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Capitolo 5

Avete presente quella vocina fastidiosa, stile Hermione Granger, che quando la prof di matematica ti chiama alla lavagna interrogato ti sussurra nell’orecchio: “Te l’avevo detto che oggi toccava a te?”

Ecco, la mia vocina in quei giorni si stava divertendo un casino a rinfacciarmi che ero stato un idiota.

<<Lily…>>

Douh, che voce orribile… un naso spaccato non dona a nessuno, figuratevi a me, che sono fragile di natura.

<<Lily, non ce la faccio più…>> Mugugnai voltandomi verso la fonte di calore che l’unico amore della mia vita in quel momento mi trasmetteva, standomi semplicemente accanto in silenzio.

<<La mia vita fa schifo… più del solito si intende. Mi hanno pestato quattro volte questa settimana, e sono solo passati tre giorni dal colloquio con il principino, possibile che tutti gli sciacalli della scuola siano più informati di Barbara D’Urso davanti ad uno scoop sui gattini abbandonati in un vicolo?>>

Non avessi mai detto la parola magica.

<<Miaw?>> Un leggero miagolio venne dalla mia compagna di stanza, oramai completamente sveglia, che mi fissava con quegli occhi grigio piombo che tanto mi ricordavano quelli di chi prima mi aveva salvato dal baratro e che poi aveva deciso di rigettarmici con tanto di dopobarba alla menta impresso a fuoco sulla pelle.

<<<Nulla nulla…>> Mormorai dolorante dopo essermi rivoltato su me stesso, con grande disappunto della gatta tigrata che se ne stava tranquillamente accoccolata al mio fianco <<Io vado a vedere se mamma ha lasciato qualcosa in frigo, eh? Sperando che quello stronzo non abbia finito tutto un’altra volta…>> Borbottai infine, stirandomi le braccia piene di lividi violacei.


<<Non… ti giuro, mi dispiace.>>

Mi dispiace.

Due semplici parole che avevo sentito spesso in questi due anni di inferno, mentre le persone si allontanavano da me, con i loro sorrisetti falsi, quasi dispiaciuti e sollevati assieme, dal fatto che quella cosa che aveva distrutto la mia bellissima vita non fosse capitata a loro.

<<Non fa nulla Armin.>> Sospirai distrutto, sfiorando i solchi che erano stati incisi di recente sul mio bellissimo banco proveniente direttamente dall’anteguerra.

“FROCIO” “MUORI”  “VATTENE VIA”

Erano solo un decimo delle minacce miste ad insulti che ornavano la mia postazione, ricordandomi ciò che ero. Carne da macello.

<<Dovresti… fare qualcosa… non saprei…>> Tentò di sussurrare il mio caro vecchio compagno di classe, che per quanto mi conoscesse da poche settimane stava rischiando non poco la vita per parlarmi.

<<Sono cose che capitano>>

Che potevo dire? Che cosa si può mai dire in questi casi?
Qualcosa tipo “Mi dispiace per ciò che sono?” “Sono stato un’idiota a perdere quella protezione?”
O forse qualcosa tipo “Tanto prima o poi quella protezione l’avrei persa comunque.”

<<Non sono cose che capitano>> Mi disse ad un certo punto della lezione i biondo, facendomi stupire e sobbalzare sotto gli occhi svogliati della prof. <<Prima o poi finirà male per qualcuno, bisogna solo sapere per chi.>>

Frenate le lacrime da premio nobel dopo questo discorso toccante, considerato che non le ho versate nemmeno io, e vi giuro, provare a non versare lacrime mentre vi spengono delle sigarette accese sulla schiena è dura.

Quest'intervento già dall’inizio non mi sembrava fondato, lo ammetto, anzi, pensandoci per tutta la notte l’avevo oramai bollato come una stupida frase fatta, sino all’alba del giorno dopo, quando si sono sentite le bidelle bestemmiare in turco fino all’istituto vicino.

<<Ma cosa cazzo->>

Ero scioccato, lo ammetto, e quasi non riuscivo a parlare.

Dopo aver subito per più di una settimana le pene dell'inferno anche voi avreste reagito così, credetemi.

Il mio banco era completamente ridipinto di colori arcobaleno, come un piccolo murales in miniatura, che quasi faceva paura a sfiorarlo.

Nessuno si sapeva spiegare da dove diavolo venisse quel piccolo pezzo d’arte contemporanea, ma io lo sapevo che quello era il mio ex banco rovinato, deturpato da quegli orrendi solchi che se passavo sulla vernice multicolor potevo ancora sentire, meno profondi, sotto i polpastrelli.

<<Te lo avevo detto>> Mormorò sornione il mio compagno di banco, mentre sistemava i libri su proprio di banco, intonso tranne che per delle incisioni fatte forse dieci anni prima. <<L’Artista ha già fatto un’opera del genere l’anno scorso, e tu eri una nuova “Tela” che non poteva sprecare>> Concluse mentre la professoressa della prima ora, sotto il mio sguardo sconvolto, iniziava a fare lezione come se nulla fosse.

Come se uno studente non avesse una piccola opera d’arte sul banco, come se un paio di occhi grigi non fissassero la schiena di un semplice studente un po' diverso facendogli battere il cuore a mille dopo mesi di odio.

*spazio me*
Hello :3 lasciate un commentino se vi è piaciuta la storia, solo per sapere se la devo continuare o no.
Shiro_

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