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Dieci, o l'Unghia.

1478, 9 maggio.
Lemuria, primo giorno.

Sebastiano non era solo determinato, per virtù d'animo, a scoprire chi l'aveva aggredito: ne era ossessionato.

Entrato nella sua stanza, Ezio vide che il giovane aveva dedicato un altare improvvisato a dei ritratti, attaccati con delle puntine a una tavola di legno. Sotto era appesa una mappa del centro di Firenze, molto stilizzata ma tracciata con precisione, sulla quale erano stati segnati alcuni punti.

«Sono le persone che sospetto potrebbero essere coinvolte,» spiegò Sebastiano, notando che Ezio stava fissando i ritratti.

L'Assassino si avvicinò e notò alcuni degli avventori della locanda di quella sera. Nonostante non ne conoscesse il nome, la mano del ragazzo li aveva resi perfettamente riconoscibili.

«Non sei affatto male a disegnare,» commentò. Si voltò verso Sebastiano e sussultò nel trovarlo già molto vicino a sé.

«Ho bisogno di un tuo parere sincero,» gli disse mentre gli porgeva un foglio. «Io provo dei sentimenti che non mi consentono una valutazione imparziale. Posso farti una domanda?»

Nonostante fosse stato colto alla sprovvista, Ezio notò il tono serio con cui il giovane gli si era rivolto e con attitudine simile prese il disegno e replicò:

«Sì, certo. Risponderò al meglio delle mie possibilità».

Si trattava di un ritratto, piuttosto somigliante, di Poliziano. Aveva gli stessi occhi intelligenti e scuri, i capelli leonini e il bell'atteggiamento sprezzante. Intuendo la domanda che stava per arrivare, Ezio strinse le labbra in una smorfia.

«Quando sono stato aggredito,» cominciò il Campione del Maggio, «sono sicuro che lui era impegnato in altre attività . Tuttavia...» Ezio aveva notato che la voce del ragazzo s'era intristita, quindi alzò lo sguardo dalle ciocche d'ebano dell'uomo disegnato e li rivolse verso di lui. «Devo appendere anche il suo ritratto?» stava chiedendo. «Pensi che sia possibile che, per qualsiasi motivo, abbia pagato qualcuno per farmi fuori?»

Ezio si prese un istante e sospirò. Quando rispose, fece sì che la sua voce suonasse il più ferma e sincera possibile:

«Lui? No».

Gli restituì il foglio e Sebastiano, con presa sicura, lo strappò in due e lo gettò con noncuranza sul tavolo, ai piedi di quelli appesi.

«Bene,» annunciò, con lo sguardo basso. Poi con una mano indicò davanti a sé. «Questo è tutto ciò che abbiamo».

«Sebastiano, perdonami la domanda. Non è qualcosa che vorrei chiederti, ma potrebbe essere una pista».

Il giovane si voltò verso Ezio e si appoggiò con il bacino al tavolo.

«Dimmi».

Imbarazzato, Ezio cercò senza trovarlo un modo delicato per porre la questione. Sospirò, e considerò il fatto che, dal momento che Sebastiano si esprimeva sempre in modo molto diretto, forse avrebbe potuto apprezzare chi faceva altrettanto.

«Vedi,» esordì, «lo stesso giorno della congiura dei Pazzi, ha perso la vita un ragazzo che si chiamava Piero Donati».

Sebastiano, con atteggiamento attento, aggrottò le sopracciglia e attese che la frase arrivasse al punto. Nulla nel suo atteggiamento suggeriva che Piero fosse collegato a lui.

«Ti dice qualcosa questo nome?»

«No, nulla».

«Inizialmente si credeva che fosse morto nei tumulti, ma... non pensiamo che sia così. Qualcuno ha usato il disordine per mascherare il suo omicidio». Ezio fece una pausa, poi riprese: «Ho saputo che si prostituiva in via dei Bassi».

«Capisco».

«La natura del tuo... interesse per l'amicizia maschile...»

Il ragazzo non si mostrò indispettito. Sorrise, e facendosi leva sulle braccia si sedette sul tavolo.

«Capisco,» ripeté, «pensi che possa esserci qualcuno che uccide i giovani omosessuali. Io sono ancora vergine: l'unica volta che mi sono invaghito di un uomo è stato di quel maiale là». Senza vergognarsi, fissò Ezio con gli occhi celesti e continuò a raccontare: «Alla festa del Calendimaggio ci siamo appartati in un giardino del palazzo per amoreggiare. Prima non avevo mai avuto desideri di quel tipo. Solo per lui... Volevo diventare il suo amante, ma sono sicuro che lui, con tutte le sue promesse, il giorno dopo era già a letto con un altro».

«Oh,» commentò Ezio. Sentiva di aver infilato il dito in una piaga e il naso in una faccenda che non lo riguardava. «Mi dispiace».

Sebastiano si strinse nelle spalle e gli rivolse un sorriso dolce ma rassegnato.

«Sono stato io a illudermi quando lui c'ha provato con me,» replicò. «Ma in fondo poteva andarmi peggio: potevo darglielo, e solo poi scoprire che gran infido che è. Invece ora sono qui con la testa rotta e il culo ancora intatto».

Ezio sentì un vago calore spargersi per le guance e distolse lo sguardo.

«Ti chiedo scusa per aver tirato fuori l'argomento,» mormorò. «Era solo per escludere...»

Quando Ezio lo guardò di nuovo, il ragazzo si arricciò una ciocca di capelli sull'indice e dondolò le gambe tornite, coperte da belle calze color avorio.

«Non sono offeso: ho capito perché eri preoccupato. Quell'artista, Leonardo, lo frequenti da tanto?»

L'Assassino sgranò gli occhi.

«Cosa?» sbottò, a voce troppo alta.

L'espressione di Sebastiano si fece curiosa.

«Non siete amanti?» domandò.

«A-amanti?»

Il Campione del Maggio inclinò la testa e saltò in piedi.

«Mi sembrava ci fosse dell'interesse».

"Tutto qui," sembravano dire le sue spalle sollevate, l'atteggiamento di tutto il suo corpo. Ezio non aveva mai considerato il fatto che qualcuno avrebbe potuto intuire, dall'esterno, ciò che stava succedendo tra lui e Leonardo. Gli era sempre sembrato qualcosa di così intimo, di così invisibile, da essere comprensibile solo a lui stesso come un codice segreto.

Che ingenuo era stato.

«Oh, insomma,» cominciò a dire Sebastiano, «te tu arrivi qua e mi chiedi del mio culo, e poi quando ti domando io non mi fai neanche una confidenza».

Quella frase fu accompagnata da un occhiolino, in modo che Ezio ne cogliesse l'atteggiamento giocoso.

L'Assassino desiderò, in quel momento più che mai, di poter somigliare a lui. Uno che riusciva ad ammettere i propri sentimenti, invece di fuggire come un vigliacco.

«Giusto...» replicò, ben attento che le sue parole non suonassero ostili, «ti piace sentir parlare degli amori degli altri, eh?»

«Amori,» ripeté Sebastiano, ammiccando, «quindi vuol dire che c'è qualcosa».

«Chissà».

Sebastiano, che aveva cominciato a passeggiare avanti e indietro per la stanza, si fermò all'improvviso e si fece serio.

«Oh, Ezio,» esordì. «Un'ultima cosa».

«Sugli amori?»

Il ragazzo gli scoccò un'occhiata fintamente seccata.

«Su quello che ti ho chiesto di fare per me».

Ezio fece spallucce.

«Peccato, magari avevi qualche consiglio».

«E che consiglio vuoi dare a uno che non si confida?»

«Hai ragione,» ammise l'Assassino con espressione bonaria.

«Ora che gradualmente mi sta tornando la memoria, e ripenso a ciò che è successo una scena per volta, come se fossero dei quadri... Ricordo che c'era un uomo, in più di un'occasione,» strizzò gli occhi, come se stesse cercando di guardare attraverso la nebbia, «non ricordo la sua corporatura o le sue vesti, però aveva un cappuccio che gli copriva i lineamenti del viso».

«Ehi!» esclamò Ezio, «che cosa stavi aspettando a dirmelo?»

Un Assassino? Qualcuno ha mandato un Assassino a farlo tacere? Ma perché?

«Te l'ho detto: sto riprendendo gradualmente a ricordare le cose,» rispose il giovane, e lo fissò con gli occhi spalancati. «E se fosse solo uno scherzo della mente? Non ho altri indizi, non servirebbe a nulla provare a disegnare qualcuno che non ho mai visto in faccia».

«Quest'uomo... ti sembrava che ti stesse pedinando?»

Nell'istante in cui quella figura gli era stata descritta, davanti agli occhi di Ezio era balenata un'immagine. La Volpe non aveva nessun motivo di essere coinvolto in faccende di gelosie tra poeti, oppure nell'aggressione di ragazzi. Ma anche in altre non aveva cagione di essere invischiato, eppure lo era.

«No,» replicò Sebastiano. «Non mi si è mai avvicinato. Però, vedi, finché piove un uomo incappucciato non lo nota nessuno...» Con passo aggraziato, andò verso Ezio e con due dita sollevò il cappuccio dalle sue spalle. «È quando smette che tutti lo guardano».

*

Le nuvole sfilacciate attorno al sole avevano reso il cielo di un arancione intenso, e con esso anche i tetti delle case. L'ombra di Ezio si allungava verso La Volpe: seduto sulle tegole con le braccia appoggiate alle ginocchia, egli guardava l'Arno come se potesse trarne una profezia antica.

«Non credo che splendesse tanto lume | sotto le ciglia a Venere, trafitta | dal figlio fuor di tutto suo costume ». La Volpe alzò il viso e il cappuccio di cuoio morbido scivolò, mostrando il suo mento sfuggente. Lui si voltò verso Ezio. «Dante,» spiegò. Poi, all'assenza di una reazione, aggiunse: «Perché mi hai chiamato qui?»

Il ragazzo si sedette di fianco a lui e imitò la sua postura. Lo aveva incontrato solo una volta, prima della congiura, e non gli era parso uno che si perdeva in convenevoli.

«L'altra notte hanno aggredito un ragazzo dalle parti del Cambio. Ne sai qualcosa?»

«Oh,» esclamò La Volpe, con aria quasi divertita, «non so mica tutto di tutti i misfatti di Firenze». Poi sorrise e continuò: «Però di quel ragazzo conosco il padre. Non è stato nessuno dei miei a colpirlo. E sì, ero anche lì quando è successo».

Mise un accento su quella parola, in modo da alimentare il mito che aleggiava attorno a lui. L'uomo che è ovunque e da nessuna parte.

«Non hai visto niente?»

«Volevo aiutarlo,» replicò lui, «ma prima che potessi fare qualcosa l'aggressore è scappato. Ho visto arrivare un damerino che gli ha prestato soccorso».

«Questo lo so,» replicò Ezio. Almeno un testimone confermava che Sebastiano aveva fatto bene a strappare quel ritratto e gettarlo via. «Non hai visto chi lo ha attaccato?»

La Volpe scosse la testa e fece schioccare la lingua contro i denti.

«Era troppo buio, e quello aveva il volto coperto».

«Ah,» lo provocò l'Assassino, «quindi non è vero che i tuoi occhi vedono oltre come si dice».

Ridacchiando, La Volpe posò le mani sulle tegole tiepide e rispose:

«I miei occhi sono acuti tanto quanto i tuoi».

«E del ragazzo che hanno ripescato dall'Arno cosa mi sai dire?»

«Che non ce l'ho buttato io».

Ezio sospirò. Vespero brillava poco sopra di loro, eppure era tanto lontana che in nessun modo avrebbero mai potuto toccarla.

«Sebastiano, il ragazzo aggredito,» disse dopo un lungo silenzio, «mi ha chiesto di indagare per lui. Tutti hanno visto qualcosa, eppure mi sembra di lanciare giavellotti contro il mare. Sia lui, sia l'altro...»

«Sembra che tu voglia per forza che quei due episodi siano collegati,» lo interruppe La Volpe. «Perché?»

«Perché Leonardo crede che lo siano».

«Oh, Leonardo...» continuò l'uomo con un ghigno, «ogni tanto secondo me si sbaglia anche lui».

Ezio ripensò al ritratto coperto dal telo.

«Non questa volta,» concluse con amarezza. Il suo campo visivo venne invaso dall'indice della Volpe che puntava verso l'alto, e lui si riscosse dalle sue malinconie.

«Sai, invece di dichiarare guerra al mare...» cominciò a dire l'uomo. Si sporse verso Ezio, spostò il dito che la copriva e Vespero tornò di nuovo visibile. «A volte fa bene cambiare prospettiva».

*

La prima sera, soprattutto se tersa, era il momento migliore per pedinare un uomo: la città era buia ma non troppo; la gente rincasava, ed era o troppo stanca a causa della giornata appena terminata o troppo distratta per fare veramente attenzione a chi aveva attorno.

Ezio, con la schiena addossata al muro, osservò il suo bersaglio salutare sempre lo stesso compare all'altezza dello Spedale degli Innocenti prima di proseguire verso la propria abitazione. Non era riuscito a capire dove lavorasse, ma dalla direzione da cui proveniva c'era l'università.

Fermo sulla soglia di casa, il suo bersaglio si guardò attorno con aria circospetta, come se sospettasse d'essere seguito. Pur consapevole che non sarebbe stato di alcun aiuto, Ezio trattenne il fiato, gli occhi ancora puntati dritto davanti a sé.

«Oh,» mormorò all'improvviso una voce maschile alle sue spalle. Una mano si strinse attorno al suo polso. «Che cazzo fai?»

L'Assassino trasalì e, con un movimento rapido, estrasse la lama celata e la puntò alla tempia dell'uomo. Quando lo riconobbe, gli rivolse uno sguardo confuso e abbassò l'arma.

«Poliziano. Che ci fate qui?»

Il poeta lo guardò come un imputato di fronte all'accusa.

È di nuovo scappato per andare a far baldoria?, si chiese Ezio, squadrandolo da capo a piedi. Era vestito in modo più sobrio del solito.

Le persone che passavano, a poca distanza dalla stretta via dove si trovavano loro due, non sembravano averli notati.

«Torno a casa,» rispose Poliziano.

«Sì, ma com'è che passate sempre per i vicoli?»

«Mi aiuta a pensare».

«Voi un giorno vi farete ammazzare».

«Ah, quello succederà solo se m'avvelenano il vino!»

Ezio fece roteare gli occhi verso il portone che aveva davanti. Il bersaglio era sparito. Quando lo sentì imprecare tra i denti, Poliziano commentò:

«Ma parlando di gente che vuol finire nei guai, come mai te stai seguendo il Cogni? Non ti sarai mica messo in testa di farlo fuori?»

«Mh?» replicò Ezio, interdetto. «Lo conoscete?»

Il poeta annuì col capo.

«Vieni».

Per spingere Ezio a seguirlo, gli prese con fermezza il polso e cominciò a camminare nella direzione opposta all'abitazione. Dopo un'iniziale resistenza, Ezio si arrese e si lasciò condurre.

Quasi come se sapesse che nascondersi in piena vista era una delle sue tecniche per non venire notato, Poliziano si sedette a gambe incrociate su una panchina e prese a osservare la gente che passava per la strada.

Ezio si scoprì il capo e si accomodò accanto a lui.

«Claudio Cogni, lo stampatore di Roma,» disse il poeta dopo qualche secondo, senza spostare gli occhi scuri dalla scena che aveva davanti. Delle cortigiane, per gioco, tentavano di attirare delle guardie inviando baci per l'aria e sistemandosi le ampie scollature. «Come mai lo stai pedinando? Ordini a sei palle?»

«Stampatore?» ripeté Ezio. Ecco forse spiegato perché nessuno sembrava avere informazioni su di lui. Quell'uomo non veniva da Firenze e viveva in un ambiente troppo distante dal suo perché si sapesse qualcosa con facilità.

«Sì,» rispose Poliziano. Nel passarsi una mano tra i capelli, fu fermato da un nodo che procedette a sciogliere con delicatezza mentre confermava: «Appartiene a una famiglia di fedelissimi ai Borgia. Ha chiesto alla Repubblica il monopolio su, se non sbaglio... sì, la stampa di testi liturgici. In poche parole, attorno a lui girano un sacco di soldi e se dovesse... scomparire in circostanze sospette, è la volta che a Firenze s'indaga veramente».

«Lorenzo ha le prove che abbia preso parte alla congiura,» replicò Ezio. Quel dettaglio guadagnò l'attenzione di Poliziano, che si voltò verso di lui. «Perché non me lo ha detto?»

Angelo alzò le spalle e spinse all'infuori il labbro inferiore.

«Perché non lo sa,» suggerì. «C'è un registro con i nomi di chi chiede il privilegio, ma può essere che un suo socio l'abbia ottenuto per lui».

«E voi com'è che invece lo sapete?»

«Oh, il Cogni una volta ha avuto da ridire su un mio commento al De finibus». Nel vedere che Ezio aveva aggrottato le sopracciglia e scosso lievemente la testa, spiegò: «Quando uno vuole dimostrarsi intellettualmente superiore a un altro, tende a sciorinare tutti i titoli che ha ottenuto sin da quando era bambino». Sorrise. «La sua obiezione era piuttosto stupida, però è il Poliziano che è raccomandato». Si guardò una mano, la chiuse a metà come se volesse stringere qualcosa, poi riprese a dire: «Ma questo a te non ti riguarda. Però se Lorenzo vuole la sua testa, è più complicato di quello che sembra».

«Voi cosa consigliate di fare?»

Un gatto domestico passò accanto alla loro panchina. Ezio ricambiò il suo sguardo, Poliziano invece lo richiamò muovendo le dita e schioccando la lingua.

«Ah, bisognerebbe falsificare il registro,» replicò mentre accarezzava il gatto tra le orecchie. «Non credo che qualcuno, nemmeno il suo stesso socio, si dispiacerebbe troppo se perdesse il privilegio... o se risultasse che non l'ha mai avuto. Ehi». L'animale cominciò a strofinarsi sulle sue gambe e a miagolare per richiedere attenzioni, dal momento che lui aveva ritirato la mano. Forse considerandolo una creatura simile a sé, riprese ad accarezzarlo. «Dopo questo, bisognerebbe distruggere tutte le copie dell'atto. Non è un lavoro da nulla».

«E voi potreste...»

«Oh, io non sono molto favorevole all'uso della violenza,» lo interruppe Poliziano. Il gatto vide qualcosa muoversi tra le ombre dell'edificio che avevano a fianco, spinse indietro le orecchie e schizzò in quella direzione. «Tuttavia, a Lorenzo debbo il mio floruit... oltre a qualcosa in più».

Ezio lo sentì sospirare, come se quell'idea stesse mettendo alla prova un suo principio morale. Insolito, pensò, per uno dal carattere così sanguigno. Forse gli avvenimenti recenti, che non comprendevano lo schiaffo ma piuttosto l'assassinio di Giuliano, lo avevano fatto rendere conto di qualcosa che era sempre stato nei suoi libri, ma a cui lui non aveva mai fatto caso. Del resto, immaginava che raramente le cattedre odorassero di sangue. Non sembrava che ciò lo avesse reso più umile, ma forse più spaventato.

«Il consiglio migliore che ti posso dare è quello di andare a parlare con Lorenzo,» concluse. «Vuoi che venga teco domani pomeriggio? Se preferisci, parlerò io».

Ezio annuì con discrezione. Avrebbe senz'altro preferito far parlare uno che l'arte oratoria l'aveva non solo studiata, ma anche insegnata.

«Non vorrei derubarvi del vostro tempo, e il vostro rapporto con Lorenzo è...»

Poliziano si posò le mani in grembo e intrecciò le dita.

«Non siamo ancora ai ferri corti, non temere».

«D'accordo, allora».

*

1478, 10 maggio.
Giorno di Beatrice d'Este.

Di tutti i luoghi in cui Ezio s'era infiltrato, l'università era quello in cui s'era sentito più fuori posto. Dopo aver percorso nemmeno metà di un corridoio dagli alti soffitti, dalle cui pareti lo osservavano filosofi dallo sguardo eccelso, si era risolto a tornare indietro e ad attendere Poliziano nella corte esterna.

Costretto a rimanere con sé stesso, in un silenzio solo raramente spezzato da richiami di persone o d'uccelli, il giovane Assassino si guardò i piedi e sospirò. Non aveva più avuto nessuna notizia di Leonardo.

I suoi occhi si inerpicarono lungo l'alta figura di marmo che aveva di fronte, e tentarono di trovare tra le pieghe della sua toga risposte invisibili. Era un uomo calvo che teneva, con fare austero, un libro nella mano destra. S'era tormentato durante le notti, aveva spinto il cavallo fin dove scompariva il torrente, ma Leonardo non era mai svanito dai suoi pensieri. Non era scomparso il terrore che gli paralizzava le membra quando immaginava la sua voce che gli confessava di amare un altro; non si era spento il desiderio bruciante di vederlo inginocchiato tra le proprie cosce.

«Stai contemplando la tacita maestosità di Seneca?»

Ezio trasalì. Si voltò e vide Poliziano, vestito di nero con un bel colletto di pizzo bianco, che osservava la statua con le mani dietro la schiena.

«Voi lo fate spesso?» replicò.

Il poeta di corte, come era sua abitudine, spinse all'infuori il labbro inferiore e inclinò il capo, con le sopracciglia alzate come per aggiungere un sottinteso.

«Ogni tanto,» disse.

Aveva una gestualità molto aggraziata, studiata alla perfezione. Ezio sapeva di essere più bello di lui, ma a confronto si sentiva un burattino abbozzato nel legno.

«Non avrei saputo chi fosse, se non me lo aveste detto voi».

Con una breve risata, Poliziano gli batté piano le nocche contro il petto.

«Dovresti studiare il latino,» gli suggerì. «Andiamo».

All'interno del palazzo dei Medici, tutti salutavano Poliziano; qualcuno lo guardava di sottecchi dopo che era passato. Ezio si limitava a seguire la sua camminata sicura attraverso stanze che sarebbero state interdette a chiunque altro.

«Sono Angelo,» disse il poeta, dopo aver bussato alla porta dello studiolo di Lorenzo. «Il Magnifico può ricevermi?»

Era difficile dire se certe frasi di Poliziano fossero solo scherzose o nascondessero del veleno. A Ezio in qualche modo dispiaceva che i rapporti tra lui e Lorenzo si fossero raffreddati. Certo, non conosceva tutti i risvolti, ma per quello che aveva visto non avrebbe saputo da che parte stare. Poliziano era difficile da gestire: era superbo e irascibile, ed era stato irrispettoso nei confronti del suo mecenate. Tuttavia, nemmeno lui era guidato dal rispetto per l'autorità.

«Prego, entra».

L'Assassino si premette le dita sulle palpebre e scosse la testa. Non erano fatti suoi.

Nell'entrare nello studiolo, il suo sguardo si spostò da Poliziano, il cui volto fu attraversato da un rapido sorriso, a Lorenzo. Seduto a una scrivania con atteggiamento rilassato, il signore sembrava essere intento allo studio di qualche manoscritto. Non appena si accorse della sua presenza, gli rivolse un'espressione benevola.

«Oh, Ezio,» cominciò a dire, «cosa ti porta qui?»

«L'ho portato con me poiché intendeva parlarti di un certo editore,» intervenne Poliziano, «che tu gli hai...»

«Credo che il nostro amico abbia ancora la facoltà di favella, Angelo,» lo sgridò Lorenzo, pur con le labbra tirate in un sorriso e senza inflessione crudele nella voce.

Il poeta alzò le mani e si scusò, per poi dirigersi verso la porta e chiuderla, in modo da far intendere l'entità della situazione.

«I miei omaggi, mio signore,» principiò Ezio, chinando lievemente il capo. Lorenzo ricambiò, senza che i capelli ben acconciati risentissero in alcun modo di quel gesto. «È come vi stava dicendo messer Poliziano: sono venuto a sapere da lui che l'uomo che mi avete detto di eliminare...» non usò perifrasi e si voltò per un istante verso Angelo, sperando di coglierne una reazione. Lui però, impassibile, guardava da un'altra parte. «È qualcuno di importante legato all'ambiente degli stampatori, e farebbe piuttosto rumore se scomparisse da un giorno all'altro».

Lorenzo sollevò le sopracciglia e portò le dita giunte al mento.

«Davvero?»

Poliziano si sedette sulla sedia imbottita davanti alla scrivania.

«Claudio Cogni, è l'uomo che – ah,» le vertebre del suo collo, che aveva inclinato a sinistra, innalzarono un lamento schioccante, e lui fece una smorfia. «Possiede il privilegio per la stampa di testi liturgici in città. So che è legato a Rodrigo Borgia».

«Perché non me l'hai detto prima?»

«Perché non sono informato su tutti gli ordini che dirami,» gli rispose con semplicità Poliziano.

Lorenzo gli concesse con un cenno che aveva ragione.

«Rodrigo Borgia...» rispose. «Che le radici della congiura siano penetrate così a fondo che anche a Roma...»

«Non vedo perché no,» lo interruppe il poeta, «alcune piste ci hanno portato nel Montefeltro».

«ll Montefeltro non è Roma».

«Ma non ne è mica tanto lontano. E chissà quant'altro male, lì o a Roma o nella nostra città, queste questioni irrisolte stanno portando, e quanto bene recheremo se le concludiamo».

«Ezio, tu che sei qui in buona fede mi scuserai per la parentesi. Mi sembra un progetto ambizioso, Angelo, per un uomo che ogni sera fugge da palazzo e cerca di mischiarsi al popolo,» osservò Lorenzo. «Come mai ora mi rifiuti e ora sei così interessato alle congiure?»

«Quidquid delirant reges, plectuntur Achivi,» replicò Poliziano con un sorriso astuto. Lorenzo si zittì.

Nonostante Ezio non avesse capito quell'ultima frase, dall'effetto sortito la giudicò intelligente.

«Poliziano, avete parlato di un registro dove sono annotati i privilegi,» intervenne, dopo aver fatto un passo avanti. Sperava che gli animi non si scaldassero ulteriormente. «Dov'è custodito?»

Angelo fece un cenno con la mano verso Lorenzo, come a indicarlo, prima di rigirargli la domanda: «Dov'è custodito?»

«Non qui. Si deve fare domanda al Comune. Ma sappiate che non ho il potere di ritirare un privilegio di stampa così rapidamente».

«Infatti vogliamo falsificarlo,» replicò il poeta con un'alzata di spalle. L'estrema naturalezza delle sue parole fece assumere al viso di Lorenzo una sfumatura grigiastra. «S'è pensato che qualora, durante le indagini, non venisse fuori nessun documento che attesta il suo presunto privilegio, la sua sparizione potrebbe essere fatta... passare sotto silenzio. Andrò io al comune a richiederlo: dovrò pure poter scegliere da chi far pubblicare le mie poesie».

«Ma Angelo, ragiona!» sbottò il signore di Firenze. «Oltre a falsificare l'atto, Ezio dovrebbe trovarne tutte le copie e bruciarle. E posto che ci riesca, com'è possibile che nessuno si faccia avanti scoprendo che da un giorno all'altro il Cogni non ha più il privilegio di stampa?»

«Oh, mio signore». Poliziano sorrise e scosse la testa quasi come se si stesse rivolgendo a un bambino, «Te non hai la minima idea delle nefandezze che un uomo può compiere per un libro, figuriamoci per il privilegio di stamparli tutti. Dopo aver visto cosa succede all'Accademia, ti assicuro che il fatto che il Cogni svanisca dai registri non solo sarà accolto con la più completa omertà, ma anche con gioia».

«Stai proponendo di pungolare Borgia con un bastone. Ne sei consapevole, vero?»

Poliziano allargò le braccia e appoggiò i dorsi delle mani aperte sulla scrivania.

«Se il Borgia vuole,» ribatté, «allora venga qua ad accusarci che abbiamo ucciso l'uomo che lui aveva mandato ad ammazzarti».

Conclusa la sua peroratio, Poliziano tacque. Dopo qualche istante di riflessione, Lorenzo sospirò.

«D'accordo, avete il mio benestare,» concluse. Li guardò entrambi, poi si soffermò in particolare su Poliziano. «Ma vi raccomando la massima discrezione in quello che andrete a fare».

«Oh, io devo solo richiedere il registro».

«Non vi deluderò, signore,» aggiunse la voce di Ezio.

Il ragazzo sorrise: aveva capito che non si sarebbe trattato di un compito facile, ma aveva dalla sua parte i migliori. I più intelligenti, i più furbi e i più geniali di Firenze.

E soprattutto aveva una sorella ingegnosa e determinata che di registri s'intendeva e che, in nome dell'amore e del rispetto reciproco che scorreva nelle loro vene, non gli avrebbe mai negato il suo aiuto.

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