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Capitolo sedici: Voglia di evadere

NATALIE

«No mamma, ti ho già detto che non posso saltare la lezione di domani mattina.»
Imposto il cellulare in modalità vivavoce mentre mangio la pizza che ho ordinato a domicilio.

«Ma ti giuro che facciamo un salto al centro commerciale e poi ti riporto a Yale. Non te ne accorgerai neanche, ti ruberò soltanto per un'oretta»

«No, ti ho già detto no. Lo sappiamo entrambe che se andassimo a fare shopping, perderemmo tutta la giornata. Perché se io sono veloce a scegliere i vestiti, tu impieghi una vita intera!»

La sento sbuffare dall'altro capo del telefono e non riesco a nascondere l'irritazione che questa telefonata mi provoca. Sono passate da poco le sei di pomeriggio; una volta tornata a casa dalle lezioni avrei voluto solo studiare per l'esame di letteratura inglese della prossima settimana, ma non c'è stato verso. È da quasi mezz'ora che mia madre cerca di convincermi affinché la accompagni a comprare nuove robe, dato che la stagione invernale sta per iniziare.

«Ma sei noiosa, studi in continuazione! Almeno hai un po' di vita sociale?» si lamenta e sono sicura che stia alzando gli occhi al cielo, è tipico di lei!

«Sì invece, mamma! Quando gli studenti hanno un esame imminente, non fanno altro che studiare. Comunque sia... mi hai chiamata per dirmi qualcosa di veramente importante che non sia la tua voglia improvvisa di fare shopping?» sbotto irritata.

Prima che possa rispondermi, a un tratto dall'altro capo del telefono giunge un leggero tonfo seguito da un frastuono assordante. Sobbalzo per lo spavento e per poco non mi strafoco con il pezzo di pizza che sto mangiando; probabilmente qualche pentola le sarà caduta sul pavimento.

«Mamma? Ci sei?» chiedo con la bocca piena.

«Sì tesoro! Queste stupide padelle! Non le sopporto...»

Riesco a stento a capire ciò che dice, la sento imprecare e giuro che sto per attaccare, mi sta solo facendo perdere tempo.

«Mamma!» la richiamo all'ordine.

Ho esaurito la pazienza.

«Sì, ci sono, lo giuro!»

«Bene, grazie! Quindi?»

«Sì, una cosa c'è... ha telefonato tuo padre stamattina chiedendomi come te la stessi passando a Yale.»

Sono sconvolta non appena ascolto questa notizia.

«Natalie? Tesoro ci sei?»

«Sì... scusami» dico immediatamente.

Ormai stiamo parlando al telefono da troppo tempo, quindi prendo lo scatolo della pizza, un paio di libri che ho da studiare per l'esame e mi sdraio comoda sul letto.

«Hai sentito cosa ho detto?»

«Sì mamma, ho sentito. Tu che cosa gli hai detto?» chiedo curiosa.

«Niente di che... gli ho raccontato che per quest'anno ti hanno assegnato una camera a Berkeley assieme a quella graziosa ragazza di cui ora mi sfugge il nome...»

«Rebecka, mamma» preciso.

«Ah sì giusto. Rebecka! Gli ho riferito che stai bene, che ti diverti e ovviamente non potevo non dirgli che come al solito studi troppo e non mangi abbastanza» afferma enfatizzando il "troppo", il che mi irrita leggermente, ma preferisco fare finta di niente dato che qualunque cosa dirò, mi si rivolgerà contro, in un modo o nell'altro. Con mia madre è sempre così. Quindi è meglio assecondarla, a volte.

«Va bene, ho capito... ora posso andare a studiare?»

«Sì certo, ci sentiamo domani?»

«Certo. A domani!» mormoro per poi chiudere la chiamata.

Fisso il soffitto impassibile, a causa della strana sensazione che questa chiacchierata mi ha provocato. Nostalgia, rabbia e tristezza si confondono dentro di me e immediatamente mille domande cominciano a frullarmi nel cervello.

Che cosa costava a mio padre telefonare me?

Di cosa ha paura?

Forse dovrei chiamarlo io? Ma no... perché mai dovei farlo?

In fondo non mi interessa sapere come sta... o forse sì?

Non lo so.

Io e mio padre abbiamo vissuto diciannove anni sotto lo stesso tetto, comunicando appena, è vero... ma pur sempre sotto lo stesso tetto. Non ne ho mai compreso il motivo, eppure col passare del tempo entrambi abbiamo preferito lasciar correre, e ora che non vive più a casa nostra, non troviamo più una scusa per parlarci. È così triste! D'altra parte è solo grazie a mia madre che sono diventata chi sono oggi; lei mi ha sempre accompagnata a scuola, alle feste, ai concorsi di scrittura. Lei ha asciugato le mie lacrime e mi ha confortata ogni qual volta ne ho avuto bisogno... sempre e solo lei. E nessun altro.

~

Mi sveglio di soprassalto a causa di un rumore fastidioso. Quando finalmente riesco ad aprire gli occhi, moto il cellulare squillare ininterrottamente sulla mia pancia. Mi sono addormentata per sbaglio, quando invece avrei dovuto studiare. Colpa della stanchezza. Sicuramente se non mi fossi stesa sul letto non sarebbe successo.

«Pronto?» rispondo poco dopo senza neanche leggere il nome sullo schermo.

«Tesoro, scusa se ti telefono di nuovo!»

È mia madre.

«Lo so che stai studiando, non ti disturberò più del necessario.»

Vorrei correggerla, perché in realtà stavo studiando.

«Tranquilla mamma, cosa c'è?»

«Non so come dirtelo...»

«Cosa?»

Esita un attimo e sembra che stia pensando, comincio a preoccuparmi non avendo idea di ciò che voglia dirmi. Per quanto ne so, può essere qualsiasi cosa.

«Jackson è venuto qui poco fa, ti cercava.»

Non ci posso credere.

Di nuovo?

«Che ti ha detto?» chiedo immediatamente.

«Mi ha detto che sperava che fossi ancora ad Hartford, ma quando gli ho detto che non c'eri mi ha chiesto dove potesse trovarti a Yale...»

«E tu? Tu che hai risposto?» Mi alzo di scatto dal letto mentre aspetto con ansia la sua risposta.

«Non gliel'ho detto, ovviamente. Gli ho spiegato che non sono proprio venuta a trovarti... ho mentito!»

La rabbia comincia ad avere la meglio su di me, predomina incondizionata su qualsiasi altra sensazione. «Accidenti. Ma che cosa vuole ancora da me?»

«Dai tesoro, non ti agitare...»

«No mamma. È solo che pensavo di essere stata chiara con lui quando sono venuta ad Hartford. Evidentemente mi sbagliavo!»

Gli ho anche rivelato di aver baciato Ander, mettendolo al corrente di un avvenimento importante, affinché capisse che avrebbe dovuto dimenticarmi perché nel mio cuore non c'è più spazio per lui ormai da molto, moltissimo tempo. Lui me l'ha spezzato. Mi ha fatto del male. E ora c'è qualcuno che è in grado di rimettere insieme i pezzi.

«Tesoro... lo sai, Jackson non mi è mai piaciuto, non mi sono mai fidata di lui e oggi posso dire di aver fatto più che bene!»

«Lo so mamma, me lo hai sempre detto, non c'è bisogno di rinfacciarmelo. Ora l'ho capito anch'io.»

«Sì lo so... ma vedrai che prima o poi capirà di doversi arrendere.»

«Speriamo...» sussurro amareggiata. «Ci sentiamo domani mamma... buonanotte.»

«Buonanotte tesoro...riguardati.»

«Sì, lo farò.»

Attacco.

**
PIU' DI UN ANNO FA

Festa di diploma

Sono seduta al bancone del bar e mentre tutti i miei compagni di classe sono impegnati a scatenarsi in pista per festeggiare il diploma, io preferisco mangiare arachidi e patatine. Ho ballato abbastanza per stasera e ora riesco a stento a sopportare il chiasso generale; per fortuna è quasi l'una di notte e mia madre verrà a prendermi da un momento all'altro.

«Ehi...»

Sento una voce non proveniente da molto lontano. Mi volto leggermente e un ragazzo moro con gli occhi verdi mi sorride in modo smagliante.

«Ciao...» mormoro per poi sorseggiare un po' della mia coca cola.

«Piacere, mi chiamo Jackson!» Mi porge la mano e non posso non notare il suo braccio tatuato.

«Io Natalie!» dico stringendogliela.

«Sei sola?»

«In realtà sto per andarmene» ammetto sperando che non voglia cominciare una conversazione con me.

Mi guarda in modo simpatico e subito mi pento per essere stata così scontrosa; in fondo non ho niente da perdere. «In realtà... ero con le mie amiche ma sono andate a ballare e mi hanno lasciata qui.» Mi guardo intorno sperando di intravederle.

«E tu non balli?»

«No... ho ballato durante tutta la festa, ora sono stanca! E poi davvero me ne sto per andare.»

«Ah sì? A dire la verità sembrava più che altro una scusa per non parlarmi!»

La sua affermazione mi fa ridere.

Be', in fondo non hai mica tutti i torti!

«Siamo finalmente diplomati, eh?» Si siede sullo sgabello al mio fianco.

«Già...»

«E sentiamo... che piani ha per il futuro questa bella ragazza?»

«Io? Be'... tra un paio di mesi mi trasferisco a New Haven, sono stata ammessa alla facoltà di lettere di Yale» dico placida, e solo il pensiero di ciò che mi attende mi rende al contempo entusiasta e spaventata.

«Wow, allora sto parlando con un piccolo genio!» Ride.

«Non mi definirei proprio così, ma grazie.» Arrossisco. «E tu? Hai qualche ambizione?» gli chiedo poco dopo.

«Io?» ride. «No! Continuerò a lavorare nel bar di sempre. È di un mio zio, ci lavoro da quando ho undici anni.»

Annuisco e guardo l'orologio appeso alla parete, sperando che mia madre mi mandi un messaggio avvertendomi di uscire. Jackson non è una cattiva compagnia, in realtà è anche un bel ragazzo, ma le sue domande e il suo modo di parlare mi fanno sentire a disagio. Inoltre non credo che abbiamo chissà quali interessi in comune, per non parlare del fatto che è troppo sicuro di sé, il che lo rende particolarmente fastidioso.

Poco dopo lo vedo afferrare dalla tasca dei jeans un pacco di sigarette, ne porta una alla bocca per poi accenderla.

«Vuoi?» mi chiede.

«No, non mi va. E in realtà non dovresti farlo neanche tu, qui dentro è vietato fumare!»

«Si, si, lo so! Ma non faccio mai ciò che mi dicono...»

«Be... in questo caso potrebbero cacciarti» dico leggermente infastidita dal modo in cui si comporta.

«E tu verresti con me? Se mi cacciassero?»

«No, non credo proprio...» rivelo per poi mangiare una patatina.

Cavolo, quanto è arrogante!

«Sei una che segue le regole, non è vero?» mi chiede.

«Non sempre, ma in questo caso sì.» Gli rivolgo un sorriso finto e lui ride.

«Ho capito, ho capito!» Spegne la sigaretta da poco iniziata. «Contenta?»

Lo guardo incredula, non credendo che lo avrebbe fatto. «Sì... ora mi sei più simpatico!» gli rivolgo un sorriso e faccio l'occhiolino.

Sorride divertito. «Sei fidanzata?»

Perché gli interessa?

«No...»

«Spero che sia per una tua scelta, perché se fosse per me non esiterei neanche un secondo a chiederti un appuntamento...»

La sua affermazione mi fa avvampare; non capisco se stia parlando sul serio o meno... forse mi sta solo prendendo in giro e io sono troppo ingenua per capirlo.

L'attimo dopo il mio cellulare s'illumina; è mia madre che finalmente è arrivata, il che mi rende improvvisamente sollevata.

«Mi dispiace, ma ora devo andare via!» mormoro alzandomi in piedi.

«Quindi è un sì?»

«Mm?»

«Esci con me?» ripete.

«No, non credo... ma grazie comunque della compagnia!»
***

Sono seduta sulla poltrona nell'angolo della mia stanza, impassibile. Mi sento completamente sommersa dai ricordi, mentre un nodo mi stringe la gola. Non riesco a reagire. Vorrei poter dimenticare le parole di mia madre e riuscire a fare finta di niente, ma ogni parte del mio corpo si rifiuta di farlo. In realtà quello di cui ho realmente bisogno è lasciarmi andare e piangere, ma non posso permettere che questo accada; Jackson non merita le mie lacrime.

Quando il mio cellulare si illumina sul mio letto, vorrei solo lanciarlo contro il muro.

Che cos'altro c'è, adesso?

Un altro messaggio? Un'altra chiamata? Sono troppo lontana per capirlo. Faccio fatica ad alzarmi, quasi ho paura di vedere di cosa si tratti.

Non appena afferro il cellulare, sento le gambe tremare. Il nome di Ander giganteggia sullo schermo: "Sei pronta per un altro tour? Ti aspetto fuori Berkeley... vieni subito."

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