Capitolo IV
Entrai nell’ufficio e mi guardai intorno. Era deserto, non c’era nemmeno Marina alla reception.
Era lunedì mattina, il mio primo giorno di lavoro. Avevo messo gli stessi vestiti del colloquio con l’unica differenza che quel giorno avevo legato i miei capelli mossi e ribelli in una treccia laterale che mi arrivava al seno.
- Sono in ufficio! – esclamò la voce del grande capo in fondo al corridoio.
Mi diressi da quella parte a passo svelto e guardai gli altri uffici, erano tutti vuoti. Ma c’era qualcuno a lavorare in quel posto? Probabilmente era troppo presto per tutti. L’orario di lavoro iniziava alla 9, era il capo ad avere qualche problema e aveva deciso di crearli anche a me.
- Buongiorno signor Torres – salutai entrando nell’ufficio.
Era di spalle, con le mani poggiate sulla scrivania.
- Buongiorno – borbottò – Chiamami Sean. Dalla tua bocca esce come se fossi un vecchio, il mio cognome vicino a signore intendo –
Non potei fare a meno di pensare a quello che avevano detto le mie amiche, probabilmente ero stata proprio io a dare quella sensazione.
Si voltò e per poco non mi misi ad urlare.
Portava la camicia sbottonata, lasciando scoperto il suo corpo statuario e abbronzato. Potevo contare gli addominali che aveva sull’addome senza problemi.
Evidentemente passava il suo tempo tra ufficio e palestra.
Ma la vera domanda era: per quale razza di motivo era mezzo nudo?
Lo indicai, scioccata.
- Che diavolo stai facendo? Copriti! – esclamai.
Lui sbuffò sonoramente e si abbottonò la camicia.
Sospirai e mi guardai intorno, stupita. Aveva sistemato tutto, anche se probabilmente era opera di Marina e non la sua.
Si sedette alla scrivania e mi allungò una pila di fogli. Mi sedetti e notai che erano dei fascicoli fermati da una spillatrice. Diedi un’occhiata a quello che avevo in mano e notai che si trattava di racconti inediti.
- Cosa dobbiamo fare? – chiesi.
Se non mi diceva che cosa voleva da me non potevo entrare nella sua testa per scoprirlo.
- Bisogna leggere queste storie, racconti o come vuoi chiamarli per una classifica – mi disse.
- Non per fare l’ignorante ma mi devi spiegare il tipo di lavoro che ti serve –
Lui sbuffò e mi fulminò. Sostenni il suo sguardo e si arrese, capendo che avevo ragione io.
Aprì un cassetto e mi diede un volantino. Si trattava di un concorso indetto dalla casa editrice per dare la possibilità a scrittori emergenti e sconosciuti di pubblicare le loro storie. C’era un regolamento da rispettare e dei criteri da seguire per far si che le storie venissero classificate. La data di scadenza per gli scrittori era tra una settimana, dopodiché non avrebbero potuto mandare più le loro opere.
Dal plico di fogli che avevo di fronte capii che le storie inviate erano già parecchie.
- Perché non cominci a darmi il foglio del regolamento così vedo di cominciare a escludere qualcosa – dissi – Ah e dovrò farlo da sola? –
Sean si alzò e si mise a trafficare su uno scaffale, prese quattro fogli legati tra loro e me li diede.
- Il regolamento e si – disse – Qui non siamo in tanti. Ci sono io, Marina che si occupa degli appuntamenti e i miei sbalzi d’umore, tu, un ragazzo che si occupa della grafica e delle copertine e una donna che si occupa delle relazioni tra casa editrice e scrittori. Io mi occupo di tutto il resto praticamente. Me la cavo con la correzione delle bozze ma solo se mi viene data una mano, non ho una laurea in lettere e preferisco i numeri alle parole. Prima mi davano una mano da un altro ufficio ma da quando questo è stato aperto ufficialmente me la devo vedere io per quanto riguarda questo ufficio – si fermò per farmi assimilare le sue parole.
Era vicino a me, poggiato alla scrivania con le caviglie incrociate.
- Con i corsi che hai fatto, tu sei l’unica che può fare la correzione delle bozze – disse – Escludi quelle pessime e che secondo te non hanno speranze per il concorso, poi decideremo insieme quali classificare e quali no -
Battei le palpebre.
Sean sapeva il fatto suo alla fine, mi aveva appena affidato un compito impegnativo senza battere ciglio. Aveva ammesso che non era il suo forte e mi stava chiedendo aiuto, senza farsi problemi.
- Sei qui per questo no? – mi chiese alzando un sopracciglio.
L’aveva fatto di nuovo!
- Si sono qui per questo – dissi con un sospiro.
Alla fine aveva colto nel segno, aveva capito qual era il motivo per cui ero lì. Anche se con la mia laurea avrei potuto benissimo occuparmi della grafica lì dentro, aveva colto perfettamente che non ero lì per disegnare. Sul mio curriculum c’era solo un accenno delle mie intenzioni ma…quando gli avevo detto dei corsi aveva capito subito e non aveva esitato a darmi un compito che secondo lui potevo fare benissimo.
E stranamente non volevo deludere la fiducia che stava rimponendo in me in quel momento.
- Bene…hai capito quello che devi fare – disse riscuotendomi dai miei pensieri.
Annuii e mi alzai.
- Si ma mi serve un posto in cui potermi muovermi tranquillamente – dissi.
Sean annuì.
- Il tuo ufficio è quello di fronte al mio, ti aiuto a sistemarti –
Detto questo prese metà del plico e uscì dall’ufficio per entrare in quello che sarebbe stato il mio.
Presi il resto dei fogli e lo seguii.
L’ufficio aveva la porta di vetro, le pareti erano bianche, così come la scrivania e lo scaffale sul lato, solo la poltrona era nera, in pelle e c’era anche un computer. Alle spalle della scrivania c’era una finestra che dava sulla piazza.
Sean poggiò i fogli sulla scrivania e io feci lo stesso.
- Senti ma… - feci.
- Cosa? –
- Mi hai fatto venire alle 8 per affidarmi il mio lavoro. Non era uguale se venivo alle 9? – chiesi non riuscendo a trattenermi.
Si passò una mano tra i capelli e scrollò le spalle.
- Non ti ho fatto venire alle 8 per questo ma perché non ho fatto colazione e non mi andava di farla da solo – rispose.
- Aspetta cosa? – chiesi stupita.
Lui annuì.
- Poggia le tue cose e porta il tuo bel culetto fuori da qui – disse.
Poi uscì dal mio studio e io rimasi paralizzata e scioccata.
- Martina muoviti! – esclamò dal fondo del corridoio.
Era ufficiale, quel tipo aveva dei seri problemi.
***
Seri problemi o no non mi era rimasto altro che assecondarlo e alla fine mi aveva trascinata al bar di fronte al palazzo della casa editrice. La sua occhiata era stata abbastanza eloquente quando era rientrato nel mio ufficio e mi aveva trovata seduta a fare il mio lavoro. Era bastata quell’occhiata e non era stato nemmeno necessario che dicesse “o ti alzi o ti licenzio” ero scattata come una molla e avevo ubbidito.
Per quanto mi riguardava quello era sfruttamento di potere ma da quello che avevo capito al grande capo non importa un emerito nulla di quello che facevo.
- Che cosa ti ha spinta a voler lavorare in una casa editrice – mi chiese mentre beveva il suo cappuccino.
- Passione – risposi.
- Non si lavora per passione – disse scettico.
Che tu possa strozzarti con quel dannato cappuccino!
- Lo so ma se riesco a far coincidere le cose meglio per me – risposi facendo un sospiro.
- E se non ti avrei assunta che cosa avresti fatto? –
- Mi sarei trovata un altro lavoro – risposi prontamente – Invece come sei finito tu a fare il direttore di una cosa che non ti piace? –
Lui si strinse nelle spalle.
- Ho studiato marketing e sviluppo, comunque ho una laurea in editoria e direttore d’azienda – mi spiegò – Il mio intendo era creare qualcosa di mio, non dirigere l’azienda di famiglia ma per ora non ho scelta e comunque vale come esperienza –
Mi ritrovai costretta ad annuire. Aveva ragione sulla cosa dell’esperienza ed era anche vero che, per quanto fosse stronzo, sembrava intenzionato a portare avanti la casa editrice.
- Sai che qui hanno una mentalità non proprio alle stelle vero? Non è così facile per una cittadina che vive di turismo – spiegai – Dovremmo ritenerci soddisfatti solo per il fatto di averci una libreria qui –
- Mio zio mi ha detto qualcosa – disse – Secondo te perché ho scelto proprio questo posto per aprire una casa editrice? –
Era una domanda retorica la sua e notai il sorriso diabolico che gli incurvò le labbra. Mi venne un brivido. Continuavo ad essere sempre più convinta che avesse un problema serio e bello grosso.
Cioè mi stava dicendo che aveva deciso di aprire lì a Todi proprio perché voleva fallire nel suo lavoro?
- No scema – mi disse brusco – Aprire qui è una sfida per me, ho intenzione di cambiare il modo di pensare di questa gente –
E nel mentre lo diceva indicò intorno a sé persone a caso.
Sbattei le palpebre.
Era pure telepatico…
Lui mi fulminò e si fregò un pezzo del mio cornetto.
- Le tue espressioni parlano per te ragazza –
Sbuffai.
- Non cambia il fatto che secondo me non sei normale – dissi.
Mi maledissi mentalmente per la mia boccaccia.
- Cos’ho di anormale? –
Tante cose, avrei voluto rispondergli ma mi trattenni. Dovevo seriamente smetterla di dare voce ai miei pensieri soprattutto quello che mi stava sfiorando la mente in quel momento. Continuavo ad essere convinta che a Sean piaceva essere insultato ed ero super convinta che fosse masochista. Chissà perché, la cosa invece di farmi sentire strana e preoccuparmi del tipo che avevo davanti, mi eccitava.
Ritenevo di non essere normale nemmeno io ma non avrei detto al mio capo ciò che pensavo di lui e che la cosa mi piaceva pure.
Lui mi fissò con quei suoi occhi di ghiaccio, in attesa.
- Sto aspettando – disse.
- Ma anche no – risposi – Ci tengo a questo lavoro Signor Torres –
Sean aprì la bocca, probabilmente per ribattere al fatto di averlo chiamato come mi aveva detto di non chiamarlo, ma non gli diedi il tempo di fare nulla perché mi lanciai letteralmente sotto il tavolo, cercando di nascondermi dietro la tovaglia.
Un attimo dopo Sean si abbassò e mi guardò in modo strano.
- Si può sapere che cavolo stai facendo? – mi chiese leggermente scioccato.
E adesso come glielo dicevo dell’idea che si erano fatte le mie amiche di lui? E che proprio le mie amiche stavano passando davanti la vetrina del bar in quel momento.
- Torna su – gli dissi – Fa finta che non ci sono –
- Penso che sarà difficile – rispose – Stai facendo la figura della scema –
Mi sentii andare il volto a fuoco. Non avevo pensato alla presenza delle altre persone nel bar.
- Ci sono le mie amiche qui fuori – dissi.
Lui si alzò e io tirai un sospiro di sollievo, ma dopo un attimo tornò giù.
- E con questo? Non sembrano delle arpie –
- Credono che tu sia un vecchietto dolcissimo e gentilissimo e carinissimo – sbottai.
Non riuscivo a crederci che gliel’avevo detto!
Sean si rimise dritto e scoppiò a ridere. Bè io ero nascosta sotto un tavolo e lui rideva da solo, non potevo immaginare che cosa stava pensando la gente. Non mi sarei fatta più vedere in giro!
- Facciamo un patto – disse.
Per fortuna era rimasto sopra. Anche se adesso sembrava che stesse parlando da solo.
- Cioè? – borbottai.
- Io non faccio venire qui le tue amiche, ah e poi mi spieghi anche perché non vuoi farti vedere sono io quello messo male qua, e tu mi dici che cosa ti fa pensare perché non sono normale – disse – Hai cinque secondi –
Gonfiai le guance anche se non poteva vedermi e lo insultai mentalmente. Ma tanto ormai mi ero rovinata la reputazione quindi…
- Penso che tu sia masochista – dissi – Lo penso sul serio –
Non mi rispose. A quel punto fui sicura al cento per cento che avrei perso il lavoro che non avevo nemmeno ottenuto.
- Non hai torto – mi disse invece, dopo poco – Penso di esserlo davvero, o almeno è così che mi hanno detto –
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