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Sette, o il Buio.

La passeggiata per prendere aria e calmarsi di Leonardo si era ben presto trasformata in un irrequieto vagare per le vie di Firenze. Le ombre lunghe proiettate dalle case gli ricordavano quando, poco più che fanciullo, era tornato a casa da solo per la prima volta dopo il calare della sera, e dietro a ogni angolo sembrava appostato un sicario.

Tuttavia, crescendo gli era guarito il timore, ed era diventato la cicatrice di una caduta che quella notte non avrebbe avuto modo di riaprirsi, dato che lui aveva ben altro a cui pensare. Ezio, forse per la prima volta da quando erano diventati amici, gli aveva fatto perdere la pazienza.

Ed era difficile far perdere a Leonardo la pazienza, ancora più difficile litigare con lui, dato che era una persona che s'allontanava piuttosto che dare mostra della propria rabbia.

In codesta impresa Ezio se l'era cavata egregiamente. Leonardo avrebbe potuto perdonargli l'inesperienza, l'essere scappato dopo averlo baciato e il goffo tentativo di cancellare le proprie azioni, pur consapevole che presto o tardi avrebbero dovuto affrontare la questione.

Con fatica, ma avrebbe potuto perdonarlo.

Ciò che non poteva giustificare, invece, nemmeno con l'ebbrezza del vino, era la leggerezza con cui aveva mostrato in pubblico le lame celate, quasi si trattasse di un'arma da parata.

Come poteva riempirsi in quel modo la bocca di belle parole sulla sua missione e sulla sua famiglia, sul come l'avrebbe protetto, ché quelle conoscenze dei Codici erano alquanto pericolose per un comune mortale, per poi sbandierare a tutti le sue invenzioni una volta entrato in una locanda?

Il rumore solitario, ticchettante dei suoi passi risuonava nella notte. L'artista imboccò un vicolo secondario per tornare alla sua bottega, di modo da arrivare prima e da non incontrare altri gruppi di giovani festanti che gli avrebbero riportato alla mente quanto accaduto.

Quante altre volte Ezio s'era comportato così?

«Messere!»

Il richiamo di una voce maschile – rapido, quasi soffocato – fece voltare Leonardo di scatto.

Gli fece ricordare quel giorno di quando era poco più che fanciullo.

Il suo cuore cominciò ad accelerare per la paura, e fu sul punto di affrettare il passo, quando all'imboccatura del vicolo vide una figura ammantata china su una seconda, distesa a terra.

«Ah!» L'uomo inginocchiato alzò il viso, inarcò le sopracciglia e schiuse le labbra nel vedere chi fosse quello che aveva fermato. «Leonardo! Sono Angelo. Vieni qua!»

A quel punto, sotto lo sfavillio mandato da una lanterna al muro, Leonardo riconobbe Poliziano che gli faceva gesto di avvicinarsi. Si fermò, ma fece un passo indietro e cominciò a esaminarlo. Aveva una striscia di sangue, lunga e dritta, sulla guancia. I suoi occhi, nonostante la scarsa illuminazione non rendesse possibile vederli bene, erano chiaramente lucidi.

Senza ulteriori ripensamenti, l'artista corse verso di lui e si chinò.

«Cos'è successo?» domandò in tono urgente.

Abbassò lo sguardo e vide un giovane privo di sensi disteso sul fianco. Un lembo della sua stessa tunica era stato tagliato e usato per tamponare una ferita alla tempia. I capelli chiari erano impiastricciati di sangue, e il suo corpo magro giaceva composto, come se dormisse. I suoi lineamenti non erano ben distinguibili nel buio, ma sembrava poco più che adolescente.

C'era sangue anche sul lastricato.

«Io–» cominciò a dire Poliziano. Si fermò e deglutì, per poi accarezzare la guancia al giovane col dorso delle dita, molto delicatamente. Forse sperava che in quel modo si svegliasse. «L'ho trovato qua così, sicchè ho cercato di curarlo».

Il fatto che il ferito fosse stato disteso di lato, in modo che non si strozzasse con la lingua, confermava le sue parole.

Leonardo annuì. Prese il polso del ragazzo e lo strinse, poi gli sollevò la palpebra e tentò di guardargli le pupille. L'assenza di luce lo fece imprecare tra i denti.

«Forse è ancora vivo,» sentenziò. Per un caso fortuito, Angelo era arrivato in tempo. Mentre pensava a cosa fare, si guardò attorno. Non c'era nessuno oltre a loro.

Poliziano, accovacciato accanto a lui, lo guardò e con un gesto nervoso si spostò i capelli dietro alle orecchie, lasciando sulla propria pelle un secondo striscio cremisi accanto al primo. Poi gli prese con atteggiamento ansioso il polso.

«Puoi fare qualcosa per lui?» domandò, tentando di mantenere un tono distaccato, in contrasto con i suoi gesti. «Io sono un grammatico, non un dottore».

Leonardo lo squadrò da capo a piedi.

Che ci fa uno come te in giro da solo di notte?, pensò.

Nonostante cercasse di non darlo a vedere, Poliziano era terrorizzato. Era fuori discussione che potesse essere stato lui a far del male al ragazzo.

«Non hai visto che cosa è successo, vero?»

Il poeta, continuando a fissarlo, scosse con decisione la testa. Leonardo, per tranquillizzarlo, gli posò una mano sulla spalla.

«Portiamolo nella mia bottega,» disse, « è dietro l'angolo. Non possiamo fare altro per lui qui».

Poliziano si spinse con una mano sulle ginocchia e fece per alzarsi.

«Vado a chiamare le guardie,» annunciò.

Le guardie...? pensò subito Leonardo, d'istinto sulla difensiva. Sì, certo. È sempre stato protetto, è normale che nel cercare di proteggere sia la prima cosa che gli viene in mente.

Prima che potesse tornare in piedi, l'artista gli afferrò il braccio, con abbastanza forza da farlo desistere.

«Angelo. Aspetta».

L'espressione che gli mostrò Poliziano, con gli occhi simili a quelli di un cerbiatto, le sopracciglia aggrottate e la bocca piegata all'ingiù, era una strana combinazione di panico e fastidio per essere stato contraddetto, la prima un'emozione per lui rara, la seconda naturale per carattere.

«Perché? Non riesco a trasportarlo da solo. Se te rimani con lui, e io vado a chiamare qualcuno, poi potrai andare a casa».

«Non mi fido delle guardie,» ribatté Leonardo. «So che io e te viviamo in due mondi diversi, e che tu magari pensi di avere degli uomini fidati tra loro, ma... non lo aiuteremo chiamandole. Non faranno niente per lui. Tutto quello che otterremo sarà di essere interrogati, e la nostra buona reputazione sarà messa in discussione».

«Ma che dici? Io...»

La veemenza con cui Poliziano aveva risposto fece intuire a Leonardo due cose. La prima, se si considerava anche la carezza che gli aveva lasciato poco prima, era che per lui quel giovane non era affatto un estraneo: aveva dei motivi personali, oltre che morali, per fare tutto il possibile per salvarlo. La seconda era che apprezzava le persone che gli rispondevano a tono, azione di cui quasi nessuno aveva il coraggio.

«Sei sporco di sangue, in un vicolo con un ragazzo in punto di morte,» lo incalzò. Era un salto nel vuoto basato su un'idea che s'era fatto sul momento, ma se voleva sperare d'essere ascoltato doveva provarci: «Che cosa credi che penseranno? Il poeta di corte coinvolto in un caso di aggressione. Ti piace?»

«Come osi dire che non crederanno a me?» cominciò a replicare Poliziano. Subito dopo, come predetto da Leonardo, il suo tono perse di vigore e il suo sguardo si abbassò con discrezione sul giovane a terra. Non dava segni di vita. Il poeta strinse la mano destra sul proprio mantello, come se volesse evitare di tremare.

«Lo conosci?» chiese Leonardo a bassa voce.

Poliziano, gli occhi velati dalle ciglia nere, trasse un respiro profondo ed espirò rumorosamente. L'artista guardò meglio il ragazzo svenuto, e si rese conto che anch'egli l'aveva già visto: era il bel Campione del Maggio che aveva sfidato Poliziano durante la festa. Forse era un suo studente, o un poeta rivale.

«Si chiama Sebastiano Lucchesi,» spiegò Angelo. «E mi dispiacerebbe se morisse. Ecco tutto».

«Ascoltami, siamo in due, e se raggiungiamo un luogo tranquillo io me ne posso occupare. Aiutami a portarlo nella mia bottega».

«Cosa devo fare?» domandò il poeta, col tono di chi non era abituato a chiedere istruzioni.

«Prendilo per le gambe e aiutami a trasportarlo. Precedimi, ma sta' lontano dalla luce».

Poliziano gli lanciò uno sguardo belligerante e si strinse nelle spalle.

«Per niente sospetti, due uomini che vanno in giro con un corpo,» tentò di ribellarsi.

«Angelo».

Il poeta scosse la testa, alzò le mani e obbedì a Leonardo, borbottando qualcosa. Subito dopo calò il silenzio, intervallato talvolta da un vociare lontano e da qualche richiamo d'upupa. Leonardo riusciva senza troppa difficoltà a sostenere il ragazzo per le braccia, tenendogli il capo in modo tale che la fasciatura non cadesse.

Ad un tratto sentì Poliziano bestemmiare sottovoce, e immediatamente si fermò.

«Cosa succede?» gli bisbigliò. Cercò di guardare davanti a sé, dove il vicolo che avevano imboccato svoltava e sfociava in una strada più ampia, per poi proseguire verso la sua bottega.

«Eh, c'è gente».

«Viene di qua?»

«No».

«D'accordo,» tentò di tranquillizzarlo Leonardo. Gli fece gesto di posare il ragazzo di nuovo a terra e li vide. Un paio di cittadini con l'aria serena stavano camminando e parlando tra di loro. Proseguivano dritti, e a meno che qualcosa non attirasse la loro attenzione non avevano motivo di voltarsi verso il vicolo.

«Sta' dietro l'angolo e mettiti con le spalle contro il muro,» sussurrò Leonardo, attirando a sé l'altro.

«Cosa?»

«Contro il muro!»

Leonardo spinse Poliziano con la schiena addosso alla parete, tenendolo di fianco a sé. Lo percepì trattenere il respiro quando le voci dei due passanti si fecero più vicine, per poi allontanarsi e svanire.

«Bene,» sussurrò l'artista, e strinse le dita sulla bella stoffa liscia del mantello di Poliziano. «Andiamo, manca poco».

Il poeta, che stava tentando di mantenere il respiro regolare in modo forzato, annuì con decisione.

Arrivarono poco dopo alla bottega, e Leonardo fu quanto mai rapido a chiudere la porta alle proprie spalle.

«Salvi,» decretò.

Poliziano, mentre si tormentava una ciocca di capelli, spostò lo sguardo sul ragazzo svenuto, forse chiedendosi se quell'aggettivo potesse valere anche per lui. Lo avevano adagiato su un divano, dopo aver spostato gli oggetti che lo ricoprivano. Non fosse stato per la ferita alla testa, pareva dormire sonni sereni.

«Si riavrà...?» chiese, con un insolito tono spaurito. Quando fosse tornato in sé, e si fosse reso conto che aveva mostrato debolezza di fronte a qualcuno che era poco più che uno sconosciuto, il poeta si sarebbe infuriato come una iena. Per questo, nonostante il più gentile tra gli istinti gli suggerisse di farlo, Leonardo si trattenne dal posargli una mano sulla spalla per tentare di tranquillizzarlo.

Lo guardò con attenzione mentre raddrizzava le spalle e si schiariva la voce, i capelli leonini che gli ricadevano, ancora ben acconciati e arricciati, sulle spalle. I suoi occhi vagavano con l'imbarazzo di un estraneo per lo studio.

Poliziano era un uomo, non una rosa che andava protetta dalle intemperie: Leonardo voleva evitare di dargli false speranze.

«Se si sveglia entro domani, forse sì. Hai controllato se ha altre ferite?»

«Non ne ha».

«L'unica cosa che puoi fare,» gli disse con sincerità l'artista mentre, acceso un lume, controllava di nuovo le condizioni del ragazzo, «è pregare per lui».

Con sua sorpresa Leonardo, mentre puliva la ferita del giovane dal sangue incrostato e la bendava, sentì Angelo cominciare davvero a pregare. Quando finì quella cantilena latina, che la sua voce aveva reso dolce come il mormorio di una madre, Leonardo gli prese con delicatezza il braccio. Gli porse un bicchiere d'acqua e cominciò a dire:

«Credo sia meglio se lo portiamo di sopra. Nessuno accede alle mie stanze, invece se lo vedessero qui sarebbe difficile da spiegare».

Questa volta, Angelo lo aiutò senza fiatare: portarono il ferito in cima alle scale, nella piccola camera da letto di Leonardo. Una volta libero dal suo fardello, il poeta si schiarì di nuovo la voce. Il suo sguardo prese a vagare per la stanza, si soffermò sui libri, sugli scaffali e sul ragazzo; evitò accuratamente di incontrare quello di Leonardo.

«Le circostanze mi hanno reso un pessimo ospite,» disse lui, «tuttavia se vuoi qui accanto c'è uno stanzino. Puoi lavarti il viso».

Poliziano corrugò la fronte e si passò le dita sulla guancia, come ricordandosi in quel momento di essersi sporcato di sangue.

Senza proferire verbo, giunse le mani in grembo e diede le spalle all'artista per dirigersi verso la porta.

«Né mai le chiome del giardino eterno | tenera brina o fresca neve imbianca,» cominciò a recitare sottovoce, con il capo un po' reclinato a destra, come quelli che parlano a se stessi. In contrasto con quelle tenere parole, il suo tono era cupo, basso, come se stesse implorando gli dèi inferi. «Ivi non osa entrar ghiacciato verno, | non vento o l'erbe o li arbuscelli stanca; | ivi non volgono gli anni il lor quaderno...»

A metà strada, quella bizzarra esibizione di poesia s'interruppe. Angelo sembrò cambiare all'improvviso idea e girò i tacchi, come se volesse affrontarlo.

«Mi sono sempre chiesto come fai,» chiese, con gli occhi scuri fissi sul viso di Leonardo. La sua domanda senza metro aveva lo stesso accento grave degli endecasillabi. Risuonava della stessa eco di certe stanze che ormai sarebbero rimaste quiete per sempre.

«Cosa?»

Poliziano si spostò i capelli dietro l'orecchio e deglutì a vuoto.

«Te... sembri non avere nessuna preoccupazione a questo mondo. Non ci siamo mai parlati, ma t'ho guardato, sai, da lontano. Te tu sei accomodante con tutti. Gentile come una ragazza che vuole maritarsi. Non ho mai sopportato quelli come te. Quelli che non vedono il conflitto. Fino ad oggi ho potuto serenamente pensare che fossi stupido, ma dopo aver visto questo...» con la mano destra fece cenno ai libri, nella volontà di comprendere tutta la bottega, «come fai?»

Nonostante il suo stomaco si fosse chiuso in una morsa piccata, Leonardo non diede mostra all'esterno del proprio fastidio. Anzi, le sue labbra si inarcarono in uno stoico sorriso.

«Ti sbagli, Angelo. Non penso che il mondo sia così come dici».

Poliziano lo guardò di sottecchi e soffiò l'aria fuori dalle narici.

«Io non sono uno che si sbaglia,» replicò. «Non ti chiedi mai come qualcuno come te potrebbe sopravvivere, se quello che è successo a Sebastiano–» si bloccò e si morse le labbra, «se succedesse a qualcuno come noi?»

Nonostante il suo tono fosse superbo, il poeta si era avvicinato a Leonardo e si era stretto al suo braccio, comunicando con il corpo una volontà opposta a quella delle parole.

L'artista sospirò e, valutata la situazione, gli posò tra le scapole la mano che non era intrappolata. Sentì le ossa sporgenti sotto il palmo, e la cassa toracica che si alzava e abbassava al ritmo troppo rapido del suo respiro. Panico. Angelo era stato molto bravo a dissimularlo, e ancora più a non cedere alla paura durante tutto ciò che era accaduto prima.

Era una situazione bizzarra: lui il Poliziano l'aveva sempre visto solo sul piedistallo degli accademici, lontano dal popolo che brulicava sotto.

Leonardo s'intenerì e lasciò correre le parole che gli erano state rivolte poco prima. Gli piaceva, piuttosto che opporsi, capire; apprezzava il diverso.

«È capitato anche a me di pensare alla morte,» confidò al poeta, «e di desiderare disperatamente che Dio rendesse i miei giorni eterni. Tuttavia... quando ho capito che ciò non era possibile, ho cominciato a pensare che con quello che ho qui,» si indicò la tempia, «e quello che ho qui,» si indicò il cuore, «avrei potuto vivere una vita molto felice. E l'ho fatto! Mi dispiace se non ho la risposta alle tue domande, Poliziano». Si interruppe per un istante e posò la mano su una delle sue, che gli stringevano ancora il braccio. «Sappi solo che il tuo sentimento nei miei confronti non è ricambiato».

Il poeta distolse lo sguardo e lo rivolse a un punto lontano.

«Fosse la prima volta che capita...» tentò di scherzare.

Leonardo sorrise, per poi tornare serio quando Poliziano riprese a guardarlo negli occhi e continuò:

«La soluzione te dici è non pensarci, ma... delle persone che amavo, miei amici, sono morti giovani. Non m'era mai capitato. Sono giovane anch'io, e non voglio tornare a casa da solo... non voglio dormire da solo...»

Di propria iniziativa, mentre quelle parole svanivano confuse, Angelo lo abbracciò. Leonardo lo strinse al petto, considerando che in effetti avrebbe dovuto in qualche modo riportarlo a palazzo, prima che Lorenzo – sempre che non l'avesse già fatto – sguinzagliasse tutti i suoi soldati per le vie.

«Qualunque siano l'entità e la natura della tua perdita,» lo rassicurò, accarezzandogli il fianco, «sappi che se il ragazzo si salverà sarà per merito tuo».

Sentì Poliziano soffiare una risata sarcastica fuori dai denti.

«L'entità e la natura della mia perdita...» ripeté il poeta, scuotendo la testa come a volergli implicitamente dire che non capiva. Poi si staccò dall'artista. Gli prese la mano, per dirgli di seguirlo, e si diresse verso la piccola stanza da bagno dove Leonardo teneva l'acqua.

A differenza del piano inferiore in cui Leonardo lavorava, o della stanza da letto, lì regnava un ordine quasi maniacale. Buona parte dello spazio era occupato da una vasca in rame, affiancata da un bizzarro recipiente dello stesso materiale da cui spuntava un rubinetto con delle manopole. Poliziano si soffermò per qualche istante a guardarlo, poi spostò l'attenzione sulle boccette di profumo allineate sul ripiano dove era appoggiata una tinozza piena d'acqua. Dalla finestra socchiusa non entrava luce se non quella bianca della falce di luna; l'alba era ben lontana.

«La gente attorno a noi muore ammazzata, Leonardo...» mormorò Angelo, osservando le increspature sulla superficie. Con un sospiro, prese un panno pulito che l'artista gli porgeva e lo impregnò d'acqua. Tagliò il filo dei suoi pensieri per legarlo alla domanda più urgente che gli premeva il petto: «T'ho sporcato il vestito?»

«No,» lo rassicurò l'altro.

Poliziano si pulì il viso e poi tornò a fissare la tinozza con aria assente. Passò l'anello che aveva all'indice sul bordo di legno, come se volesse simulare il moto d'un pianeta.

«La gente muore ammazzata,» riprese, «e il Signore per qualche motivo ha voluto che me ne stessi a guardare senza potere. Quando ho chiesto vendetta per la mia sofferenza, mi son visto un corpo pendere da una corda, coi capelli strappati a spregio. M'è caduto davanti alla faccia. Ma io, sai, sono un poeta. E tanto basta a dimostrare che non potrò mai far niente di bono per codesta città, se non venirne dilaniato».

Leonardo, dritto in piedi alle sue spalle, guardò verso la finestra. Firenze, cosa insolita, taceva. Tra le parole di chi l'aveva cantata non erano più intrecciate le viole.

«Far qualcosa per codesta città, come intendi tu, non è ciò che richiediamo dai poeti».

Poliziano, che pareva aver recuperato – anche se solo in parte – la sua solita disposizione d'animo, si voltò e allargò le braccia.

«Ah, guarda un po'!» esclamò. «E che si richiede allora, da me? Cosa devo, elogiare il principe e cantare i giardini di rose? O la bellezza delle fanciulle che voglio corteggiare? Scappare ne' versi di qualche greco, quando la vita mi è troppo grave da sostenere? In effetti, forse è così. E forse è meglio che men vo nella mia gabbia d'oro. Ma questo mondo è governato dalla spada, bellino, non dalla penna. L'uomo lo guidano Dioniso e l'orgasmo, e con il chiasmo e Apollo la nostra generazione ha provato a scordarselo. Generazione di bugiardi. Non capisco perché te non vuoi vederlo».

Leonardo rimase per qualche secondo a soppesare quelle parole, poi replicò:

«Perché noi con la penna possiamo fare qualcosa per il prossimo».

Avvicinatosi con qualche passo elegante, Poliziano alzò il viso per guardarlo dritto negli occhi, quasi volesse sfidarlo in qualche contesa di poesia.

«L'evangelico prossimo nostro?» domandò.

«No, il prossimo mondo».

Poliziano fece schioccare la lingua contro i denti e agitò la mano destra come se scacciasse un insetto.

«Via, non sono mai stato uno che c'ha speranza d'ire in Paradiso».

«Non è quello che intendo».

Il loro dialogo fu interrotto da dei colpi alla porta, non troppo forti ma decisi, che provenivano dal piano inferiore.

«Leonardo...» si fece strada una voce strascicata, subito accompagnata da una seconda, molto più decisa.

«Leonardo. Sono Lorenzo de' Medici, aprite la porta».

I due uomini sobbalzarono e si guardarono a vicenda.

«Avventura notturna finita,» disse Poliziano, facendo spallucce.

L'artista sentì il sangue defluire dal viso. A quanto pareva, il problema di riportare Angelo a palazzo si era risolto da solo, tuttavia alla sua porta se n'erano presentati due di nuovi: Ezio ubriaco come un ciuco e il suo potenziale mecenate a cui avrebbe potenzialmente dovuto rendere conto di un ginepraio colossale.

Intuite le sue preoccupazioni, Angelo lo incoraggiò a scendere con lui. Leonardo aprì la porta e, l'istante successivo, si trovò a dover sostenere tra le braccia Ezio, che gli era rovinato addosso.

«Oh,» commentò il ragazzo, esalando un effluvio di vino dalle labbra schiuse per la sorpresa. Aveva appoggiato il capo sul petto di Leonardo e s'era voltato verso Angelo. Gli rivolse un sorriso smagliante. «Lui stava cercando proprio lui!»

Sulla soglia, a pochi passi da loro, c'era Lorenzo affiancato da due guardie. Con gli occhi ridotti a due fessure, e la bocca a una linea dritta, puntava davanti a sé come un cane da caccia. L'aria tutt'attorno a lui sembrava ondeggiare, come se tremasse per il timore del suo giudizio.

«Mio signore...»

«Poliziano, non ho intenzione di dare spettacolo. Vieni subito qui».

*

«Ok, ripassiamo un po' i personaggi».

I ricordi di Ezio erano tornati, e la sequenza nell'Animus iniziava con quella buffa scenetta incastonata nel tempo. Dopo aver pronunciato quella richiesta, Desmond osservò Ezio, non nel pieno del suo splendore, accoccolato contro l'amico.

«Leonardo da Vinci,» cominciò la voce di Rebecca. «Ha bisogno di presentazioni? Pittore, scienziato, ingegnere... ma tu ormai lo conosci meglio di me».

L'inquadratura passò sul volto severo di Lorenzo, su cui la luce morbida proiettava ombre scure. Il database si aggiornò con nuove informazioni.

«Lorenzo de' Medici, detto il Magnifico, governò Firenze dal 1469 alla sua morte, avvenuta nel 1492. Aveva un eccezionale carisma politico... e anche dei rapporti stretti con la setta degli Assassini, a quanto abbiamo potuto apprendere,» spiegò la ragazza.

«E quello chi è?»

Lo schermo mise a fuoco il volto di Angelo, che dall'angolazione della bocca e del sopracciglio sembrava piuttosto pronto a rispondere picche all'ordine che gli era stato impartito.

«Angelo Poliziano. Non lo definirei un libero pensatore, ma comunque era un erudito. Poeta di corte e filologo. Era il protetto di Lorenzo sin da giovanissimo, ma nella vita il suo carattere un po'... caustico gli causò qualche problema».

«Vedo. Va bene, facciamo partire il ricordo».

*

«Non mi è più consentito uscire da palazzo?» riprese Poliziano, con i pugni piantati nei fianchi.

Lorenzo, pur rimanendo oltre la soglia della bottega, si avvicinò all'amico con aria severa.

«Ti credevo abbastanza assennato da riuscire a valutare le circostanze. Sto portando ancora il lutto per mio fratello, temo ogni giorno per la mia famiglia, e tu fuggi così senza ritegno?»

«Oh, mi staresti dando dello stupido?»

«Dobbiamo litigare per forza?» replicò Lorenzo. Forse in modo inconscio, aveva alzato la voce per sovrastare quella di Poliziano. Era tanto arrabbiato quanto mostrava, e Leonardo temeva che continuare a rispondergli in quel tono non avrebbe portato molto giovamento alla situazione del poeta. «Va bene. Sto dicendo che potrebbero ammazzarti, Angelo!»

«Ah, sì,» ribatté lui con prontezza, sulle labbra una smorfia sfacciata che somigliava a un sorriso, «e questa sarebbe una perdita più grossa per te che per me, vero?»

Calò un silenzio che sottolineava la gravità dell'affronto. Per un istante, Leonardo ebbe paura di venire coinvolto in una furia cieca, e perdere il lavoro a corte che si era appena guadagnato.

«Razza d'ingrato–» tuonò Lorenzo, «vieni qua subito! È tanto se non sarò costretto a far ritirare una denuncia, domani!»

Si sporse e tentò di afferrare Poliziano per il polso, ma lui eluse la sua presa e incrociò le braccia per evitare un secondo attacco.

«Addirittura,» commentò.

«Hanno trovato uno dei soldati al mio servizio addormentato sul tavolo della Locanda del Cambio. Ti hanno visto appartarti in un vicolo con una guardia di ronda. Se non ti dai una calmata, questa è l'ultima volta che copro le tue devianze, me ne sia testimone Iddio!»

«Devianze? Gli ho solo chiesto di accompagnarmi a casa».

Il signore di Firenze serrò i denti e guardò il poeta come se gli volesse stringere le mani al collo.

«Non sei a casa,» gli fece notare. «E non ho alcun motivo di dubitare della virtù di messer Leonardo, altrimenti ti farei spiegare perché sei finito qui!»

Per tutta risposta, Poliziano fece qualche passo avanti, e si fermò solo quando si trovò a un palmo dal suo protettore, di fatto impedendogli di accedere alla bottega di Leonardo. Si spinse in punta dei piedi in modo che, data la differenza d'altezza, i loro visi potessero essere l'uno di fronte all'altro.

«Forse perché dovresti sceglierti meglio le guardie, Lorenzo,» gli disse quasi sottovoce, scandendo molto bene le parole. «Sai, avevo intenzione di chiedere i servigi anche di quello che avete trovato mezzo morto in locanda – e a dirla tutta lui sembrava averci una grande intenzione di prestarli – ma è finito troppo ubriaco anche per stare in ginocchio».

Ezio sembrò svegliarsi di colpo. Spalancò gli occhi e si staccò da Leonardo, con un'espressione trionfante.

«Aaaah, ho capito!» esclamò a voce altissima. «Ecco chi vi dice dove passano le ronde!»

Lorenzo si irrigidì.

«Queste ultime frasi farò finta di non averle sentite».

«Comunque parlate del sesso orale, giusto?» volle accertarsi l'Assassino, sempre a voce un po' troppo alta.

Leonardo gli posò una mano sulla schiena e lo spinse con ferma gentilezza all'interno della bottega.

«Vieni, Ezio, siediti sul divano. Nessuno sta parlando di sesso orale».

Il ragazzo si lasciò guidare, per poi subito dopo lanciare un'occhiata all'artista.

«Ad ogni modo, dov'è che è Piombino?»

«Piombino?»

«Sì».

Leonardo accompagnò l'amico a sedere, sperando che si convincesse a non intervenire più nella diatriba. Avrebbe solo peggiorato la loro posizione.

Dopo lo scambio di qualche altra stoccata velenosa, Poliziano si consegnò volontariamente a Lorenzo per essere riportato a palazzo.

«Visto che s'ha a ire, posso almeno congedarmi?» chiese, facendo cenno col capo all'artista che stava tentando di stabilire un dialogo sensato con Ezio. Il ragazzo, seduto, lo fissava con occhi vuoti.

«Fai presto».

In silenzio, Poliziano raggiunse l'artista e si fermò davanti al divano su cui era seduto. Forse stava cercando il modo di comunicargli qualcosa che riguardava il ragazzo al piano di sopra, ma con Lorenzo a portata d'orecchio era del tutto impossibile.

Senza deporre il suo sguardo fiero, e senza interrompere il contatto visivo, piegò le spalle in un lieve inchino.

«I miei rispetti, Leonardo,» gli disse in tono quasi solenne, dopo essersi portato una mano al petto per sostenere il mantello. Poi spostò gli occhi verso Ezio, come a dirgli che la sua, forse, sarebbe stata la generazione che avrebbe smesso di mentire.

«Ma dove cazzo è Piombino?» domandò lui a Leonardo, dopo che gli altri se ne furono andati ed ebbero chiuso la porta.

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