Due, o l'Addio.
Ho visto Francesco de' Pazzi guidare un battaglione sul retro del Palazzo della Signoria.
Così aveva detto una delle sentinelle. Il bastardo stava trovando un'altra via per entrare. Ezio atterrò su un'impalcatura di legno che scricchiolò sotto il suo peso. Nonostante i Medici avessero le loro guardie, sapeva bene quanto fosse pericoloso un pugno d'esaltati che non aveva paura di morire. Le prediche di Francesco e Jacopo sulla tirannia di Lorenzo spronavano la gente, e l'impeto della folla è violento quasi quanto quello del mare.
Ezio corse verso il muro che aveva di fronte e si spinse con il piede, in modo da poter afferrare le tegole. Il tetto gli garantiva una visuale migliore sui tumulti che si erano già riaccesi in piazza.
Strinse i denti e arricciò le labbra, i denti scoperti come quelli di un cane, mentre i suoi occhi si dirigevano verso Santa Maria del Fiore. La sua facciata verde e bianca, che poche ore prima aveva visto il vermiglio del sangue, sembrava smorta sotto la luce livida che filtrava dalle nubi. Un tuono brontolò all'orizzonte, e il clangore di spade fece da contrappunto. L'Assassino si forzò a non guardare verso il basso, in modo che i suoi sensi non venissero soverchiati dal rumore. Doveva trovarne solo uno. Ed era sicuro che non fosse lì.
Fu più facile del solito fuggire allo sguardo delle guardie, mentre raggiungeva le mura.
C'era qualcuno che si stava arrampicando su una scala a pioli, e andava verso la cima del Palazzo della Signoria. Sembrava lento, come se fosse ferito.
Bastardo.
Le dita di Ezio si strinsero spasmodicamente. Trovarono l'elsa d'oro della daga che gli aveva dato l'amico di Lorenzo, e non poté fare a meno di pensare che non sarebbe riuscito a farlo per Firenze. Giuliano de' Medici era stato una brava persona? Era un tiranno o un innocente? La verità era che non gliene fregava un cazzo.
Tutte le volte che la faccia di Francesco de' Pazzi gli appariva nella mente, stava uccidendo suo padre e i suoi fratelli. Non stava battendo ciglio mentre li guardava pendere dalla forca. Si passava una mano sulla barba nera come se volesse nascondere delle risa.
«Figlio di puttana, scendi!» gridò l'Assassino, in direzione della scala. Uno degli appigli di pietra che aveva trovato sul palazzo dei Medici si sgretolò sotto la sua presa. Tutto voleva vendetta. Il suo corpo, il cielo livido di pianto, la sagrestia insanguinata, le strade urlanti. Tutto.
Tutto tranne la voce di Federico, che da lontano rideva e lo sfidava a salire più in alto.
Ezio, con il cappuccio calato fin quasi agli occhi, si issò per l'ultima volta prima di trovarsi di fronte Francesco. Il suo volto era distorto in una smorfia demoniaca.
«Ancora tu?» domandò, quasi ringhiando. Le gocce rotonde della sua saliva precipitarono nel vuoto. «Perché non sei morto? Uomini, massacratelo!»
Quell'urlo rimase senza risposta. Mentre Ezio, avanzando verso il suo nemico, estraeva le lame celate, un vento di scirocco mosse il mantello di Francesco.
«Non verrà nessuno,» gli rispose Ezio. La sua voce, finalmente, era quella di un uomo e non più di un ragazzo. Significava che lo sarebbe stata anche la forza del suo corpo.
Francesco sguainò la spada e si mise in guardia. Ezio notò che le sue ginocchia erano troppo piegate, come quelle di un principiante che ancora non sa mantenere una posizione stabile. O come quelle di un uomo ferito. Nella luce pallida, si notava una chiazza scura sulla sua coscia.
I colpi dell'Assassino cominciarono a infuriare con un ritmo serrato. Ezio alternava un affondo con la destra a uno con la sinistra, poi spezzava il ritmo in modo che il suo avversario non avesse gioco troppo facile.
Francesco, però, continuava a parare senza troppa difficoltà, e indietreggiando riusciva a tenerlo a distanza.
Ezio sentì una goccia di sudore che gli percorreva la tempia. Si maledisse per essere stato così borioso da non estrarre la spada: con due pugnali, ora, era in chiaro svantaggio.
Riuscì ad assestare un calcio alle gambe di Francesco, e un fuoco d'onnipotenza si incendiò in lui quando lo sentì gemere per il dolore e piegarsi verso destra. Era davvero già ferito.
«Guardie!» provò a gridare l'uomo, prima di parare con difficoltà un colpo che proveniva dall'alto.
«Non l'hai capito che sei da solo? Cos'è, hai paura?»
Ezio sentì una saetta che lo sfiorava. Spalancò gli occhi alla vista del proprio sangue sotto l'ascella, e ringraziò l'armatura di cuoio di averlo protetto. Percepì il mondo attorno a sé rallentare, vide Francesco che ancora terminava l'affondo con cui l'aveva toccato.
Il tempo ricominciò a scorrere quando lui, con riflessi fulminei, affondò la lama nella spalla del nemico. Sentì uno spasmo, poi la resistenza dei tendini e dell'osso. Ruotò il polso per strappargli la carne, e la spada di Francesco cadde a terra.
Quando i loro sguardi si incrociarono, erano quelli di un lupo e di un agnello. Guidato solo dall'ira, Ezio lo prese per le spalle e lo sbatté con violenza contro la torre. Francesco de' Pazzi socchiuse le labbra e cominciò a cantilenare una preghiera che lui non aveva nessuna intenzione di ascoltare. Gli affondò la lama celata nell'altra spalla e lo udì gridare. Aveva solo voglia di tagliargli la gola, di prendere la sua testa e di alzarla di fronte alla città che lo acclamava.
Guardate, questo è il mostro che avete chiamato fratello. Padre. Vicino.
L'Assassino lo prese per i capelli, tirandoli più che poteva, e si avvicinò al suo orecchio. I respiri di Francesco, sempre più pesanti, cominciavano a fischiare e a odorare di sangue.
«Ora Firenze ti giudicherà per quello che hai fatto,» mormorò. Con la coda dell'occhio, vide dietro di sé uno splendore di fiaccole e udì delle grida che salivano al cielo.
«È... finita...» gli rispose la voce gorgogliante del suo nemico, che chiuse gli occhi e inclinò la testa come una bambola dimenticata in un angolo. Sembrava parlare a se stesso. «È tutto... finito...»
Faceva davvero schifo.
Ezio estrasse la daga, e fece sì che Francesco ne vedesse bene la lama. Era decorata da arabeschi, elegante e sottile, non molto affilata. Anzi, sembrava quasi fatta per non essere affilata, come se fosse destinata a una parata di corte piuttosto che a un combattimento.
Era una fortuna che la gola degli uomini fosse così tenera.
Per il mio Petruccio, avrebbe voluto dire Ezio, per Federico e per Giovanni , eppure tutto ciò che gli veniva in mente era la preghiera – l'atto di pietà – che Mario recitava quando uccideva.
«Meglio essere felici in questa vita che aspirare a esserlo nella prossima. Requiescat in pace».
Due piccioni spiccarono il volo dalla torre mentre uno schizzo copioso di sangue, molto più in basso, macchiava il palazzo.
«Sì,» disse l'Assassino, «è tutto finito».
*
«Libertà!»
Jacopo de' Pazzi, a cavallo con la scimitarra alzata, stava incitando gli insorti in piazza, che in un'involontaria satira alzavano armi improvvisate o pugni. Comicamente, ripetevano in una cantilena quella parola – libertà libertà libertà – che è l'unica a voler dire tutto e non voler dire niente.
Li-ber-tà!
Gli occhi del congiurato brillavano più della sua testa calva sotto le luci artificiali, meno dei suoi denti scoperti in un sorriso feroce.
«Popolo e libertà!»
Quand'ecco un coro opposto provenire dal Palazzo della Signoria, proprio sopra di lui. Le voci disarmoniche dei sostenitori dei Medici si accavallavano l'una sull'altra. Qualcuno fece cadere qualcosa dalle mura dove in tanti s'erano arrampicati, e rivolgevano con le mani il segno della fica a Jacopo.
Una corda legata al collo fermò la caduta del cadavere di Francesco de' Pazzi. Le prime urla inorridite cominciarono a levarsi dopo un istante di silenzio, quando ormai il corpo nudo aveva cominciato a oscillare come un pendolo, coi calli sui piedi ben in vista e la bocca semiaperta cosicché tutti potessero contare quanti denti gli fossero rimasti. Gli mancavano diverse ciocche di capelli, prese come trofeo, e la cute al di sotto era bianca e molle.
I fiorentini gli avevano lasciato addosso soltanto le mutande, tutto il resto glielo avevano strappato e fatto a brandelli, come iene festanti su una carcassa. Aveva le braccia che pendevano in modo innaturale, poiché i legamenti di entrambe le spalle gli erano stati recisi.
Un taglio profondo andava da una parte all'altra della sua gola, ed era evidente come, dopo uno zampillo iniziale che aveva macchiato tutto il collo fino alle clavicole, il sangue aveva smesso subito di scorrere.
Appollaiato sulle mura, Ezio guardò quello scempio prima di scomparire, ignaro che dietro a una finestra del Palazzo, illuminata dal fuoco di poche candele, c'era qualcuno che s'era visto piovere addosso il corpo.
Poliziano poteva osservarlo con macabra minuzia. Poteva addirittura vederlo girare come un animale sullo spiedo, per poi – finito il momento della corda – prendere a ruotare dall'altra parte. La mascella calata, gli arti senza più spirito, le fossette alla fine della schiena bianca.
Trattenendo un conato di vomito, l'uomo indietreggiò, incapace di distogliere lo sguardo attonito dal cadavere. Incapace di pensare, pugnalato dal dolore alla bocca dello stomaco e immobilizzato dal terrore. Incespicò sulla sua stessa scrivania e fu costretto ad appoggiarvi le mani, e a concentrarsi perché smettessero di tremare.
Solo un vetro lo separava dalla morte, un vetro trasparente fatto apposta perché lui vedesse. Perché potesse chiedersi, una volta che si fosse allentata la morsa dell'orrore, perché a qualcuno così forte fosse capitato, e lui che era un debole – lui, così gracile da riuscire a chiudere il pollice e l'indice attorno al proprio polso – non era ancora stato fatto a pezzi.
Cosa avrebbe potuto fare contro la violenza un letterato, fanciullo con una spada di legno davanti a un ciclope?
Il suo corpo ebbe uno spasmo e, in un fruscio di vesti, Poliziano chinò il capo sulla propria scrivania. Vi si lasciò cadere, sentendo che qualcosa di caldo e viscoso si faceva strada in fondo alla sua gola. Non riusciva a tenere la bocca chiusa. Se lo faceva, si rendeva conto di quanto secche fossero le sue labbra.
Però in quel modo, con la bocca socchiusa, il suo viso avrebbe ricordato quello del morto.
«Lorenzo...» mormorò, di fronte al vuoto.
Si portò un braccio davanti al viso già coperto dai capelli. Il cadavere era lì anche se lui non lo guardava.
Era sempre lì.
«Giuliano...»
*
https://youtu.be/qQ9RvmclxxE
Giuliano amava la poesia e provava ammirazione per ogni cosa bella. Egli stesso pensava così di sé, e così avrebbe voluto che lo descrivessero gli altri. Quando aveva dato voce al suo desiderio di fronte al poeta di corte, chiedendo se fosse troppo superbo, quello lo aveva guardato da capo a piedi in un modo che apparteneva solo a lui. Sprezzantemente, ma con un certo segreto affetto.
Il sole d'estate ora filtrava tra le fronde del faggio, e l'erba era soffice sotto la sua schiena, come si addiceva al giaciglio di un principe.
«Ah, mio signore,» gli aveva risposto Poliziano quel giorno, inchinandosi in modo farsesco, «se volete che dica così di voi, dovete conoscere le cose belle».
«E ben le conosco». Giuliano aveva raccolto il guanto di sfida.
«Sì? E quali sono?»
«Firenze, e il colore delle colline che vedo quando andiamo a cavallo. Questa terra. E Simonetta, naturalmente».
«Codesto solo?» lo aveva punzecchiato il giovane poeta.
«Certo. Cos'altro potrebbe essere egualmente bello, o addirittura superarlo, sentiamo». Gli aveva rivolto uno sguardo pensieroso, e si era stretto il labbro inferiore tra due dita. «Ah, cosa per te... Virgilio!» aveva esclamato, forzando un tono di disprezzo.
Ora il sole d'estate aveva reso gli occhi di Poliziano due anelli di bronzo.
«Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem, » diceva lui, mentre era inginocchiato sul prato, con quella metrica dal ritmo un po' strano. Arrivò pian piano il suono strascicato dell'inarcatura, «fronde super viridi».
Giuliano rise e appoggiò la testa sul tronco del faggio. Il frinire delle cicale spezzava orgoglioso il silenzio.
Il poeta s'interruppe. Scoccò all'amico uno sguardo da sotto le ciglia nere, poi lo spostò subito, vago, sulle margherite.
«Non mi ascolti,» lo rimproverò. «Non hai ancora imparato il latino».
Si lasciò cadere all'indietro e atterrò di schiena sull'erba verde. Uno stelo gli solleticò il naso e lui, con un sorriso, voltò il capo e alzò lo sguardo verso Giuliano.
«Cosa dirà tua madre adesso? Che Poliziano non ti insegna bene».
Vedeva il viso del giovane, capovolto, sopra di sé. Aveva le labbra sottili inarcate; oltre ad esse apparve e scomparve il lampo candido dei denti. Angelo accarezzò con lo sguardo il profilo liscio della guancia dell'amico, ammirò la linea virile della sua mascella prima di scendere lungo la strada dritta tracciata dal naso, al confronto del quale il suo appariva ingombrante e sgraziato. Quando arrivò ai suoi occhi stellanti, coperti appena dalla piega delle palpebre, notò che il principe lo stava già fissando.
Avevano quasi la stessa età: Giuliano aveva varcato i diciotto, e meno di un anno dopo lui lo aveva seguito.
Poliziano ricordava di come, nei primi tempi, il principe lo aveva odiato: quando Lorenzo era tornato a casa con un ragazzino magro come amico, lui non aveva accettato che l'amore di suo fratello fosse da dividere con qualcun altro.
Poi, crescendo, era venuto il suo turno di essere invidioso di Giuliano, del modo in cui, ogniqualvolta era assieme a Simonetta, tutta la grazia del pianeta pareva scendere sui moti gentili delle loro mani.
Provava invidia per il suo corpo perfettamente cesellato, per i muscoli delineati del petto e per quel suo viso da Apollo contornato da riccioli scuri. Una bellezza con cui non avrebbe mai potuto competere. Lo aveva continuamente tormentato un senso di inferiorità da cui nulla lo riusciva a distogliere. Lo aveva consolato solo la consapevolezza di essere migliore di lui nello scrivere, migliore di chiunque in quella corte.
Infine, un giorno, tutto quell'astio si era spento d'un colpo, come una fiamma soffocata dalla lana, ed era stato il segnale che ormai erano adulti.
Ogni luce era diventata d'oro.
Giuliano rise ancora e scosse la testa.
«Angelo, come sei noioso. Di', tutto ciò che è bello, per te, è in latino?»
«No». Poliziano non sciolse i lacci del proprio sguardo, ma storse la bocca e spinse all'infuori il labbro inferiore. «Anche in greco».
Si sentì spingere piano su una spalla. Gli steli d'erba gli punzecchiarono il collo, e l'odore violaceo della malva gli arrivò alle narici.
«Noioso!» lo prese in giro Giuliano.
«Sei te che non ascolti le poesie».
Un'ombra più piccola e densa di quella della chioma dell'albero offuscò il sole sopra Poliziano. Giuliano aveva appoggiato le mani a terra, di fianco alle sue spalle, e si era chinato su di lui.
«Non è punto vero. Mi piacciono le poesie,» replicò.
Angelo seguì con gli occhi il dondolare della croce d'oro appesa al collo dell'amico.
«Quali?»
Lo sguardo di Giuliano si fece più carezzevole; a Poliziano sembrò che tutto il suo corpo si avvicinasse.
«Le tue».
Questa volta fu il poeta ad assestargli una spinta giocosa sulle spalle, e nonostante ci avesse messo una forza moderata, non riuscì nemmeno per un istante a far vacillare Giuliano.
«Oh, e che sono queste lusinghe, adesso?» gli domandò. «Vuoi forse che ne scriva una per celebrare te?»
Il principe gli rivolse un sorriso furbo. In un insolito gesto d'affetto, attorcigliò tra le dita le punte dei capelli di Poliziano, che affondavano nel prato.
«Sì».
«Magari lo farò, un giorno». Angelo si tirò a sedere con le gambe incrociate, e si trovò a un palmo di distanza da Giuliano. Allora si voltò e gli diede le spalle. Raddrizzò la schiena, e seguì con gli occhi e con l'animo una foglia che veniva trasportata dal vento. «Quando mi starai più simpatico,» sentenziò.
«Ehi!»
"Muor giovane colui ch'è caro agli dèi."
*
Era notte inoltrata quando Ezio tornò a Monteriggioni. Il cielo aveva sfogato i suoi temporali, e l'acqua aveva inzuppato i suoi vestiti, impregnandoli di odore di sangue e cavallo. Aveva lavato tutto fuorché la daga dall'impugnatura d'oro, che gelosamente custodiva la sua macchia dentro il fodero.
Era strano pensare che lo stesso vento che aveva alzato il mantello al suo nemico ora stava agitando le vesti di Mario Auditore, che in piedi davanti alla piazza d'arme aspettava il ritorno di Ezio come un cane da pastore di fronte all'ovile. Pronto a mordere se non fosse tornato.
Era strano pensare che lui viveva e Francesco non più.
I muri scrostati di Villa Auditore, alle spalle di Mario, osservavano Monteriggioni come un occhio arrossato che sta per chiudersi nel sonno.
Ezio non disse una parola fino a quando non fu a pochi passi dallo zio. Solo allora si sollevò il cappuccio, per permettergli di guardarlo in volto. Mario, nell'immobilità di una sfinge, non cambiò espressione.
Il giovane Assassino allora sguainò il pugnale. Le cinghie che gli sorreggevano l'armatura e le armi tintinnarono l'una contro l'altra.
«Questo è il sangue di Francesco de' Pazzi,» annunciò. La lama sporca, sotto le luci calde che illuminavano il piazzale, restituì un bagliore sinistro.
Mario gli si avvicinò e gli strinse la spalla in un gesto paterno di conforto. La sua attenzione fu attirata da qualcosa, e spostò la presa sul braccio del nipote, prendendo con la sinistra l'elsa della daga e avvicinandola al viso. Non toccò il sangue di Francesco, poiché era qualcosa di sacrilego che l'avrebbe contaminato.
«Oh...» esclamò, «ma guarda se non è la daga del poeta».
Ezio lo guardò con espressione interdetta. Come se fosse perso nell'ondeggiare di un ricordo, Mario aveva un sorriso un po' distante dipinto sulle labbra.
«Dove l'hai presa?» gli domandò lo zio.
«Me l'ha data un alleato di Lorenzo come pegno quando gli ho promesso di vendicare Giuliano».
Quando sentì Mario tirare leggermente il pugnale, Ezio lasciò la presa. Suo zio cominciò a esaminare la lama, dopo essersi spostato sotto una lucerna per poterla vedere meglio con l'unico occhio buono.
«Sì, il Poliziano. Non sai chi è?»
«Solo di nome».
Mario si passò una mano sui baffi.
«Lo studioso più illustre della corte dei Medici... sai, questa un tempo era mia».
Il ragazzo inarcò un sopracciglio e con il capo gli fece cenno di continuare.
«Svariati anni or sono – Lorenzo era molto giovane – ricevetti lui e la sua famiglia qui a Monteriggioni. Si portava dietro un ragazzetto che si vantava con lui di saper tradurre l'Iliade dal greco al latino, o qualcosa del genere, non posso dire che me ne intendo. Appresi dopo che il piccolo era il suo protetto. Quando offrii ai due ragazzi delle armi, lui mi disse che ne voleva una degna di Achille. Questa daga... è molto bella, ma è poco più che un'arma da esposizione».
Ezio annuì.
«L'ho notato».
«Ma a lui piaceva e ha insistito per averla, nonostante io gli abbia offerto pugnali migliori. Sono passati diversi anni, tuttavia non mi sorprende che uno che per lavoro conserva testi antichi sia legato a un oggetto del passato».
«Quella daga ha fatto ciò che doveva,» commentò Ezio, prima di ritirarsi nelle sue stanze. Come me.
Fece presto – poiché non era completamente un illetterato – a rendersi conto che non era un granché come metafora il compararsi a una daga senza filo. Ma del resto, lui non era certo un poeta.
L'assiuolo, lugubre, chiamava dalle colline.
Ezio giaceva nel proprio letto immerso in un silenzio completo, spezzato talvolta, oltre che da quel verso, dagli sparsi singhiozzi di sua madre, che non sapeva più parlare ma si ricordava come piangere. Il ragazzo non aveva sperato, neppure per un istante, che la vendetta avrebbe potuto restituire un senso ai suoni che articolava.
Ma aveva sperato di poter dormire tranquillo, dopo essersi lavato via l'ultimo alone del sangue di Francesco. Aveva ricominciato a piovere, e dalle fronde si alzava un fruscio monotono. I muscoli di Ezio avevano spasmi non appena la sua mente annebbiata provava a scivolare nell'incoscienza. Spalancava gli occhi nel nulla e vedeva rosso, sentiva sotto la lingua un sapore amaro anche se non aveva mangiato nulla. Sentire della carne sotto ai denti gli avrebbe ricordato troppo il momento in cui aveva girato la lama nella spalla di Francesco.
Tentò di regolarizzare il respiro e, memore di ciò che gli diceva sua madre quando da fanciullo andava a cercarla con gli incubi, chiuse gli occhi e visualizzò un luogo in cui si sentiva al sicuro.
Allora la bottega di Leonardo si aprì davanti a lui, e lì non pioveva. E lì, con le sue parole di pace, l'amico gli spiegava come decifrare i Codici, senza che lui capisse nulla.
Immaginò che il muro su cui aveva appoggiato la tempia fosse la spalla di Leonardo, e grato di quel miraggio finalmente trovò il riposo.
*
Altrove, Poliziano si alzò dalla propria scrivania e raddrizzò le spalle. Non poteva dormire, non quella notte, poiché le lacrime del cielo non bastavano a piangere quello che si era perso nella pioggia.
Strinse tra le mani un libro, come se fosse un breviario di soli salmi per l'amico morto. Tuttavia quando le sue labbra si mossero non mormorarono un'Ave, ma qualcosa di più attento e severo che gli ricordava, pendendo dal Palazzo della Signoria, qual era il destino di chi non era un lupo.
Bella per Emathios plus quam civilia campos
iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra
cognatasque acies, et rupto foedere regni
certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestisque obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
Le parole concatenate dei poeti, le preci senza Dio dei filologi, non erano che amare riflessioni su un mondo che non cambiava.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro