con un uomo che non è suo marito».

«Se non mi fidassi di quell'uomo,» ribatté Lorenzo, «sarei stato io il primo a non permetterlo».

Poliziano, del tutto indifferente al suono solenne di quell'ultima frase, scoccò un'occhiata al volto magro del suo interlocutore.

«Non è di me che non devi fidarti, ma della lingua della gente».

«Angelo». Lorenzo lo interruppe e gli posò una mano sul viso, costringendolo di fatto a non rifuggire con lo sguardo. Poliziano si scoprì infastidito dal suo tocco, pur premuroso, ed ebbe l'istinto di intimargli di lasciarlo. Non era mai successo prima. «Vedo bene che c'è qualcosa che ti preoccupa, e temo che i pensieri di cui dicevi non riguardino i classici. È così?»

«È così,» rispose il poeta dopo qualche istante, «signore».

«Vuoi dirmi che cosa ti angustia?»

Poliziano si allontanò dall'amico e prese a camminare avanti e indietro per la piccola stanza.

«Di recente,» cominciò, «i miei sonni sono funestati dai fantasmi e dagli incubi». Si fermò e si voltò di nuovo, il viso inespressivo come una maschera funeraria. Un conto era leggere di tanta morte, un altro era assistervi. Si vergognò che il proprio intelletto, che reputava impareggiabile, non ci fosse arrivato prima. Ma anche se l'avesse fatto, cosa avrebbe potuto cambiare? «Si tratta di cattivi presagi: per favore, arrenditi e smetti di muovere guerra al Papa».

La risposta lapidaria di Lorenzo arrivò con un tono talmente freddo da vanificare qualsiasi speranza di tornare a come erano un tempo.

«Non ti è affidata la strategia bellica».

Un tempo non molto lontano, in cui Giuliano ancora viveva.

Nonostante quelle parole gli avessero fatto male, Angelo replicò con decisione:

«Ho paura di perdere anche te».

Tra i due amici calò un silenzio che non avrebbe potuto essere sconfitto da disquisizioni sulle lettere e sul buon governo. Un velo traslucido che non impediva all'uno di vedere la virtù dell'altro, ma che li obbligava a tacere quello che forse avrebbero potuto risolvere a parole.

Il principe, che possedeva il carattere più diplomatico tra i due, sembrava davvero dispiaciuto quando rispose:

«Ho capito. Ti chiedo scusa, Angelo, tuttavia se dovessi prestare fede ai sogni di un poeta...»

«Quindi,» concluse Poliziano, «ascolti gli astrologi e non me?»

Di nuovo il vuoto; di nuovo la voce gracchiante di Lorenzo contro quella armoniosa di Angelo. Il pezzente contro il re.

Poliziano tacque. Si diresse verso la porta e, con poco riguardo, la tirò alle proprie spalle. Sperò che sbattesse con più rumore possibile dato che, evidentemente, lui nella vita di Lorenzo non era riuscito a farne abbastanza.

«Angelo, aspetta!»

Il poeta non si voltò, ma fermò la porta con la mano. Chiuse gli occhi e inspirò, maledicendosi per non essere abbastanza risoluto.

«Cosa c'è?»

«Ascolta almeno questo,» continuò la voce del principe. «C'è uno studente di Ficino che mi ha richiesto...»

Poliziano strabuzzò gli occhi e strinse i denti talmente tanto da provare dolore. Per evitare di rivolgere a Lorenzo gesti poco consoni, serrò entrambi i pugni lungo i fianchi, ma non riuscì a trattenersi dal voltarsi di scatto.

«Alla malora te e Ficino!» inveì. «Non voglio saperne niente!»

Completamente sordo a qualsiasi altro richiamo, il poeta voltò i tacchi e uscì dalla porta, senza questa volta premurarsi di chiuderla. Imboccò il corridoio con piglio risoluto e, dopo pochi passi, rischiò di andare a sbattere contro un ragazzo, che ebbe la prontezza di fermarsi e, con un «oh!» di sorpresa, lasciargli la via.

«Spostati,» gli intimò comunque Poliziano. Non lo vide in volto, perché aveva lo sguardo basso e perché il ragazzo era molto più alto di lui.

Per una curiosità momentanea, alzò gli occhi e lo trovò che, nonostante si stesse dirigendo nella direzione opposta, lo guardava. Non era uno dei domestici, ma un adolescente: viso pulito da studentello, lineamenti proporzionati, capelli a mezza lunghezza tra il castano e il biondo. Aveva occhi grandi, chiari e svegli, con le iridi di un verde via via più scuro verso i bordi, su cui l'attenzione di Poliziano si fermò per un istante ancora. Fu lo sconosciuto il primo a distoglierli, con una certa soggezione, forse temendo di essere vittima collaterale degli improperi del poeta.

«Sono desolato per il suo comportamento,» giunse la voce di Lorenzo da dentro la stanza, quando ormai Poliziano era quasi alla fine del corridoio.

Il giovane si sporse per guardare oltre la porta e gli rivolse un sorriso cortese.

«Oh, non vi angustiate,» replicò. «Anzi, vi ringrazio per aver provato a parlargli prima che io partissi. Mi avevano avvisato che è... così». Stringendosi nelle spalle, si sistemò il berretto rosso e il suo sorriso luminoso divenne più ampio. Due fossette delicate gli comparvero sulle guance. «Magari avrò occasione di parlargli in futuro. E... spero che riusciate a ritrovare la concordia».

La sua voce svanì, mescolatasi ai rintocchi del campanile al cui ritmo Poliziano si dirigeva verso le proprie stanze. Con aria altezzosa, passò di fianco a porte in fila ordinata come bambini, lungo il corridoio di Cafaggiolo che guardava verso Firenze. Pensò alla sua città ridente e luminosa, alla nuova Atene di Pericle in attesa che si svegliasse il suo poeta.

Odio tutti, pensò, prima di tornare a dormire.

Mestre, Padova, Firenze,

28 giugno - 30 novembre 2023.

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