Dodici, o i Buoi.
Sebastiano era in piedi di fronte a un mobile di legno. Teneva in mano un libro e fissava con aria attonita una lettera che ne era caduta.
«Che succede?» domandò Ezio in tono urgente. Affiancò Sebastiano e guardò assieme a lui la busta.
Il Campione del Maggio, le cui dita avevano assunto un lieve tremolio dal giorno in cui era stato vicino alla morte, la girò da un lato e poi dall'altro. Non aveva nessun destinatario. Ezio vide Sebastiano strizzare gli occhi, come se stesse tentando di ricordare qualcosa con tutte le sue forze, poi serrare i denti.
«Questo libro...» mormorò. Senza lasciare la lettera, tornò alla prima pagina per guardare il titolo: era l'edizione latina di alcuni dialoghi di Platone.
«Che cos'ha?» lo incalzò l'Assassino.
«Non riesco a ricordare di chi sia né dove l'ho preso. Eppure, ora che lo guardo... so che risale a quel giorno, e sento che è qualcosa di importante. Come ti ho detto, la mia memoria del giorno precedente a quando hanno cercato di mandarmi al Creatore non è così intatta».
«Pensi che possa essere collegato?»
«In genere tutti i libri li ricordo». Tenne la busta tra indice e medio e la portò davanti al viso.
«Ricordi di aver scritto quella lettera?» gli chiese Ezio.
Sebastiano scosse la testa. Con prontezza, come guidato da un'ispirazione divina, aprì il cassetto e ne estrasse un tagliacarte.
«Cosa fai?»
«L'apro!»
«Ma–»
«Se il me del passato ha voluto mandare un messaggio, ora è il momento di leggerlo. Se invece viene fuori che è la corrispondenza di un altro...» Con un colpo secco, la piega della busta si spezzò. «Ne sarò terribilmente spiacente ».
Una volta spiegata, la lettera rivelò dei nomi di uomini, scritti uno sotto l'altro. Alcuni avevano delle cifre accanto, e nemmeno una frase spiegava cosa significassero, o chi fosse il mittente. Con uno sguardo stranito che dimostrava che quella non era certo la sua grafia, Sebastiano la voltò verso Ezio.
«Questi sono...» Il ragazzo, che stava facendo scorrere gli occhi su quelle righe, si interruppe, come se avesse visto scritto il giorno della sua morte. Turbato, strinse la stoffa del farsetto all'altezza della pancia. L'Assassino fu sul punto di posargli una mano sulla spalla e chiedergli cosa stava succedendo quando lui continuò: «Alcuni di questi sono nomi di professori universitari che conosco. C'è anche Marsilio Ficino».
«Il filosofo?»
«Sì».
Non appena Ezio si avvicinò per vedere meglio, e fissò l'attenzione su un nome a caso, comprese il motivo del tormento di Sebastiano.
Angelo Poliziano. Non aveva alcun numero a fianco.
Pensò che, tra tutte le sofferenze, l'amore non ricambiato è la più persistente e fedele.
Sebastiano, che era nato intelligente e aveva speso la sua giovinezza nell'alta aspirazione di comprendere col suo intelletto il mondo, capì che Ezio aveva visto. Gli appoggiò la testa sulla spalla e soffiò l'aria fuori dal naso.
«Magari non è niente,» cercò di rassicurarlo Ezio, che non sapeva bene cosa dire. Chissà cosa gli stava passando per la testa. «Se sono tutti professori... magari è qualcosa di interno all'università. Prova a pensare dove puoi aver preso il libro».
«Quel giorno...» cominciò il ragazzo a mezza voce, senza alzare il capo dal braccio di Ezio, «andai a lezione come al solito».
«Come si chiama il professore?»
«Flavio Guicciardi, insegna filosofia». Si fermò per un istante, poi aggiunse: «non è nella lista».
«Sembra qualcuno che può prestare dei dialoghi di Platone a uno studente,» osservò Ezio. Sebastiano, come se stesse subendo un attacco di emicrania, serrò gli occhi e fece una smorfia di dolore.
«Ezio, posso chiederti una cosa?» domandò, le dita strette alla stoffa del gonnellino che indossava. Affettuosamente, l'Assassino si chinò su di lui, dopo averlo preso per le spalle.
«Dimmi».
Lui non era mai stato una persona empatica, ma era evidente che Sebastiano stava soffrendo come un cane.
«Vorrei... cambiare i termini del nostro contratto». La voce gli tremava. «Te ne prego, prima di indagare su di me, assicurati che Angelo non sia in pericolo...»
Ezio storse la bocca. Quel ragazzo era molto bravo a dissimulare le proprie emozioni sotto al sarcasmo, eppure c'erano momenti come quello in cui si capiva bene cosa stava attraversando. L'Assassino si mise di fronte a lui e lo prese per le spalle.
«Scusa se mi permetto, ma Poliziano è uno stronzo. Hai detto che ti ha tradito. Perché ti preoccupi della sua salute prima della tua?»
Sebastiano lo guardò con gli occhi spalancati e scosse la testa.
«Perché lo sto facendo per me, Ezio,» rispose. «Se gli accadesse qualcosa, io non potrei vivere una vita senza dolore».
L'Assassino gli accarezzò la schiena, tracciandovi dei cerchi con il palmo della mano.
«Non ti merita, non ti merita,» provò a dire. Non era un granché a consolare le persone, ma sentì il giovane che gli si stringeva al petto e sperò di essere in qualche modo di conforto.
«Ormai è così,» concluse Sebastiano, sciogliendo l'abbraccio.
Ezio lo fissò e rifletté. Aveva due aggressioni di ragazzi, di cui uno era morto, e si sarebbe giocato tutte le dita della mano destra che erano collegate. Aveva due nomi – Claudio Cogni e ora Flavio Guicciardi – entrambi riconducibili all'ambiente degli intellettuali di Firenze. L'unica cosa che poteva fare era chiedere al suo intellettuale di corte sé ne sapesse qualcosa. Era l'unico che conosceva, nonostante non fosse una presenza molto gradita. E nonostante Sebastiano dovesse stare il più lontano da lui possibile.
«La lettera... Posso mostrarla a Leonardo?» chiese, con l'intenzione di farla scivolare accidentalmente sotto il naso di Poliziano quando lo avrebbe incontrato con la scusa del registro.
Il giovane si ricompose e annuì.
Mi dispiace tradire così la tua fiducia, Sebastiano, pensò Ezio, ma è la cosa migliore che posso fare per te.
Sperava davvero che Poliziano avrebbe potuto sciogliere l'enigma di quella lettera. E se si fosse concretizzata la remotissima possibilità che fosse coinvolto in qualche modo nella congiura, che fosse una serpe in seno ai Medici, lo avrebbe tolto di mezzo con un disprezzo maggiore di quello che aveva riservato a Vieri de' Pazzi.
*
1478, 13 maggio.
Lemuria, terzo giorno.
«Sì, ma il Poliziano in che buco di culo è finito col su' registro?»
«Te l'avevo detto: vatti a fidare te dei poeti...»
La sentenza decisa di Claudia fu accolta dal sospiro di rassegnazione di suo fratello.
«Io ancora non ho capito che s'ha da fare,» commentò Leonardo.
Ezio, seduto di fianco a lui, si passò una mano sul viso. Si erano chiusi nella sala della villa a Monteriggioni come tre bambini in una base segreta scavata nella terra.
«È colpa mia che non riesco a spiegartelo,» replicò. «Dio, quanto ci mette?»
«Magari è impegnato,» osservò l'artista.
«È impegnato . Prima mi viene a dire che non possiamo eliminare il Cogni perché se no chissà che casino viene fuori, si propone di risolvere lui, e poi sparisce perché è impegnato».
«La fretta è cattiva consigliera, Ezio,» disse Claudia, con una mano posata sul suo braccio. «Arriverà».
Leonardo accavallò le gambe e intrecciò tra loro le dita, con aria concentrata.
«Oppure potremmo andare noi da lui,» suggerì. «Hai detto che volevi mostrargli quella lettera».
La lettera. Leonardo stesso, quella mattina – dopo che Ezio lo aveva portato con la scusa dei progetti di restauro nel granaio mezzo crollato dietro la Villa, dove avevano potuto scambiarsi in pace qualche effusione piuttosto intensa – aveva suggerito che quelle cifre accanto ai nomi avrebbero potuto essere dei soldi che qualcuno doveva a qualcun altro. Ezio, che infatti riteneva di essere un pessimo figlio di banchiere, non ci aveva pensato.
Se qualcuno stava cercando di mettere i suoi in posizioni di potere, aveva continuato Leonardo, probabilmente corrompere dei professori poteva essere un buon modo per assicurarsi l'università.
Partirono quel pomeriggio stesso sul carro di Leonardo, le cui sospensioni cominciavano a emettere un sofferente cigolare a causa dello sforzo prolungato.
Una volta nei dintorni di Palazzo della Signoria, incontrarono Lorenzo che stava uscendo, circondato da cinque guardie armate di tutto punto.
«Ehi,» disse una di loro, interponendo la propria alabarda tra sé ed Ezio con fare minaccioso, «sta' indietro».
Il ragazzo, che si era diretto verso Lorenzo senza pensarci troppo, mosse un passo indietro e alzò le mani in modo da mostrare che non era armato. Spostò lo sguardo verso Leonardo alle sue spalle, e quando vide che non era spaventato fissò di nuovo l'uomo.
«Lascia che si avvicini,» disse la voce del signore di Firenze, «è un amico».
Confuso dal suono strano che aveva quella parola, Ezio accennò un inchino e andò verso di lui.
«I miei rispetti, mio signore,» esordì. Leonardo si tolse il cappello e lo imitò.
«Ezio,» salutò Lorenzo con cortesia, «maestro Da Vinci. Cercavate me?»
L'Assassino notò come le guardie avessero circondato tutti e tre, e stessero osservando con attenzione la folla. La gente rivolgeva loro sguardi reverenziali, soprattutto quando si accorgeva della presenza del signore.
Ezio alzò gli occhi verso le mura del palazzo.
«In verità, desideravo parlare con messer Poliziano,» rispose.
Lorenzo si rabbuiò per un istante, poi ricompose l'espressione da ritratto ufficiale che mostrava a tutti, quando era al di fuori delle sue stanze.
«Angelo è andato in campagna».
«È andato in campagna, signore?» ripeté l'Assassino. «E per quella questione...»
Lorenzo inarcò le sopracciglia e soffiò fuori dal naso un sospiro discreto.
«Questa mattina ha litigato con mia moglie ... di nuovo, » raddrizzò la schiena e storse le labbra, come pentendosi di quell'aggiunta, «dopodiché ha preso il cavallo e ha annunciato che se ne andava a Cafaggiolo».
Ezio contrasse la mascella. Pregò con tutte le forze che in campagna ci fosse andato da solo, perché qualora fosse scappato con qualche servetto c'era la possibilità che non sarebbe mai tornato senza un intervento esterno. E l'intervento esterno sarebbe stato, come da lettera ufficiosa in piccionaia de'Medici, lui che lo riportava a palazzo trascinandolo per i capelli.
«Da solo?» provò a chiedere.
Lorenzo alzò le mani e scosse la testa in segno di totale ignoranza.
«Che io sappia, sì. Posso consegnargli qualche messaggio a nome tuo, nel caso tornasse?» aggiunse con gentilezza.
Ezio scosse arrendevolmente la testa.
«Non voglio cagionarvi disturbo, signore. Non c'è così tanta fretta, dopotutto,» mentì.
Se era vero che lo stampatore non avrebbe lasciato la città, poiché fuori da Firenze non era protetto, c'era anche il fatto che Sebastiano avrebbe potuto essere aggredito una seconda volta, ora che gli piaceva andare al mercato della frutta. Avrebbe chiesto alla Volpe di mettere uno dei suoi come presidio.
Seccato per il buco nell'acqua, Ezio salutò Lorenzo e si incamminò per le vie di Firenze, intenzionato a riaccompagnare il suo amico alla bottega.
«Che periodo particolare,» commentò Leonardo. Era rilassato, e i suoi occhi curiosi guardavano attorno come se volessero cogliere il modo in cui il colore variava, nella sua più minima sfumatura, a seconda della luce o dell'ombra. «Sembra che nemmeno il signore della città abbia il completo controllo di tutto ciò che succede tra le sue mura».
Ezio fece una smorfia.
«Siamo stati fortunati a incontrarlo: ci ha risparmiato una perdita di tempo».
Avrebbe voluto continuare il discorso, ma sentì qualcuno che lo urtava. Il suo sguardo dardeggiò verso un mantello bianco che stava scomparendo in un vicolo.
«Il mio borsello!»
«Ezio!»
*
1478, 15 maggio.
Idi di maggio.
Ezio si staccò dalle labbra di Leonardo per recuperare il fiato. Entrambi stavano ansimando, e l'Assassino cercava di non distrarsi nemmeno in un momento come quello. Il granaio era un ottimo nascondiglio per i loro incontri clandestini, anche in pieno giorno, ma doveva tenere i sensi all'erta.
Nonostante il sole fosse calato, e raramente qualcuno passasse per la Villa dopo il tramonto, non poteva rischiare che qualcuno li trovasse avvinghiati lì dentro.
Leonardo continuava a dargli piacere con la mano, ed Ezio abbracciato a lui appoggiò le labbra sul suo collo, per poi risalire verso la guancia arrossata. Quando il suo amico aveva preso l'iniziativa, lui era stato molto contento di assecondarlo.
«Amore...» gli sussurrò. Le loro labbra si unirono di nuovo ma, proprio mentre Ezio era intento a rendere più intenso il bacio, i suoi sensi da Assassino avvertirono uno scalpiccio di zoccoli.
Merda.
Si bloccò, come congelato, e si staccò da Leonardo. Quasi temesse di aver fatto qualcosa di sgradito, l'artista ritrasse la mano e lo guardò con gli occhi sgranati.
«C'è qualcuno».
«Ezio...»
L'Assassino si allacciò le braghe e poi posò una mano sul viso dell'amante per rassicurarlo.
«Ho sentito un cavallo andare verso la Villa. Rimani qui,» gli disse piano. Lo baciò a fior di labbra e Leonardo annuì. «Verrò a prenderti quando sarà sicuro uscire».
L'artista, nonostante apparisse preoccupato, assentì di nuovo col capo.
Ezio mise il piede su una balla di fieno, poi su una trave, e infine uscì attraverso una finestra che dava sul tetto, aiutato dalla luce del cielo non del tutto buio e da quella delle torce sul piazzale.
Si diresse verso la zona d'addestramento di Mario, in modo che al nuovo arrivato sembrasse, vedendolo giungere da lì, che fosse impegnato con un allenamento serale. Guardò verso l'ingresso della Villa e vide un ragazzo molto giovane che portava con sé un grosso oggetto. Egli scese da cavallo e bussò alla porta. Ezio si infilò tra i manichini per l'addestramento e udì il rumore dello sportello di legno che sua sorella usava come spioncino.
«Chi è?»
«Madonna,» cominciò il ragazzo, in tono piuttosto impacciato, «ho una consegna per messer Ezio Auditore. Mi manda il signor Poliziano».
«Mio fratello è...»
«Sono qui, Claudia,» intervenne lui. Avanzò con atteggiamento naturale dalla piazza d'armi, tenendo in mano una spada con la punta rivolta verso il basso. Il messo si voltò subito verso di lui, gli mostrò un sigillo della famiglia Medici e gli rivolse un inchino troppo profondo.
In un momento inopportuno, ma alla buonora, Poliziano.
Quando il ragazzo risollevò il capo, Ezio lo osservò alla luce delle torce. Aveva dei lineamenti molto graziosi, purtroppo sfregiati dalle cicatrici del vaiolo. I suoi capelli castani sembravano essere stati lavati e tagliati di recente. Indossava stoffe che non potevano definirsi preziose, ma apparivano certamente di buona qualità. E l'abito sembrava tanto nuovo da far pensare che fosse stato appena confezionato.
Claudia aprì la porta e uscì; il giovane non la guardò e si diresse verso il cavallo per slegare il carico.
«Il signor Poliziano,» disse, «si scusa per il ritardo».
Con una certa difficoltà, prese l'oggetto – il registro – e lo consegnò a Ezio.
Claudia gli offrì di entrare in casa per riposarsi, ma il giovane rifiutò con cortesia. Quando si fu allontanato, Ezio annunciò che doveva concludere certe faccende al campo d'addestramento prima di rientrare in casa. La sorella rimase sulla soglia, con gli occhi fissi sulla città sotto di loro.
«Qualcosa ti angustia, Claudia?» le domandò Ezio, in tono apprensivo.
«No,» ribatté lei, senza spostare lo sguardo. «Ho solo notato che, vestiti a parte... quel ragazzo non aveva i modi di uno della corte». Unì le mani in grembo e si diresse verso la porta. «Di sicuro non significa niente. Ti aspetto dentro: l'aria è piuttosto fredda, questa sera».
*
«Poliziano! Ehi, Poliziano!»
Ezio, dal balcone di quella che ricordava essere la stanza del poeta, bussò un paio di volte alla finestra, chiamando a mezza voce. Quando vide, oltre il vetro, la sua figura seduta alla scrivania trasalire, aggiunse: «Ezio Auditore. Vi devo parlare, è urgente».
«Metodo poco ortodosso,» commentò la voce di Angelo mentre la finestra si apriva, «per andare a parlare con la gente. Vieni».
Il poeta, la cui bassa statura era ancora più evidente senza scarpe, apparve sullo sfondo dei suoi lumi. Si portò entrambe le mani alla base della schiena e si stiracchiò con una smorfia, che mascherò con un sorriso affilato. Ezio, scivolato nella stanza senza un rumore, richiuse la finestra e si guardò attorno. Uno scrittoio, un letto singolo e dei libri ammonticchiati. Era una stanza piuttosto spartana per un uomo a cui piaceva vivere in modo così appariscente.
«Non dovreste studiare il latino fino a così tardi,» lo punzecchiò. «Vi rovinerete i vostri begli occhi».
Poliziano tolse il calamo dalla boccetta dell'inchiostro e la coprì.
«Oh, ultimamente sono più preoccupato per la mia bella schiena,» commentò. Poi alzò lo sguardo e portò una mano al fianco. Sulla tunica lunga e priva di ornamenti che indossava si formarono delle pieghe regolari. «Ebbene? Sei venuto qui a descrivere il mio corpo?»
«No, non era tra i miei obiettivi primari,» ribatté Ezio, e prese a frugare nella borse di cuoio che aveva al fianco. «E non voglio neanche parlarvi del registro che mi avete fatto recapitare».
«Che c'è allora di tanto urgente?»
L'Assassino gli porse la lettera e lui la prese con fare curioso.
«L'ha trovata Sebastiano,» esordì Ezio. Si ricordò che lui in teoria dello schiaffo che Angelo aveva ricevuto non sapeva niente, e aggiunse: «È il ragazzo che avete salvato quella sera davanti alla locanda».
Le labbra del poeta, già sottili, si serrarono fino ad apparire poco più che un segmento.
«Mi ricordo,» rispose in tono secco, come se la sua precisazione lo avesse offeso. Ezio però sapeva bene cosa esattamente lo aveva offeso. «E perché Sebastiano manda te a portare a me la roba che trova?»
Il giovane Assassino trattenne un sospiro. Sapeva che sarebbe stata una missione difficile.
«Apritela».
Angelo obbedì e posò la lettera sulla scrivania, sotto la luce dei lumi che usava per leggere. Ezio vide i suoi occhi scorrere lungo il foglio e le sue sopracciglia aggrottarsi, poi sollevarsi, poi aggrottarsi di nuovo.
«Dove l'ha trovata?» chiese infine Poliziano, con tono urgente. Un moto di vittoria si sollevò nel petto di Ezio: era riuscito ad attirare la sua attenzione.
«Era dentro a un libro proveniente dall'università. Ditemi, sapete per caso se quelli sono tutti docenti?»
«Eh, vediamo». Il poeta prese la lettera e la avvicinò al viso, come se quel gesto gli permettesse di concentrarsi meglio. «Luigi Zecchi, An– oh beh, questo sono io... dal Colle, Peruzzi... sì, sono detentori di diverse cattedre. Ne conosco la maggior parte».
Forse nell'attesa della domanda successiva, alzò gli occhi scuri su Ezio.
«Leonardo pensa che dopo la congiura i sostenitori dei Pazzi stiano cercando di infiltrarsi nelle cariche della Repubblica. Capirete bene perché ho sottoposto il problema a voi e non a Lorenzo. Mi rendo conto che sia una domanda inopportuna, ma... per caso di recente qualcuno ha provato a corrompervi con del denaro?»
Mentre lui parlava, Poliziano si era chinato su un mobiletto e ne aveva aperto un'anta. Prima di rispondere, estrasse una bottiglia piena per tre quarti di un liquido trasparente e due bicchieri. Rivolse a Ezio un cenno col capo che corrispondeva a un'offerta inequivocabile.
«Oh,» replicò lui, «sì, vi ringrazio».
«Te, bellino – to', questo me lo faccio portare dalla Grecia – sapendo a chi sono legato io, proveresti mai a corrompermi?»
«No,» ammise Ezio, guardando il bicchiere. Non aveva mai bevuto un liquore che veniva dalla Grecia. Era delicato, non molto forte, e lasciava in bocca un sapore gradevole di resina. Probabilmente proverei ad uccidervi, pensò ma non disse.
«Credete che qualcuno dei vostri colleghi potrebbe accettare dei soldi?»
«Ah, non ne ho alcun dubbio». Poliziano sorrise. «Penso ogni male dei miei colleghi, se te lo stai chiedendo».
«Sospetto che possa essere stato un uomo di nome Flavio Guicciardi a scrivere quella lettera,» continuò l'Assassino, «lo conoscete?»
A quel nome, sul volto di Angelo si dipinse un'espressione divertita. Lui posò il bicchiere sulla scrivania e alzò l'indice della mano destra, quello su cui portava l'anello.
«Sei fortunato,» sentenziò. Con entrambe le mani, estrasse il grande cassetto della scrivania e lo posò sul ripiano. Era pieno di carte, legate in risme con degli spaghi e disposte con scarso ordine l'una sopra l'altra. «Queste sono le lettere della gente con cui mi... scambio le opinioni,» annunciò.
Ezio gli rivolse una smorfia confusa. «Litigate anche per corrispondenza?»
«Oh, venvia, non sempre». Il poeta, mentre rovistava tra le lettere, spinse il labbro in fuori. «Solo qualche volta. E con quello che mi hai nominato ricordo che ebbi di recente uno scambio piuttosto... divertente».
Trovò quello che cercava. Due fogli furono spiegati sulla scrivania, le righe di uno dei quali erano vergate da una grafia estremamente simile a quella del messaggio che Ezio aveva portato.
Lo scambio epistolare era in latino, lingua che Ezio non ricordava bene: non era mai stato portato per lo studio. Cercò di immaginare quale offesa da parte del Guicciardi avesse potuto far scaturire la fluviale lettera di Poliziano. Ad un certo punto, le sue frasi diventavano versi. Incuriosito, Ezio si avvicinò alla scrivania con le mani dietro la schiena, apparentemente intento a leggere l'altra missiva, e guardò la poesia di Poliziano.
Habuistine tamen dum pedicaris, Flavie, cevere
Riconobbe un paio di verbi e distolse all'istante lo sguardo, intuendo che era meglio non indagare oltre.
«Guarda, sembrano corrispondere,» gli disse il poeta. Ezio riportò l'attenzione al presente e dovette constatare che aveva ragione. «Credo che abbiamo trovato il tuo cospiratore misterioso».
«Sì,» rispose l'Assassino, confrontando i due fogli, «pare anche a me».
Il poeta prese il suo bicchiere, poi con un movimento elegante allargò le braccia, quasi fosse un attore sulla scena.
«E anche questa notte il Poliziano risolve i problemi di Firenze!» annunciò con gran pompa.
Ezio lo fissò. Rimpianse con tutto se stesso di non avere Leonardo al suo fianco, perché gli pareva che Angelo stesse tenendo nascosto qualcosa. O che stesse proteggendo qualcuno. Non avrebbe saputo, però, fare uscire la questione, poiché contro il suo ingegno e la sua lingua non poteva nulla. E Poliziano non avrebbe mai risposto a nessuna domanda relativa a Sebastiano, poiché avrebbe potuto incriminarsi o, per lui ancor peggio, mettersi in ridicolo.
Allora si inchinò in modo farsesco e gli prese le dita della destra.
«Lui o i suoi efebi,» commentò con un sorriso, prima di baciargli la mano di propria iniziativa.
«Che impertinente,» replicò Poliziano, ricambiando il sorriso mentre Ezio si alzava. Si sedette sul letto e incrociò le gambe, gesto che suggeriva che la loro conversazione era terminata. «Spingi un po' la finestra quando esci. Non si chiude bene».
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