Capitolo tredici || "sei davvero insopportabile!"
«No, non vi preoccupate» un flebile vocio uscì dalla bocca della ragazza, seguito da un sorriso sincero. Gli occhi di quella che ormai sapeva essere Catherine incrociarono quelli di Arthur. Lei era ancora a terra, seduta in ginocchio, l'abito sporco e le mani rosse e sporche anch'esse. Non aveva avuto modo di alzarsi. Il contatto visivo con gli occhi di Arthur le aveva risvegliato troppe emozioni contrastanti. Era rimasta ipnotizzata da lui. E Leah lo sentiva, sentiva le sue emozioni, sentiva forse amore, attrazione, farfalle nello stomaco. Sapeva che gli arti della fanciulla si erano come bloccati, sembrava essere diventata una statua. Non sentiva più il leggero bruciore dei palmi, la sensazione di sporcizia che sentiva sul viso. Questo perché era totalmente persa da lui.
Nessuno dei due parlò più. Entrambi erano come imbalsamati.
«Permettete signorina...?» Arthur decise di prendere in mano la situazione. Nel sogno si vedeva molto bene; era ben curato, i capelli mori in ordine, la divisa da cacciatore pulita, il fucile in spalla. Solo gli stivali erano sporchi di fango, cosa comprensibile visto che era stato nella foresta poco tempo prima. Le porse la mano. Di lui, però, non riusciva a sentire nessun sentimento, quasi come se fosse un automa, una figura esterna. Leah era lo spirito, il "terzo incomodo" di quella storia, che guardava tutto in maniera esterna, ma capace di sentire solo i sentimenti di Daktulorodos.
Lei la afferrò, e lui la aiutò ad alzarsi. Sentì perfino il contatto delle mani setose della ninfa con quelle ruvide dell'uomo. Le prime erano calde, un po' spellate, le seconde invece erano fredde.
«Catherine, mi chiamo Catherine Bennet» imbarazzo. Estremo imbarazzo pervadeva la scena e soprattutto l'animo già impacciato della ragazza non aiutava. Mesi che lo aveva visto da lontano, ed ora, trovarselo davanti sembrava un'utopia. La più bella che potesse accadere. E in quel momento pensò che in realtà le era bastato anche solo quel momento, sentire la sua voce profonda che era in perfetta armonia con la sua persona, sapere che lui sapeva come si chiamava. Sarebbe scomparsa felice sapendo che lui la aveva anche solo conosciuta, che i loro sguardi si erano incrociati. Lui era il divino sceso in terra, e lei era talmente presa da lui che avrebbe fatto tutte le pazzie del mondo anche solamente per sentire la sua voce.
«Incantato, Arthur Walker» Arthur. Che nome divino. Suonava così bene pronunciato dalla sua bocca. Lei, invece, aveva scelto un nome che si adattasse il più possibile al contesto nel quale si trovava. Catherine e Arthur, Daktulorodos e Arthur. Puro idillio.
«Mi consentite di accompagnarvi verso casa?» "lo ha detto davvero?" Ed ecco che Leah sentì questo suo pensiero. Sentì anche il cuore esploderle nel petto, il sentimento che provava Catherine.
«Sì, volentieri signor Walker» lei cercò di nascondere la voce tremante, specchio delle sue emozioni che le avevano travolto ogni cellula del corpo.
Lui le fece cenno di poggiare pure la mano all interno del suo braccio piegato. "È forse una favola?"
Si incamminarono. E ogni secondo di più la ragazza sentiva di trovarsi in paradiso... (era cosi che dicevano gli umani, giusto?)
«Mi avete detto che venite da...» Lui pronunciò quella frase a mo' di domanda.
«Dalle campagne adiacenti a questo paese. Dopo la morte dei miei genitori ho deciso di venire ad abitare qui, avevo paura di starmene sola in mezzo alla campagna» Leah sentiva che Catherine stava dicendo una storia inventata, naturalmente, aveva ovviamente bisogno di costruirsi una vita il più veritiera possibile, non poteva di certo dire di essere una ninfa.
«Sono molto rammaricato per la morte dei vostri cari, ma... non avete nessun altro che possa farvi compagnia in questo piccolo paese?» la fanciulla avvampò, si preoccupava per lei? Era così impacciata, alle prime armi. Lui era l'oggetto del suo amore, quasi alla pari degli dèi più potenti che non aveva mai visto, no, forse meglio. Lei lo vedeva meraviglioso, divino.
«Non è da molto che se ne sono andati, ma a farmi compagnia c'è mio zio, che ora è fuori paese» i loro occhi si incrociarono
«Comprendo... oh! Dobbiate perdonarmi per le troppe domande inopportune, spero di non avervi importunato troppo. Capisco di essere stato alquanto pedante.»
"ed è anche estremamente educato".
Per lei, lui non disturbava mai, amava il fatto che lui si interessasse, e subito la sua mente iniziò a viaggiare...
«Non vi rammaricate, non mi avete importunata affatto. Se non sono indiscreta... voi da dove venite?» si era fatta coraggio e glielo aveva chiesto, era bramosa di sapere ogni cosa, riguardo al suo amato. Anche se, forse alcune cose le sapeva già.
«Ho sempre abitato qui, faccio il cacciatore.»
"sia benedetta quella volta che hai deciso di intraprendere questa carriera!"
Purtroppo però, quel meraviglioso momento dovette interrompersi, era giunta davanti a casa, e menomale che se ne era accorta! Oppure sarebbe andata chissà dove...
«Temo che la nostra conversazione debba interrompersi qui. Siamo giunti davanti alla mia casa. La ringrazio molto per avermi accompagnata e per esservi preoccupato, dovrei dire anche eccessivamente, per la sottoscritta» una fitta prese possesso del suo cuore, si sentì vuota quando la sua mano dovette staccarsi dal suo braccio. Sentì freddo. Il calore era scomparso.
«Non vi dovete preoccupare, mi sono allarmato vedendovi a terra, prima, e dovevo accertarmi che sareste tornate a casa sana e salva» un uomo così puro. Così buono, disponibile. Così... diverso da come lo conosceva Leah.
«Arrivederci» non voleva pronunciare quelle parole Daktulorodos, lo sentiva Leah. Lei non voleva lasciarlo. Eppure, doveva farlo. Come si fa in amore, si lascia e si prende, di continuo.
«Spero di poterla rivedere presto, buona giornata» si congedò lui, prima di andarsene e tornare sui suoi passi.
«Anche io lo spero, Mio Arthur» si era allontanato di molti metri, quando, Catherine pronunciò sospirando, colma d'amore, queste parole, dopo aver lanciato una rapida occhiata alla porta rovinata della sua umile casa. Quando entrò pianse. Leah sentiva come se la sua anima si fosse alleggerita, quelle erano lacrime di gioia, pura e semplice gioia, frutto di un sentimento sincero, talmente sincero che nessun altro uomo avrebbe potuto vantarsi di essere oggetto di tale amore, un amore divino.
...Ed Arthur aveva avuto questo privilegio tra le mani. Ma non ne era a conoscenza e di lì a poco avrebbe pagato il pegno terribile per il proprio errore imperdonabile...
Fu questo che pensò Leah, prima che i suoi occhi si aprissero e vedessero la luce del giorno.
«Sveglia ragazzina, dobbiamo scendere» la voce imponente di Arthur e detta con quel tono così fastidioso la destò completamente dal suo sogno, che questa volta era stato sul serio ristoratore. Doveva ancora abituarsi alla luce, non ci vedeva ancora bene, e quindi vedeva tutto a grossi cerchi gialli, quando chiese: «Quanto manca?»
Nel frattempo si strofinò la manica della felpa sugli occhi per "svegliarli" e capire dove si trovava, mentre aspettava la risposta dal suo scorbutico interlocutore.
«Non molto, forse altri cinquanta chilometri. Siamo in Michigan, ci basta solo arrivare alla nostra meta e il gioco sarà fatto. Un altro giorno di viaggio e saremo arrivati» non fece a tempo a pensare ad una risposta che Arthur la sollevò di forza dal sedile, raccogliendo tutte le loro cose e trascinandola letteralmente fuori dal bus, quando esso si fermò. Leah non aveva neanche avuto il tempo di metabolizzare che aveva appena lasciato quei comodi sedili, che si stavano già incamminando, Arthur le aveva appena lanciato il suo zaino che lei aveva stranamente preso al volo e si era messa in spalla; erano appena entrati in un bosco, il terreno era pieno di fango a causa della pioggia della notte precedente. Che brusco e che odioso quell'uomo! Non credeva che fosse davvero così freddo e apatico, una parte di sé sperava fosse una bugia per farla allontanare, ma non era così, Arthur era estremamente scontroso e senza tatto, forse non aveva mai incontrato nessuno così...
All'inizio del loro viaggio entrambi erano alquanto sereni, ma col passare dei giorni, iniziando a stare insieme ventiquattr'ore su ventiquattro, avevano capito che effettivamente le cose sarebbero state più difficili del previsto. Quantomeno, non sarebbe stata un'avventura noiosa...
Chissà che ore erano... forse le otto? Le nove? Di sicuro non mezzogiorno, il sole non era così alto. Non riusciva a stargli dietro col passo, camminava troppo veloce! Erano giorni che erano in viaggio, forse cinque, e ogni volta doveva corrergli dietro per non perderlo. Parte del viaggio per fortuna lo avevano fatto in bus, ma ora dovevano camminare, e molto.
Lui dal canto suo, faceva finta che lei non esistesse, soprattutto dopo la loro ultima discussione del giorno precedente, non facevano altro che battibeccare!La riteneva un peso; anche se cercava sempre di trovare il lato positivo della questione, c'era una parte di lui che aveva piacere di averla con sé, era quasi, bello, non sentirsi poi così solo... ma la sua parte peggiore riusciva sempre a prendere il sopravvento. Soprattutto in alcuni frangenti avrebbe voluto cucirle la bocca, era davvero troppo pesante quando s'impuntava.
Quando Leah si svegliò del tutto, metabolizzò ciò che lui le aveva detto qualche minuto prima. Cinquanta chilometri?! Poco?!
«Beh se per te sono pochi cinquanta chilometri non oso immaginare...» borbottò alquanto infastidita, con le mani nelle tasche.
Di colpo lui, che era avanti a lei, si fermò, e quasi la ragazza andò a sbattergli addosso. Si girò nella direzione di lei, il suo volto era duro, infastidito, stava per perdere la pazienza. Lo avrebbe mai visto con un'espressione serena?
«Senti, io ho dovuto affrontare cose assai peggiori di cinquanta stupidi chilometri, e se a te non va bene sai cosa fare» il suo tono di voce era duro proprio come il suo sguardo, che non lasciava trasparire nessun'altra espressione. Quanto lo infastidiva quella ragazza! Era così insolente e insopportabile, chiacchierona e non riusciva mai a starsene zitta. Forse stava iniziando a pensare che non era stata poi così una buona idea accettare che l'accompagnasse... ma lei aveva le risposte... le risposte... eppure quando faceva così, che odio!
Povero Arthur, troppo solo per capire che stare in compagnia di una persona comportava questo, confrontarsi ogni giorno, interloquire, anche litigare, Leah non era un automa, e di sicuro era la persona meno probabile per diventarlo.
«Okay, scusami se mi permetto di parlare signor brontolo!» Leah non aveva paura di quell'uomo più alto di lei di una quindicina di centimetri. Avrebbe spaventato chiunque, con le pupille nere che coprivano le iridi blu, il viso arrossato e i denti stretti. Lei non aveva mai avuto paura di dire ciò che pensava, e di certo non lo avrebbe fatto con Arthur.
«Non ti permettere di prendermi in giro» replicò freddamente. Ma come si era permessa di chiamarlo brontolo? Ma chi si credeva di essere? Era convinta di far ridere forse?
Le diede le spalle e riprese a camminare.
«Te la prendi per tutto! Dovresti smetterla!» la ragazza non ci stava, era insopportabile! Non avrebbe di certo continuato a farsi mettere i piedi in testa da quel tale...
«Ma sei tu che hai iniziato!» ribattè lui. Entrambi stavano procedendo in maniera sempre più veloce, come se scappassero l'uno dall'altra. In quel momento erano talmente infastiditi l'uno dall'altra che se fossero stati in un campo da boxe si sarebbero sicuramente scontrati.
Entrambi, in quel momento, avrebbero voluto urlare l'un l'altra "sei davvero insopportabile!", con tutto il fiato che possedevano nei polmoni, a costo di far tremare le corde vocali, ma si astennero dal farlo.
«Io? Volevo solamente sapere quanto mancasse all'arrivo!» ed effettivamente era vero. Solamente che, entrambi, non erano riusciti a comprendersi, in realtà l'unica volta che si capivano era quando parlavano dei sogni di Leah, tutto il resto del tempo era un continuo bisticciare. Questo era l'esempio lampante di quanto i caratteri di entrambi fossero agli antipodi, ma al tempo stesso troppo forti ed orgogliosi per darci un taglio. Avevano creato una bufera per una sciocchezza. Lui non capiva le uscite della ragazza e lei non riusciva a tacere quando serviva.
«E io ti ho risposto! Cosa altro vuoi? Un resoconto completo? O che io mi travesta da fata turchina per sembrare più simpatico?» agitò le mani al cielo, cercando di pronunciare quelle parole in maniera sarcastica, ma il suo umore nervoso glielo impediva, continuando a camminare.
«Neanche il vestito da fata turchina ti renderebbe più simpatico» sentenziò lei, seccamente.
«Non ti rispondo più, mi stai facendo sprecare fiato inutilmente. Io ti avevo avvertita qualche giorno fa...» aveva capito che era inutile continuare a litigare, lei sarebbe rimasta così e lui pure, meglio chiudere lì ed evitare di sprecare fiato. Anche se le sue parole lo avevano ugualmente fatto inasprire. Perché mai aveva accettato di essere accompagnato da una persona del genere? Sapeva che avrebbe dovuto rimanere impassibile e mantenere la sua posizione contraria, forse solo Angelina Jolie avrebbe potuto convincerlo ad accompagnarlo.
«Mi hai avvertita ma tu non ti stai impegnando per cambiare! Mi sembra che ti piaccia avere questo atteggiamento scontroso!» fece un breve scatto e si trovò esattamente di fianco a lui, mentre procedevano. Non capiva perché Arthur fosse così... statico, noioso e sempre uguale! Non cercava di migliorarsi, rispondeva sempre a monosillabi, evitava ogni tipo di conversazione se non strettamente necessaria, e se la prendeva per ogni singola sciocchezza.
«Ho vissuto solo per trecento anni, pensi che me ne freghi qualcosa di cambiare il mio carattere?! Credi che possa cambiare qualcosa? Le cose che mi possono aiutare sono altre, non certo il mio carattere da migliorare. Non puoi capire...» il suo tono di voce si fece più basso alla fine. Cosa importava a lei del suo carattere? Era lei che aveva accettato di accompagnarlo e doveva subirne le conseguenze. Lei doveva adattarsi non lui.
«Hai ragione, non posso capire, ma non vedo ragion...» non voleva proprio mollare, la ragazza.
Ma ad un tratto uno strano fruscio tra le foglie dei cespugli fece sussultare l'uomo. Non prometteva nulla di buono. Doveva essere un animale selvatico, forse di grandi dimensioni, che li aveva sentiti e forse li stava cercando. Sapeva che sarebbero dovuti stare zitti!
«Shhhh! Zitta! Ho sentito un rumore» si fermò bruscamente e bloccò Leah col braccio, facendole poi segno di abbassarsi e si nascosero dietro uno dei grandi alberi secolari della foresta.
Dopo qualche minuto, tra le foglie apparve una grande volpe rossa, che dopo qualche minuto se ne andò. Per fortuna non era un orso bruno o qualcosa del genere, sennò sarebbero stati spacciati. Un falso allarme, graziatamente.
Ripresero quindi, a camminare. Nessuno dei due fiatò per una decina di minuti, reduci dal grosso spavento che gli aveva fatto saltare il cuore in gola
«Ho sognato Catherine, comunque...» dopo forse una mezz'oretta Leah prese la parola. Dopo tutto quello che si era successo si era dimenticata della cosa più importante! Dopo svariati giorni aveva finalmente ripreso a sognare Daktulorodos. Finalmente sarebbe stata d'aiuto, e sebbene in quel momento avrebbe voluto riempirlo di insulti, doveva informarlo.
«Che ti ha detto...? Che ha fatto?» improvvisamente il suo interlocutore sembrò stranamente interessato, e si fermò di colpo.
Gli occhi della giovane si persero un secondo nel vuoto, intenti a ricordare più dettagli possibili.
«Vi ho visti...» disse, dopo aver rimembrato per bene il tutto. Naturalmente aveva raccontato all'uomo in maniera dettagliata tutti i sogni che aveva fatto precedentemente e lui sapeva a che punto della storia fosse.
«Dopo che lei è caduta, tu la hai aiutata ad alzarsi e poi la hai riportata a casa. E mi sono sentita stranamente... serena, sentivo l'amore e l'agitazione che lei provava... mentre tutto ciò succedeva. È come se le emozioni di Catherine si fossero trasferite dentro di me, ed io le sentissi ogni volta in sogno, soprattutto quando ci sei tu. Era così felice di averti visto, ho sentito la speranza esplodere nel petto e mille emozioni contrastanti, le farfalle nello stomaco... e dopo che lei è tornata a casa....»
Lui la interruppe bruscamente, non voleva sapere altro. «Okay, ho capito. Niente flussi di coscienza rilevanti, tipo informazioni o altro?» sebbene doveva ammettere che ricordare quell'avvenimento gli causava non poche emozioni, molte delle quali negative, doveva riconoscere che quel racconto non sarebbe servito a nulla ai fini della spedizione, era venuto già a conoscenza dei sentimenti così immensurabili che lei provava per lui... ma a che prezzo? Non voleva continuare a sentirsi un cretino, aveva passato già troppo tempo a farlo.
«No» rispose seccamente lei. Non capiva perché la aveva interrotta... sembrava che non gli importasse dei sentimenti di Catherine. Erano ugualmente importanti, tanto quanto altre informazioni. Sentiva quasi di capirla...
«Okay.»
Ripresero a camminare per un altro breve tratto, finché Arthur non si bloccò nuovamente di colpo. Leah non riusciva a vedere davanti a sè, perché lui le copriva la visuale.
«Che succede...?» chiese.
«Qui c'è un problema» dichiarò, con un tono visibilmente preoccupato.
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