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Capitolo otto || una notte, mille notti

Non poteva ancora crederci! Tutto quell'impegno, quelle ricerche, inutili! Aveva perso solo tempo, che avrebbe potuto utilizzare in maniera diversa...
Quel tale, era più antipatico e maleducato di quanto pensasse! Forse i modi con i quali lei si era rivolto a lui, non erano di certo dei migliori, ma ciò non giustificava la maleducazione che lui aveva manifestato nei suoi confronti.

Avrebbe semplicemente potuto dirle che non voleva rivelarle nulla, anzi, avrebbe di certo preferito che se ne fosse andato piuttosto che averle raccontato quella stupidissima storia, inventata solamente per prendersi gioco di lei.
Durante quegli ultimi giorni nulla stava andando per il verso giusto: prima l'insonnia, e dopo la comparsa di quell'uomo, che le aveva scombinato tutto, i pensieri, i piani...
Era lui la causa della maggior parte dei suoi problemi. Sì, era proprio così. Ed ora doveva chiudere questo stupido capitolo della sua vita. Aveva speso troppo tempo per nulla, doveva tornare quella di sempre, ed eliminare l'immagine di quel John dalla sua testa. Tutte quelle cose che sentiva di provare, erano scempiaggini, la sua mente da bambina prevaleva ancora su quella di adulta, e non sarebbe dovuto essere così.

Che poi, perché affidarsi così tanto ad uno sconosciuto? Perché ci aveva speso così tanto tempo ed energie? Diamine. Si era aggrappata troppo ad un ideale infantile. Lui era ricomparso per caso, e quel giorno lo aveva visto sempre per pura casualità. Punto. Boston era grande, sì, ma non troppo, ed ecco perché lo aveva ritrovato. Tutto qui.

Non smetteva di domandarsi, perché anche dopo il loro scontro, continuava a interessarsi ancora a lui, sebbene cercasse di volgere i suoi pensieri altrove. Era solo un uomo qualunque, entrambi non avevano nulla in comune, ma soprattutto nulla da dirsi. Quelli sguardi che si erano rivolti alla stazione dei treni, erano stati modificati dalla sua stupida mente da bambina, che, ancora non curante della cattiveria umana, aveva scambiato quello sguardo qualunque, come uno d'aiuto. Tutto qui. Niente di più e niente di meno. E inoltre, chi era lei per impicciarsi degli affari altrui? Vero, la colpa era anche sua, dopotutto. Non avrebbe dovuto essere così insistente. Se lei fosse stata al posto suo, avrebbe sicuramente fatto lo stesso, anzi lo avrebbe mandato sonoramente a quel paese. Quindi, effettivamente, non c'era nulla di strano nel suo comportamento, sebbene non avesse fatto per niente piacere il modo in cui si era rivolto a lei.

«Leah è entrato qualche cliente per caso?!» sentì Frank richiamarla dalle scale. La ragazza si diresse verso la porta che la conduceva a queste, e la aprì, trovandosi il genitore a pochi centimetri da lei.

«Sì, ma non ha trovato quello che cercava.» mentì la ragazza. Il padre, che nel frattempo la aveva oltrepassata, per uscire e dirigersi verso il magazzino del negozio, la scrutò con un'espressione indagatoria. Doveva ammettere, che sua figlia non gliela contava giusta.

«Ah, no perché mi sembrava di aver sentito due persone che stavano discutendo. Credevo stesse succedendo qualcosa qui.» asserì, prima di entrare nel magazzino.
«No, non ti preoccupare. Forse proveniva da fuori.» cercò di inventarsi una scusa plausibile. Non voleva che suo padre stesse in pensiero senza motivo. Quella questione di per se non era assolutamente nulla.

Silenzio.
«Beh, menomale, allora io esco. Ci vediamo tra una mezz'ora.» asserì infine, quando ebbe finito di trafficare con alcuni oggetti.
La figlia annuì.

***
Forse era meglio prendersi una pausa. Da tutto quello stress, quei pensieri che non le lasciavano tregua. Era da più di dieci minuti che la giovane era davanti allo specchio, e continuava ad osservare il suo volto. Era presa peggio di quanto credesse.
Continuava a toccarsi le guance scarne, le rughe di espressione sulla fronte. Ma la sua vista si concentrava principalmente su quelle occhiaie, così pronunciate e visibili, forse come non mai.
Negli ultimi giorni non era riuscita a dormire affatto, se non per la notte appena trascorsa anche se si era assopita con tranquillità per solo un'ora. La sua mente era continuamente pervasa da immagini disturbanti, ogniqualvolta le sue palpebre si chiudevano. Doveva esserci una spiegazione a tutti quei terribili sogni, che non le lasciavano tregua.
Improvvisamente, pensò che la sua insonnia era iniziata da quando John era rientrato nella sua vita. Forse c'entravano qualcosa.

Scoppiò in una sonora risata, che riecheggiò per tutto il piccolo bagno. Ma come faceva solamente a pensare a cose del genere? Ora avrebbe pure iniziato a credere alla sua storiella senza senso e alle fatine, agli elfi, agli stregoni...? Anziché crescere, stava tornando indietro.

Uscì dal bagno, e si diresse verso il salotto.
Si sarebbe concessa quell'oretta e mezza per cercare di appisolarsi sul divano, magari ci sarebbe riuscita. Era quasi certa che la notte che sarebbe dovuta giungere non sarebbe stata clemente con lei, tanto valeva riposarsi durante il pomeriggio, no? Stava diventando sempre di più simile ad un animale notturno. In realtà a lei bastava dormire quelle sette o otto ore a notte, ma visto la situazione nella quale si trovava quel momento, tre o quattro ore sarebbero state più che sufficienti.
Stava seriamente valutando l'idea di andare in farmacia a farsi prescrivere delle pastiglie per il sonno.

Si stese sul divano, e non tardò a cadere nel mondo dei sogni.

Si trovava su una grande strada sterrata, che divideva in due una piccola cittadina. Le case erano disposte senza un ordine preciso, a dirla tutta sembravano appartenere ad un'altra epoca.
Ad un tratto si accorse che le persone presenti erano vestite in abiti d'epoca. Sembrava essersi catapultata in un libro di storia, forse intorno al millesettecento.
Che buffo.
Tutti si muovevano freneticamente, donne e bambini, uomini che bevevano in un bar poco distante, una carrozza attraversò la lunga strada.
E poi, eccola ritrovarsi in un altra zona, più periferica, che dava all'immensa prateria al di fuori della cittadina. Ad una staccionata erano legati alcuni cavalli, che si stavano abbeverando sui rispettivi abbeveratoi, e un paio di uomini, poco più distanti, stavano fumando le rispettive pipe appoggiati ad un pozzo in pietra.
Si girò alla sua destra, e sul muro dell'edificio a fianco era presente un'iscrizione: "In onore di Martin Robert Ascott Jr. che fondò questa umile cittadina durante l'A.D. MDCLXXXIX
Lì, 17  Novembre 1710"

Una donna le passò di fianco, ma era... Lei!
Di nuovo? Ma la sua mente era proprio recidiva!
Era vestita diversamente dall'ultimo sogno: indossava un abito popolare, che generalmente portavano le donne di ceto medio-basso, il corpetto del soprabito marrone non era stretto in maniera eccessiva, e di conseguenza non dava quell'effetto succinto delle donne del ceto aristocratico, le quali lo stringevano a più non posso, cercando di mostrarsi più magre. Ma a lei non serviva stringerlo in maniera così drastica, le sue forme aderivano bene a quel vestito all'apparenza scialbo, e ugualmente riusciva a risplendere di una luce quasi accecante.
Il sottabito bianco s'intravedeva fuoriuscire dalla sottana, e copriva quelle parti, ovvero le braccia e il décolleté, dove il corpetto non riusciva ad arrivare.

I suoi capelli castani erano raccolti in uno chignon alto, ma alcuni ciuffi le scendevano ugualmente sul viso, ed ai piedi portava delle semplici scarpe basse di colore nero.
Riusciva a sentire degli strani flussi di coscienza "Deve accorgersi di me... deve accorgersi di me..."
Iniziò a correre all'impazzata, tant'è che, sembrava non riuscire a fermarsi.
Improvvisamente cadde, non era riuscita a raggiungere il prato, quindi risultava ancora essere sopra la strada sterrata, e di conseguenza, mosse una polvere molto evidente. Infatti la sentì tossire. Era a forse due metri da lei.
E subito dopo ci si trovò di fianco. Aveva le mani impolverate, e il viso sporco. Sicuramente la caduta non era programmata, i suoi piani erano altri.

Dalla sua destra vide sopraggiungere un uomo, sembrava essere anche abbastanza alto, vestito con una giacca marrone in pelle e dei pantaloni scamosciati, che al ginocchio scomparivano, coperti da degli stivaloni neri. Nonostante questo non riusciva a vedere il suo volto.
«Vi siete fatte male signorina?» sentì il cuore battere all'impazzata, come se fosse lei quella ragazza, e non più una figura esterna. Riusciva a percepirne tutte le emozioni, ed ora si sentiva come infatuata, estasiata.
"È lui"

«No, non vi preoccupate.» replicò lei, sorridendo, un sorriso così sincero.
E improvvisamente, vide il volto di quell'uomo.
Gli occhi di quel blu intenso le perforarono l'anima.
Era John.

Si svegliò di soprassalto. Cosa, cosa era appena accaduto? Aveva rifatto di nuovo quel sogno! Con quella donna... e con... John?
Ma era mai possibile che nonostante cercasse di toglierselo dalla testa, riusciva a sbucare fuori in qualsiasi maniera possibile ed immaginabile?
Era identico a come lo aveva visto l'ultima volta, solamente con abiti diversi.
Uguale.
Beh, quella era sicuramente la sua coscienza che le ricordava lo spettacolo che avevano inscenato solamente poche ore prima.
Eppure per la prima volta iniziò a pensare che quello non fosse solamente l'insorgere della sua coscienza, bensì qualcosa di più importante, più serio. Cominciò seriamente a dar importanza alle supposizioni che avrebbe formulato la "lei" bambina, che in realtà quei sogni significavano qualcosa, che erano collegati. Che la magia esisteva.
Aveva iniziato a vedere in sogno quella donna esattamente la notte prima di incontrare John, e non era stato un sogno separato. C'era una certa continuità, che la lasciava senza parole, che le faceva venire i brividi, e gelare il sangue nelle vene.

Riusciva a provare delle emozioni, in un sogno! Incredibile.
Sembrava che stesse guardando un film, ma è come se ella fosse il fantasma di quel film a puntate, e che quelle puntate volevano in realtà spiegarle qualcosa.
Le risovvene  alla memoria l'iscrizione che aveva visto nel sogno.

1710.

Non doveva essere molto distante dall'epoca in cui il sogno era ambientato.
Per un momento credette di morire di infarto, quando ripensò alla frase di John, che le aveva riferito prima che lei gli ridesse in faccia.
"Se ti raccontassi di un uomo intrappolato nel corpo di un trentatreenne da quasi trecento anni ci crederesti?"
2018 meno trecento faceva... 1718, circa. Anno più anno meno. Quel luogo era stato fondato da poco, forse massimo una ventina d'anni dall'ambientazione del sogno.

Accidenti! Doveva smetterla di credere a quelle buffonate! Aveva sognato tutto ciò in seguito a quella lite, ecco perché i conti tornavano. Non c'era da preoccuparsi oltre. La magia non esisteva, così come le fiabe.

Sperava solamente di non assistere ad un sequel di quella serie di sogni ridicoli, prima di coricarsi a letto, poche ore più tardi.

Ma le cose non andarono esattamente come sperava, a sognare, quella notte, non furono quella ragazza e John, né le dodici fanciulle. Ma ben altro.
Qualcosa che non poteva essere un caso, ma una sorta di messaggio ultraterreno, una rivelazione. Il suo cervello non avrebbe potuto inventarsi tutto ciò.

Un uomo incappucciato si manifestò nella sua mente.
«Ciò che tu sognasti durante le ultime tre notti, non è altro che una storia. Nulla è casuale, né frutto di momenti già vissuti.
Leah Parker, per altre notti i tuoi sogni saranno occupati da questo racconto, dal quale tu dovrai trarre la soluzione per concluderlo una volta per tutte.
Solamente quando accetterai tutto questo, il sonno sarà per te ristoratore.
Ma ciò da sola non potrai fare, dovrai solamente saperlo aspettare.»

E poi, il buio.

Si svegliò, per l'ennesima volta. Ma questa volta più tranquilla che mai.
Ora ci credeva. John Denbrough non le aveva mentito.

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