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Capitolo dieci || consapevolezza

«Poveri sciocchi sono quei due umani i quali cogitano di spezzare la maledizione che io lanciai ad Arthur Walker, con la quale convive da tre secoli or sono!» il dio lanciò una sonora risata, che rimbombò per tutta la sua enorme dimora.

In realtà, non esisteva soluzione alcuna a quella condanna che stava scontando Arthur.
Sarebbe dovuto vivere così per tutta l'eternità, fino alla fine dei tempi. Questo era il destino di quell'uomo: vivere la sua vita sulla terra per sempre in una quasi infinita condanna, e chissà poi, cosa sarebbe successo...
Era la punizione minima per aver causato il suicidio della figlia Daktulorodos! Gli avrebbe fatto patire le pene del Tartaro se solamente avesse potuto.

Nessuno avrebbe mai capito il dolore atroce e logorante che il suo spirito aveva provato, quando aveva visto il corpo della figlia giacere inerme sul pavimento della casa dove lei e suo marito convivevano.
Era morta per amore di un uomo che non la meritava! Tutto per non rimanere legata al mondo degli dèi, in compagnia sua, dove avrebbe avuto tutta la protezione e tutta la sua esistenza sarebbe stata caratterizzata di felicità e gloria. Eppure lei aveva scelto la via più impervia, quella dell'amore.
Aveva costretto le Moire a tessere un nuovo filo del suo percorso di vita, aveva scelto la mortalità, l'amore flebilmente ricambiato di un uomo innamorato solo di se stesso e pretenzioso di ricevere da lei ciò che lui non era capace di darle. Ma quell'uomo come poteva soltanto pensare che sua figlia fosse uno zerbino? Fin dal primo istante avrebbe dovuto trattarla da regina, così come dovrebbe essere, avrebbe dovuto amarla, onorarla, proprio come faceva lei.

Daktulorodos era stata una schiava dell'amore, imprigionata nella fortezza dei suoi sentimenti così intensi da accecarla. Troppo travolgenti e forti.
L'umanità non si meritava questo tipo di amore, un amore divino! Gli esseri umani, colpevoli di essere così egoisti, da distruggere tutto il mondo nel quale risiedevano, infischiandosene del fatto di non essere soli. Anni ed anni di evoluzione buttati! Durante i millenni si erano scordati di essere prima di tutto figli della natura, ed ospiti nel loro mondo. Ostentavano il supremo, peccavano di tracotanza.

Arthur ne era l'esempio lampante, con la differenza che aveva sposato una Ninfa. Una figura che viveva con la natura e per la natura, amando, rispettando, il prossimo, e venerando ogni cosa che la circondava.
Per un attimo pure lui aveva creduto che Arthur potesse influire positivamente sull'opinione negativa che aveva sul genere umano.
Eppure, non era stato così, anzi, aveva avuto l'ennesima conferma di quanto fosse sporco l'essere umano. Ricevere, ricevere! E nessuno voleva dare. Quanta ipocrisia! Più nessuno gli avrebbe fatto cambiare opinione su questo.

Oh, e com'era ingenua l'incantevole Ninfa, frutto di un unione divina. La più meravigliosa creatura di tutti i mondi esistenti. Il suo più bel δῶρον(doron)*, la sua più grande felicità, il suo più intenso amore.
Talmente fulgente che Ἥλιος (Elios)**, sembrava prostrarsi dinnanzi a lei, ogniqualvolta le sue labbra si incurvavano in un sorriso.
Quelle risa gioiose, erano solite riempire i boschi nei quali viaggiava. Il mondo terrestre doveva essere grato a quello divino del dono incalcolabile che quest'ultimo gli stava facendo.
E nel momento in cui tutto cessò, e la morte fece capolinea nel suo corpo, la perfezione del Cosmo sembrò incrinarsi indelebilmente.
Quanto aveva sofferto! Quanto si era adirato contro quell'essere che l'aveva tradita, per poi portarla alla morte! Perché l'uomo è sempre alla ricerca di cose che non può mai avere, e anche quando ha la felicità davanti al naso, la distrugge?
E la sua povera figlia innocente aveva dovuto pagare il prezzo di questa mostruosità.

Lei dava il cuore, in tutto. E non appena qualcuno glielo spezzava, era la fine. E infatti, si era suicidata. Perché amava talmente tanto Arthur che il suo comportamento le aveva spezzato in cuore in tal maniera che nessuno avrebbe mai potuto ripararlo, era rimasta sola, e ferita. Talmente tanto da voler perire sotto la lama acuminata di un coltello scintillante. Non riusciva a lasciar perdere, a passarci sopra. Un' incredibile lealtà la aveva caratterizzata, e caratterizzava tutte le Ninfe, di conseguenza si aspettavano altrettanto da chi la donavano: distruggevi quella, e distruggevi tutto, senza rimedio. Questo era il mondo divino. Ecco perché avere al proprio fianco una Ninfa era un bene, e al tempo stesso un male, sia per gli uomini che per gli dèi, ma in particolare per i primi. Non erano ammessi errori così gravi, o bianco o nero, felicità o disperazione, vita o morte.

Ancora rammentava quando la sua bambina era venuta da lui a chiedergli l'assenso per lasciare il mondo degli dèi. Che ira che aveva scaturito questa sua richiesta!
Abbandonare tutto ciò che aveva per inseguire una persona che aveva visto solamente un paio di volte? Era da irresponsabili!

In un primo momento glielo aveva categoricamente vietato. Era sempre stata un po' sognatrice, tra le nuvole, s'infatuava spesso sia dèi che di semidei, o di qualche umano... ma quella volta sembrava davvero determinata a convincerlo. Non aveva paura che lui le urlasse contro, che la redarguisse su tutti i pericoli che avrebbe potuto correre, lei voleva andare da lui. In un certo momento, durante una delle loro discussioni, il dio vide i suoi occhi brillare mostrando un autentico amore, mentre lei parlava dell'amato. Sua figlia questa volta faceva sul serio. Per la prima volta non aveva paura di affrontare gli ostacoli, i pericoli, era così convinta che lui prima o poi l'avrebbe ricambiata, sposandola. Era ubriaca dell'idea dell'amore, una baccante in preda alla follia dell'amore, pronta a donare tutta la sua anima ad Arthur.
Avrebbe fatto di tutto per lui.

Era così convinta, che convinse anche il padre, ormai quasi stremato dalle sue continue pressioni: per nove settimane lei era salita nel mondo divino, per chiedere il consenso, e solo al tramonto della nona settimana, il dio aveva acconsentito.
Un po' aveva fatto nascere la speranza in lui che il futuro che si prospettava per la figlia sarebbe stato roseo, che, nonostante abbandonasse il suo mondo, la terra sarebbe stata pronta ad accoglierla, insieme al suo futuro marito.
La cosa che più lo preoccupava, era quella orrenda regola dei dieci giorni. Come, un comune mortale riusciva ad innamorarsi di qualcuno in soli dieci giorni? Aveva paura che andasse tutto male, e che Daktulorodos, scaduto il tempo a disposizione, scomparisse per sempre. La sua anima, il suo corpo, inesistente. Non avrebbe neanche avuto la possibilità di immaginare la sua anima serena nei Campi Elisi, poiché non sarebbe appartenuta a nessuno dei due mondi se ciò fosse accaduto. Quale orrore! Spaventoso!

Ma la determinazione di sua figlia era riuscito a distoglierlo da questi pensieri, e lui acconsentì: Daktulorodos ora era diventata una mortale.
Dopo averla salutata per l'ultima volta, la lasciò andare. Ebbe il coraggio di vedere la sua bambina allontanarsi progressivamente dalla sua protezione. Almeno la sapeva felice.
E poi, successe la sciagura.
Dopo che il corpo della Ninfa abbandonò la vita, lui lanciò la maledizione a quel dannato di Arthur, e quando lui svenne, il corpo della figlia scomparve.

Ma il suo spirito, invece, era ancora vivo. Solamente che ora, avrebbe soggiornato per tutta l'eternità nei Campi Elisi, nel regno del dio dei morti.
E lui, non poteva vederla, sapere come stava. Tutto ciò che gli rimaneva di lei erano i ricordi.
E la sua unica consolazione era quella di far patire all'artefice di tutto quel male, le conseguenze delle proprie azioni.
Povera sciocca era Leah, se credeva di poterlo aiutare. Come nessuno aveva aiutato Daktulorodos, nessuno sarebbe stato in grado di aiutare Arthur, neanche se frutto di una divinità. Sarebbe stato tutto inutile.

***

«Credo tu debba pensarci su...» asserì l'uomo alla ragazza. Quelle parole con quella determinazione e sicurezza, lo avevano colpito non poco. Chi lo avrebbe mai detto?

«Ma io ci ho già pensato.» lo interruppe lei con convinzione, non lasciandolo terminare la frase.
In realtà, Arthur, in fondo, voleva che lei lo accompagnasse, ma allo stesso tempo riconosceva che forse avrebbe preferito arrangiarsi. Eppure, il fatto che lei sapesse tutto, inevitabilmente, la legava un poco di più a lui.
Aveva detto di chiamarsi... Leah? Un nome così usato. La sua figura non spiccava di certo tra le altre, tantomeno il suo lavoro era prestigioso. Era una persona così comune, come lo era lui un tempo.

Tuttavia in lei ardeva una determinazione che i suoi occhi non avevano mai visto in nessun altro essere umano. Lo aveva colpito, sì, era innegabile. Stava cedendo alla sua determinazione di volerlo aiutare. Ma, oltre al sano egoismo, pensò che non sarebbe stato facile per lei, voleva seriamente tenerla alla larga da se stesso.
«Non mi conosci nemmeno, potrei essere pericoloso.» la ammonì, fingendosi minaccioso.

«Chi tu? Hahaha. Non ti conosco ma so che non sei cattivo come vuoi farmi credere.» la ragazza scoppiò in una risatina. Credeva veramente di poterla spaventare? Purtroppo per lui, lei era molto peggio, se si metteva.
«Litigheremo spesso.» cercò di cambiare argomento, sperando di farla desistere.

«Sai che noia darsi sempre ragione?» rispose tranquilla.
«Non resisterai un solo secondo se deciderai di aiutarmi e di conseguenza accompagnarmi nel mio viaggio, ti mancheranno i tuoi affetti e le comodità della vita.» Arthur la fissò dritta negli occhi, e quando lo fece, ritrasse subito lo sguardo, quasi "scottato" dalla determinazione che vedeva in lei.

«Forse hai ragione riguardo al fatto che mi mancherà mio padre, ma se sa che è una mia scelta, e che può farmi stare serena, accetterà, e di conseguenza lo farò anch'io.» non ci aveva pensato effettivamente, ma lì per lì, nella foga del momento, replicò d'impeto, inconsapevole di quello che le sarebbe accaduto più tardi.

«Sei veramente sicura?» sembrava averlo convinto. Forse, forse, lei, era diversa... avrebbe seriamente potuto aiutarlo, e, se andava male, amen. La avrebbe cacciata e avrebbe continuato per la sua strada.

«Non ti meriti tutto questo male, anche se hai combinato questo enorme disastro, è come se mi sentissi in dovere di aiutarti, anzi, non devo, lo voglio fare e basta. Soprattutto se quei sogni non sono casuali. C'è sempre una soluzione a tutto nella vita, chissà forse faremo pure un faccia a faccia con lui, oppure troveremo un talismano magico...» era sincera, e speranzosa. Sul serio voleva vederlo sereno, anche se non lo conosceva, ma avrebbe imparato a farlo col tempo.

«Non siamo in un film tratto da un libro di Tolkien.» credeva sul serio di vivere in un film fantasy? Forse non aveva ancora appreso la realtà dei fatti? Oh, ma perché nessuno lo faceva?
«Beh...» stava per dire altro, ma decise che forse avrebbe dovuto tacere.

«Questa è la realtà, che tu lo voglia o no, ragazzina» sapeva il suo nome, ma aveva usato quell'appellativo per farla irritare, riuscendoci perfettamente. Già stava iniziando "bene" tra i due... «In ogni caso, se vuoi veramente accompagnarmi, domani alle otto ti aspetto qui, sono in pronta partenza per l'ovest, se non verrai non ci sarà una seconda possibilità, poiché lascerò Boston, e probabilmente quando ci tornerò tu sarai già trapassata.»

«Ci sarò, ci puoi scommettere, e inoltre da parte mia ci sarà la più assoluta riservatezza.» la aveva presa dritta nell'orgoglio la "ragazzina".
Quest'ultima si alzò dalla panchina, e gli strinse la mano, come se stesse suggellando accordo, e in fondo, lei lo riteneva tale. Un aiuto per lui, una sfida per se stessa, e un accordo per entrambi. Era consapevole di ciò che sarebbe potuto succedere, e non aveva nessun ripensamento.
Poi, si congedarono.

Mentre stava per tornare a casa moltissimi pensieri iniziarono ad attanagliarle la mente. Ripensò al primo sogno che aveva fatto... le sembrava passata un'eternità, invece era trascorsa solamente una settimana, una settimana che le aveva cambiato l'esistenza.
Inoltre, rammentò quel canto che aveva sentito fare quella notte dalle fanciulle, le sembrava arabo, ma... ora era convinta che fosse un'altra lingua. Le Ninfe non erano forse tipiche della mitologia greca? Anche se effettivamente potevano essere anche di un'altro tipo di cultura mitologica, eppure lo stesso nome "Daktulorodos" sembrava essere di origine ellenica. E allora, quel canto pure. Stavano parlando in greco antico.

Una lingua che lei non aveva mai sentito pronunciare, e che di certo non sapeva leggere, ma dentro il suo cuore sapeva che la sua supposizione era corretta. Quindi, tutti gli dèi che credeva fossero frutto della immaginazione degli antichi, erano veri? O forse erano altri, ma sulla loro falsa riga? E tutto quello in cui aveva pensato di credere? La fede degli uomini? Ciò in cui aveva pensato di credere, falso? Le maledizioni esistevano? Un contatto con lassù era veramente possibile? Ninfe, dèi, lei che era scesa per lui, lui che aveva iniziato a tradirla. Era possibile l'esistenza di un amore così forte? Lei avrebbe voluto salvarlo dalla dannazione eterna se avesse potuto? Troppe domande le stavano attanagliando la mente, e in quel momento era talmente tanto confusa e frastornata che non aveva il tempo di metabolizzare, figuriamoci di rispondere a delle domande alle quali non si poteva dare risposta. Ma è come se sentisse dentro di se stessa di avere la risposta ad alcune di queste, come per esempio quella su Daktulorodos.

Quando tornò a casa, vide Frank stravaccato sul divano, era quasi sera, e alla tv davano un talk show.
«Oh eccoti.» la salutò il genitore. L'ultima volta che lo avrebbe visto, chissà quando ancora i loro occhi si sarebbero incrociati. L'uomo della sua vita non sarebbe più stata con lei. Fino a quel momento non le era mai davvero passato per la testa, ma ora, che era davanti a lui, in una situazione comune, iniziò a rimpiangere quella quotidianità che le sarebbe mancata chissà per quanto. Cosa sarebbe successo ad entrambi? Lo stava abbandonando per correre appresso ad uno sconosciuto. Oh, ma questa era la sua vita!
«Papà, me ne vado.» le parole uscirono automaticamente dalla sua bocca.
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*δῶρον(doron): dono
** Ἥλιος (Elios)*: il dio Sole, Elio.
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Nota autrice
Ciao! Giunti a questo punto credo sia il caso di dirvi qualcosina. Vi ruberò solamente pochi secondi del vostro tempo. Come avrete già avuto modo di vedere, se avete letto tutto fin qua, uno dei temi cardine della storia è quello della mitologia. Volevo dire che ho preso solamente ispirazione alla mitologia greca (che adoro), ma non mi ci sono basata al 100%, infatti, volutamente, il nome del dio padre di Daktulorodos non c'è(quindi lascio spazio alla vostra immaginazione), e non ci sarà neanche il nome di altri dei che verranno dopo, oppure altri riferimenti alle Ninfe e quant'altro non seguono passo passo il filo greco. Anzi, certe volte potrebbero esserci riferimenti ad altre mitologie, la base è un po' quella greca(magari quando verranno raccontati dei miti esterni agli avvenimenti del racconto) ma rivisitata dalla sottoscritta naturalmente, e il tutto sarà PARTE DELLA MIA IMMAGINAZIONE(si può capire principalmente dai nomi e ai riferimenti di questo capitolo, e ancora di più con l'andare avanti).
Il mio intento non è quello di raccontare la mitologia greca, ma solamente mitologia. Ma vedrete col tempo come si evolverà la situazione.
Questo lo dico per evitare commenti del tipo "sì ma le Moire nella mitologia greca decidono loro l'avvenimento delle cose, non sono gli uomini o gli dei a farlo" oppure "Le Ninfe non facevano questo... non esisteva la cosa della condizione del matrimonio tra umani e dei"; ecco, lo so, ma queste scelte sono state fatte di proposito, e con l'andare avanti dei capitoli capirete il perché.
Spero di non avervi annoiato, ma ci tenevo a precisare questa piccola cosa.

Ma oltre a ciò, come vi sta sembrando la storia? Fatemi sapere 💓
Baci 💋

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