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Storia di una maestra

"Ma io ci voglio andare".

Un manrovescio le tappò la bocca e le lasciò le dita impresse sulla guancia.

"Servi in casa, ho detto. La scuola l'hai fatta".

"Ma se continuo posso..."

La mano di suo padre questa volta calò sul tavolo, e al fragore sua madre sussultò, facendosi più piccola.

"Marì, un'altra parola e mi tolgo la cinghia".

A Maria vennero le lacrime, che non erano salite neanche per lo schiaffone. Inutile insistere oltre, era no.

Scappò in camera a piangere, rabbiosa. A stento era riuscita a frequentare le medie, per ben due anni era rimasta a casa, dopo la quinta; poi, crescendo il numero degli abitanti, finalmente avevano aperte quella scuola anche lì, nel loro paesotto, e aveva ottenuto di potercisi iscrivere.

A quattordici anni le mancava di concludere l'ultimo anno, per prendere la licenza media. E poi c'erano le magistrali in città, il suo sogno, per diventare maestra.

Ma no: la scuola era inutile per i poveracci, diceva suo padre. Erano nati contadini e sulla terra, con gratitudine, dovevano restare; su quella terra che durante la guerra li aveva mantenuti, mentre i cittadini morivano di fame. Soprattutto le femmine, poi, la testa non se la dovevano riempire con le stupidaggini dei libri.

"Io lo odio, mio padre!"

Seduta sul gradino di marmo davanti alla porta di casa, Sara si fece il segno della croce, con gli occhi spalancati dalla paura.

"Non dire così, Maria! È peccato grosso!"

"Ohi Sa'... e non è peccato dare botte ai figli, solo perché non vogliono fare i servi tuoi? Devo stare a casa perché mamma ci ha la pancia un'altra volta... io gliel'ho detto: a che vi serve un altro figlio? Non è di troppo, che già mangiamo a stento, in questa casa? Ma no, al signore non ci piace fare i mezzi, e tanto è mamma poi che se la deve grattare".

"Signore Gesù... come parli Marì? Se ti sentissero, ti leverebbero dal mondo a mazzate!"

"Ché, non è la verità? Che non l'ho sentita mamma dirglielo, di no!, che non voleva, che così ci capitava di nuovo! E mio padre a continuare, soffiando come un mantice... se n'è fregato, che ci aveva voglia e basta. Senza neanche vergognarsi di noi figli dall'altra parte del muro, che si sente tutto! E io, io ora devo stare a casa perché mamma non ce la fa, con quattro figli e il quinto in pancia. Così, manco la licenza prendo, figuriamoci andare alle superiori...

La serva in casa, finché arriva uno come lui, con le mani grosse e pesanti come le sue, e finisco a far figli come una coniglia. No, Sara, io piuttosto m'ammazzo!"

Cresciuta nella casa di fronte, la sua finestra piano terra in faccia alla finestra piano terra di Maria, Sara si segnò nuovamente, con gli occhi sgomenti.

"Marì, non dire così... pensa a quel fratello che ti arriva! Davvero vorresti che non nasce, per poter studiare?"

"Sara, no. Non è questo, ormai c'è e non l'ha nemmeno chiesto lui, di nascere. Però, perché io devo avere meno degli altri? Meno di Franco, che alle superiori si è iscritto, e dopo due mesi si è ritirato... Perché lui ha potuto provare e io no? Io manco la licenza media. Che ci ho meno di lui, io, eh?"

"Parecchia roba, Marì... parecchia roba in meno!"

"Che fai, scherzi? Non ne ho voglia, Sara. Non ne ho filo voglia".

L'amica tentò di abbracciarla, di consolarla.

"E dai... a me la scuola non piaceva, son stata contenta di smettere. Ho cominciato ad andare alla vendemmia, e poi alle olive. Ora mi guadagno la giornata come le altre donne. Sono fiera di come ho fatto in fretta, e mamma, con una parte dei soldi, mi ha comprato roba per il cascione".

Maria fece un gesto, come per scacciare una mosca.

"Il cascione mio, vuoto vorrei che restasse! Una lira che è una lira la dovrebbero spendere per i libri e i quaderni. Allora, sarei contenta".

"Ma il corredo... non ti vuoi sposare?"

"Sara, a quattordici anni?"

Sara sorrise. "Mamma mia ne aveva sedici quando se ne scappò. Poi li fecero sposare. Io ne ho già quindici, e la domenica c'è un tipo che mi segue dopo la messa, e che tutti i giorni passa e ripassa di qua, con quella cosa nuova... la Vespa. Alla festa del patrono scommetto che cerca di farsi avanti".

Maria la guardò con un misto di dispiacere e di rassegnazione. Davanti all'amica, e a se stessa, vedeva una strada senza uscite. In mezzo a due muri così alti da non potersi scavalcare. Lavoro nei campi, matrimonio, figli, cimitero.

"Voglio avere la stessa possibilità che ha avuto mio fratello, perché valgo come lui", disse sottovoce, cocciuta.

"Ma non è vero, Marì. Franco fa il lavoro di un uomo, già. Tu, se vai a giornata, ti danno manco la metà dei soldi".

Maria guardò l'amica scuotendo la testa.

"Quindi, così si misura quanto vale una persona? A chili che ha la forza di sollevare? E il medico del paese, che chili non ne alza manco con un dito? Quando stai male, come lo misuri? Come uno che vale niente o che vale tanto?"

"Che c'entra..."

"C'entra, Sara. Ci sono lavori e lavori. E per farne certi bastano i muscoli, e per altri ci vuole la testa e lo studio. Io sono donna, i muscoli non ce li ho. Ma la testa sì, e la voglia di studiare pure. Quindi io a scuola ci andrò. Domani parlerò di nuovo a mio padre. E di nuovo, e di nuovo. Tutti i giorni, fino a che si stancherà di picchiarmi. Dovrà scegliere se ammazzarmi o lasciarmi perdere. Allora io uscirò di casa e andrò alle medie e poi alle superiori. E vedremo, quanto può valere una femmina".

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