02 - La mia sinfonia incompiuta
"Non sarebbe mai dovuta cominciare".
Un bottone.
Milioni di esplosioni.
Incredibile che un oggetto grande qualche centimetro potesse fare scomparire un intero paese nel giro di qualche secondo, ma a quanto pare era possibile.
Sentì in lontananza qualcuno che gli urlava, probabilmente era Philza, il suo arrivo era stato inaspettato, ma forse poteva piegarlo a suo favore, per qualche secondo aveva perfino temuto di non riuscire a fare tutto ciò.
Alla fine di tutto, probabilmente quel bastardo di Schlatt aveva ragione, stava per finire tutto, qualsiasi cosa fosse successa.
Adesso lui doveva solo scappare, dopo, tempo qualche anno e sarebbe potuto tornare lì con un'altra identità, doveva solo stare attento a Phil, ma lui avrebbe di sicuro capito, Tommy avrebbe sentito la sua mancanza, ma prima o poi sarebbe andato avanti.
"Will, lo hai fatto davvero?", Phil stava guardando il paesaggio che gli si cominciava a presentare davanti, la polvere che si posava inesorabile sul terreno, la stanza ormai scoperta verso a ciò che rimaneva del paese ormai distrutto, lacrime scendevano dagli occhi del padre, lacrime amare di chi sapeva di aver fallito, e di chi sapeva che avrebbe potuto fare qualcosa per impedirlo.
Wilbur si portò una mano alla fronte, l'ultimo saluto militare a quel paese che esplodeva, poteva sentire le grida dei migliaglia di soldati che avevano combattuto per la loro patria, traditi da uno dei loro generali, ma era così che doveva finire.
"LA MIA L'MANBERG PHIL, LA MIA SINFONIA INCOMPIUTA, PER SEMPRE INCOMPIUTA! SE NON POSSO AVERLA NON CE L'AVRÀ NESSUNO PHIL!".
Dentro di lui non sentiva più niente, aveva già estratto la spada, pronto a scappare, quando li vide.
Tutti lo guardavano, persone con le lacrime agli occhi, corpi che si contorcevano a terra, chi andava a toccare le macerie delle case, piangendo i suoi averi, chi cercava di soccorrere i feriti, chi crollava a terra dal dolore, chi continuava combattere senza sapere più che fare, chi, semplicemente, si conficcava una spada nel petto perché aveva appena perso tutto.
Almeno avevano evacuato la città, i civili non erano dovuti morire, anche se molto probabilmente Wilbur avrebbe premuto comunque quel bottone.
Poi arrivò lo sguardo decisivo: Tommy, Tommy stava guardando Wilbur senza capire, il cuore spezzato, le lacrime che si riversavano come fiumi sulle sue guance, gli urlava qualcosa, Tubbo lo teneva fermo, cercando di non far cadere il suo amico nel vuoto che separava lui dal suo generale, la rabbia del ragazzo era così forte da distruggere qualsiasi altra cosa, da distruggere qualsiasi piano, qualsiasi sicurezza.
Una lacrima scese sul volto di Wilbur, cosa aveva fatto? Che cosa aveva appena fatto?
Non era rimpianto, se l'occasione si fosse ripresentata, avrebbe comunque premuto con forza quel bottone, ma faceva male, faceva troppo male, stavano soffrendo, lui non voleva questo, voleva solo ricominciare tutto, senza pesi sulla schiena, ma adesso un peso c'era, e non era uno di quei pesi che buttavi via scrollando le spalle, era uno di quei pesi che ti si incollava addosso e non se ne andava.
Aveva vinto, solo lui, ma faceva male comunque.
"Will?", sentì Philza che lo chiamava, la voce spezzata dalla tristezza, si appoggiava ai muri rimasti della stanza, come a sorreggersi.
Wilbur capì cosa doveva fare.
Non voleva, ma doveva.
"Phil, uccidimi", guardò suo padre sgranare gli occhi quando Wilbur gli butto la spada ai piedi, "Uccidimi Phil!".
Il dolore era troppo grande, la morte avrebbe portato pace, finalmente, magari avrebbero odiato ciò che sarebbe rimasto di lui, ma Wilbur non l'avrebbe mai saputo, sarebbe morto ed il nulla lo avrebbe accolto.
Philza raccolse lentamente la spada da terra, guardando la lama con occhi spalancati, come se non avesse mai visto prima un oggetto del genere.
"Uccidimi", lo suppliccò Wilbur, lo sguardo ben lontano dal guardare le persone al di fuori della stanza, non riusciva ad incontrare i loro sguardi distrutti, le loro espressione tradite.
"Ma- ma sei mio figlio!", urlò Philza, le ali che si spiegavano come per proteggersi, la spada che si allontanava dal corpo di suo figlio, non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere.
"Guarda, guarda!" gli urlò Wilbur indicando le persone che lo fissavano, gli sguardi arrabbiati o persi, non poteva vivere con tutto questo. "Fallo", gli sussurò questa volta, l'ultimo desiderio di un figlio che aveva sbagliato tutto nella sua vita.
Sentì qualcosa stracciargli la pelle del petto; sentì le mani di suo padre che si stringevano attorno ad il suo corpo, nella sua testa balenò per un secondo l'immagine di suo padre, poi più niente.
------
La prima cosa che sentì fu un fortissimo impatto, poi per qualche secondo rimase accasciato sul terreno, gli occhi chiusi e la bocca spalancata che cercava di prendere fiato.
La mani tremavano mentre tastavano il petto per un motivo che non gli appariva neanche molto chiaro, sapeva solo che era appena successo qualcosa di molto importante.
Dove diavolo si trovava?
Spalancò gli occhi in velocità, guardando il luogo dove si trovava, era in una galleria, era sdraiato su delle rotaie, non c'era nessun tipo di illuminazione, anche se si riusciva a vedere per qualche metro.
"C-cosa?", disse alzandosi per poi ricadere subito a carponi sul terreno, c'era qualcosa di opprimente in quel posto, non riusciva neanche a stare in piedi, il suo cervello sembrava ondeggiare dentro il suo cranio.
Fece del suo meglio per inginocchiarsi a terra, le mani che scavavano nel terreno sotto le rotaie, perché era lì? Per quale motivo era perso in mezzo ad una galleria? Chi ce l'aveva portato? Cosa aveva la sua testa?
Deglutì con forza per poi alzare stremato la testa, delle lunghissime rotaie si perdevano nel buio in avanti, dietro di lui: la stessa cosa; ai lati delle rotaie c'erano delle alte pareti, come pure sopra di lui, era in una galleria, non si vedeva alcuna stazione, solo delle rotaie che sembravano continuare all'infinito.
"C'è qualcuno?", disse debolmente lui, le orecchie che cominciavano a fischiare, la vista che si appannava, che cosa succedeva? Provò ad alzarsi con uno scatto, ma qualcosa lo costrinse a lasciarsi ricadere a terra stremato, la testa aveva cominciato a pulsare con forza.
Cercò di strisciare verso una delle pareti per riuscire ad appoggiarcisi e camminare, magari trovando un posto migliore, ma più si avvicinava al lato della galleria, più la sua testa si faceva pesante.
Quando allungò una mano al muro, la sua pelle si scontrò con la fredda parete di pietra, così fredda da bruciargli la pelle, gridò di dolore ritraendo la mano, poi l'oppressione alla testa si fece troppo forte, e crollò a terra svenuto.
"Troppo debole", sussurrò qualcuno con tono sprezzante, la mano stretta sulla giacca di Wilbur mentre lo trascinava esamine per la galleria, "Quel bastardo aveva detto che questa prospettiva sarebbe stata perfetta per lui", diede uno strattone più forte all'uomo che si trascinava dietro con facilità, dopo quel gesto un gemito uscì dalla bocca di Wilbur.
Lasciò sprezzante l'uomo a terra, la testa esamine poggiata sulle rotaie sporche, dopodiché spari nel nulla, lasciando solo una leggera brezza nell'aria, che sapeva di menta e sangue.
Wilbur aprì gli occhi, la testa che non pulsava più, alla sua destra, la galleria si apriva in una fermata, o almeno così sembrava, sarebbe potuta essere qualsiasi cosa.
L'uomo si alzò stremato, issandosi sul terreno sopra di lui, dove si trovava la fermata, e sdraiandosi, guardando le luci traballanti della stazione.
"Wilbur?".
Schlatt era seduto al suo tavolo, perso in mezzo al nero infinito, una bottiglia vuota in mano, aspettava solo che si riempisse, per riuscire ad appagare nuovamente la sua sete.
Aveva appena visto Wilbur emergere dal suo terreno nero, tirandosi su come uscendo da una pozza di petrolio.
Wilbur invece guardava con occhi spalancati l'altro uomo, che sostava su una panchina, come ad aspettare un treno, nella mano stringeva una bottiglia vuota.
Si alzò e corse verso Schlatt, prendendo per il colletto e scaraventandolo con forza giù dalla panchina, poi lo inchiodò a terra, il volto contratto dall'odio e dalla rabbia.
Dall'altra parte, Wilbur aveva appena lanciato Schlatt giù dal suo tavolo, schiacciandolo contro il terreno nero, che Schlatt aveva soprannominato: petrolio.
"Cosa ci fai qui? Tu sei morto!", gli ringhiò contro Wilbur, spingendo la testa dell'altro contro il pavimento duro della fermata, come a spaccargli la testa contro la sporca pietra
Schlatt agitò freneticamente le braccia in aria, steso sopra al suo nero infinito, rise teso a terra, le pupille grandi per il troppo alcol, "Ma io sono morto Wilbur, e se sei-sei qui, sei morto anche tu!", continuò a ridere, cercando con le braccia la bottiglia che gli era sfuggita di mano.
Wilbur lasciò la maglia di Schlatt, lui non era morto, non era morto, non era-.
Immagini gli passarono davanti agli occhi: una bandiera, una spada, sangue, del tritolo, un bottone, una spada-.
Crollò a terra stringendosi il petto, Schlatt era strisciato verso la sua bottiglia, che era nuovamente piena, si sedette sul suo tavolo sopra al petrolio.
Seduto sopra la panchina, da ciò che vedeva Wilbur, ma non gli importava, non più, quel bastardo poteva aspettare la sua rabbia, la sua vendetta, stava mentendo.
"Non sono morto!", gridò, proprio nel momento in cui nella sua testa la spada di Phil si conficcava nel suo petto, "NO", grido ricadendo carponi a terra, "Io volevo solo la pace per me stesso", disse battendo la mano con forza sul pavimento, come a risvegliarsi, nessun dolore arrivò alla sua pelle.
"Che dire", disse Schlatt con un sorrisetto divertito, appoggiò la bottiglia mezza vuota sul tavolo (o sulla panchina), soppesando con lo sguardo il nuovo arrivato, "Fattene una ragione".
Aveva passato tutto quel tempo a bere, prima che arrivasse Wilbur, ogni volta che era abbastanza lucido da pensare ad un modo per scappare, la bottiglia si riempiva, ogni volta che i suoi ricordi erano troppo dolorosi, la bottiglia si riempiva, ogni volta che non aveva sete, la bottiglia si riempiva, ogni volta che sbatteva le palpebre, la bottiglia si riempiva.
Non era riuscito a combattere contro tutto ciò neanche una volta.
Ma non se ne era fatto una ragione, a volte, in quel nero infinito, crollava a terra, cercando un modo per sparire in quel nero, che sembrava così tanto petrolio, aveva scoperto di potercisi anche specchiare, anche se la sostanza era troppo densa, il volto che vedeva era quello di un alcolizzato, allora si tirava la bottiglia addosso, rompendo il suo vetro, ma senza danneggiare la sua pelle.
Neanche due secondi dopo, una nuova bottiglia lo aspettava al tavolo.
"Smettila!", Wilbur si rialzò e gli si scagliò addosso, facendoli cadere di nuovo entrambi a terra, "SMETTILA".
Schlatt lo guardava con noia, o forse non capiva neanche cosa stesse succedendo, "Senti giovanotto", disse scontando le mani di Wilbur dalla sua gola, "Vedi di smetterla".
Si guardarono negli occhi per un lungo silenzio, Schlatt appoggiato al suo nero, al suo petrolio, accanto al suo tavolo e alla sua sedia; Wilbur inginocchiato sopra di lui, le mani che picchiavano sulla sua pietra, il viso illuminato dalle sue luci tremolanti, le sue rotaie che giacevano a destra, sotto di lui.
Guardò stupito Schlatt alzarsi ed andare a sedersi ancora una volta, recuperando la bottiglia e bevendone un lungo sorso; Wilbur non poté fare altro che rannicchiarsi a terra, la testa in totale subbuglio.
-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+-+
YOOOOOO.
Nuovo capitolo.
Spero vi sia piaciuto.
Mi fate un grande piacere se commentate e votate.
:]
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro