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2. Cimeli di famiglia

Dopo quattro ore da quella telefonata, Marzia è in piedi nel salotto di sua madre, davanti al caminetto spento. Sorregge tra le dita una tazza di tè caldo allungata con due dita di latte.

Di fronte a lei, lo sguardo bronzeo di Benito Mussolini la fissa truce dal ripiano di marmo.

«Ma quest'affare deve rimanere qui per forza?» Si volta all'indietro, alla ricerca del viso dell'anziana, seduta nella poltrona reclinabile con una copertina di tweed ripiegata sulle cosce ossute. «Voglio dire, papà è morto da tre anni. Non credo che se la prenderebbe se lo togliessimo... E mettessimo al suo posto... be', qualsiasi altra cosa. Davvero qualsiasi.»

«No, no, no, no.» Suo fratello, che fino a un attimo fa si trovava nei pressi del piano di cottura per versarsi un altro po' di latte nel tè, compare agitato sulla soglia e le punta il dito contro. «Non ci pensare proprio. Tu i cimeli di papà li lasci dove sono.»

«Oddio, che palle, Danilo.» Marzia alza gli occhi al cielo. «La puoi anche smettere di fargli da paggio. Guarda che sta sottoterra.»

«Dici così solo perché sai che il suo figlio preferito ero io. E poi, porta rispetto!»

«Oh, calmatevi, voi due!» Mamma alza la voce di botto, solleva una mano rugosa per aria e, subito, se la richiude sul petto. Poi, il suo sguardo si distende, sbatte le palpebre e inclina piano la testa in direzione di sua figlia. «Non preoccuparti, Marzia, non ce n'è bisogno. So che vostro padre aveva idee un po', un po'...» Si sofferma a cercare il termine giusto.

«Fasciste?»

«Rigide. Ma ormai non ha più importanza.» Volge lo sguardo alla finestra, pensosa. «Siamo stati sposati per sessant'anni. Per quanto possa essere stato un uomo un po', un po'...»

«Fascista?»

«Autoritario.» Rotea le pupille alle ventole del lampadario. «È stato comunque la mia vita. E non me la sento di mettere via la mia vita così in fretta. Tutti questi oggetti sono solo soprammobili, per me. Non ci lego più nessun significato ideologico. Ma so che toglierli non farebbe altro che ricordarmi che Ettore non c'è più...»

Marzia sospira. China la testa sul petto, un po' pentita di aver suscitato quel velo di tristezza nei suoi occhi grigi, quell'espressione di nostalgia contrita, inconsolabile ma, al contempo, rassegnata.

«Va bene, mamma...» mormora piano. «Però... almeno il busto del Duce...»

«Gesù, ma perché insisti?» Per una qualche ragione inspiegabile, Danilo parla sempre a un volume inaudito, anche quando le sue interlocutrici sono solo due, e tutte raccolte in una piccola stanza. «Devi essere sempre così insensibile? Mamma ti ha appena detto una cosa a cuore aperto, e tu stai lì a impuntarti sul busto di Mussolini. Sai qual è il tuo problema? È che tu non capisci cosa voglia dire perdere un coniuge, perché non ami nessuno, sei sempre stata sola come un cane e sei diventata arida.»

«Danilo, smettila! Non parlare così di tua sorella!» Palmira, irritata, poggia la sua tazza sul bracciolo della poltroncina, una smorfia sul viso. Tira un lungo sospiro e, ritrovata la calma, rivolge a sua figlia un complice sorriso. «Marzia non è affatto sola. Lei vive con la sua...» E si blocca, per riflettere bene sulle parole da utilizzare. «Coinquilina. Alice, giusto?»

Marzia aggrotta le sopracciglia. Non si dà nemmeno la pena per rispondere al fratello. Prende un piccolo sorso dalla sua tazza ancora fumante e si siede all'angolo del divano, vicino a sua madre.

«Alice, sì.»

«Ecco.» La signora Palmira, i capelli bianchi in una piega perfetta, si tocca il crocifisso al collo e muove piano la testa avanti e indietro. «Magari non avrà contratto un matrimonio tradizionale come te, Danilo. Ma anche questa è pur sempre una forma d'amore. Esistono tante forme d'amore e di famiglia... e tutte hanno il diritto di esistere, agli occhi del buon Dio.»

«Hm.»

Marzia assottiglia lo sguardo. Sì, tutto bello, in linea teorica. Peccato che Alice sia davvero la sua coinquilina. No, peggio: è la sua padrona di casa, in quanto Marzia sta in una stanza in subaffitto nel suo appartamento.

Tuttavia, potrebbe mai avere cuore di contraddire la vedova ottantenne di un ex-tesserato del Movimento Sociale Italiano proprio nel momento in cui se ne esce con un discorso così progressista?

«Già.»

Danilo rimane un po' in silenzio, rigido sotto lo stipite della porta.

«Che Dio ci perdoni» borbotta disgustato. «Comunque, io tra poco vado a casa. Ci vediamo domani, mamma.»

Con la scusa di dover tirare fuori dal cassettone delle federe pulite e una coperta pesante per la notte, Marzia lascia sua madre qualche minuto da sola, di fronte a una replica di Poirot già iniziata, e se ne va al piano di sopra, nella cameretta di quando era adolescente, ad accendersi una sigaretta vicino alla finestra, affacciata sul buio di Via Bruno Buozzi.

È raro che Marzia si fermi a dormire qui, nella sua vecchia casa di Rimini. Tuttavia, Palmira non ha mai pensato di assegnare alla sua stanza una destinazione diversa. Per questo, al suo interno, fatta eccezione per qualche scatolone depositato nell'angolo, tutto è rimasto identico nel corso degli ultimi quarant'anni.

Le tende hanno ancora quella orribile fantasia a fiori gialli e marroni, la custodia del giradischi portatile fa ancora da appoggio all'abat-jour di plastica arancione, e lo sguardo inquietante della bambola Furga è ancora proiettato in direzione della testiera del letto.

Tutto come al solito. Tranne che per un dettaglio: a un tratto, l'occhio di Marzia cade su un'irregolarità, nella parte inferiore della mensola. Si tratta dello spigolo di una piccola cornice di ferro, incastrata per metà dietro al legno e sospesa nel vuoto.

«Dev'essere scivolata...» borbotta tra sé e sé.

E così, spenta la sigaretta nel vaso di una pianta morta a bordo finestra, la donna attraversa la stanza e, con ambo le mani libere, cerca di sfilarla la da quella posizione precaria, senza far crollare tutta l'impalcatura di soprammobili che la sovrasta.

E, una volta che riesce a prenderne possesso, le pare di avere un calo di pressione. Si lascia ricadere di peso sul letto, preda di un attacco di tosse convulso, e una cupa bolla di orrore si chiude attorno alla sua testa.

«Cris-to...»

Quando riesce a riprendere controllo di sé, i suoi occhi sono bagnati di lacrime. Il vetro che protegge la fotografia è ricoperto da un sottile strato di polvere e Marzia, con i polsi tremanti, scorre il pollice scorre sul viso delle due ragazzine al centro dell'immagine ingiallita.

Se ne stanno a braccetto, in piedi su degli spalti, e sorridono in direzione dell'obbiettivo.

Dietro di loro, inconfondibile, lo stadio di Bologna immerso in un tramonto estivo; e quel palco, eretto in lontananza, su una fiumana di umanità, in trepidante attesa dell'inizio concerto.

«Dio...» Marzia, di colpo, ha il cuore stretto in una morsa. «Leda.»

«Mamma, guarda cos'ho trovato di sopra.»

Palmira, senza scomporsi, abbandona di lato i ferri dell'uncinetto e si fa porgere la cornice dalla figlia. Resta per un po' a studiarla, alla luce gialla della lampada da pavimento dietro di lei.

«Oh!» L'indice rugoso picchietta sulla figura della ragazza dai capelli neri e ricci, raccolti in una coda dietro la testa. «Ma questa sei tu! Sei tu, non è vero?»

«Sì.» Marzia, alle spalle della poltrona reclinabile, si lascia sfuggire un sorriso. «Sì, sono io.»

«Oh, mamma mia! Com'eri piccola! E... com'eri bella, tesoro... Oh, come passa il tempo... E questa...» Il suo dito scorre, indeciso, sulla figura accanto: una ragazzina bionda, della stessa età, coi capelli a caschetto e il naso pieno di efelidi. «Questa... Non è quella tua amica? Si chiamava...»

Marzia deglutisce. «Leda» sussurra.

«Oh, sì, sì, Leda! Sì, mi ricordo di lei. Era una tua compagna di scuola... di Bologna. Vero?»

«Sì.»

«Stavate sempre insieme... Veniva spesso a casa nostra, quando stavamo ancora a Bologna, vero? Oh, sì... Sì.» La madre scuote piano la testa, lo sguardo perso di fronte a sé, come se quelle due piccole pesti fossero ancora lì, e lei potesse dir loro qualcosa, tipo: "Pensate anche a fare i compiti! Non combinate disastri!" Poi aggrotta le sopracciglia canute. «Quando... Quando è stata scattata?»

«Non... Non lo ricordo, di preciso...» farfuglia sua figlia. Anche se non è la verità.

«Eh... Sono passati... Tanti anni.»

Le due donne restano un po' in silenzio.

«Ti spiace se me la porto via?»

Palmira resta ancora un po' lì a soppesarla, poi gliela restituisce.

«Ma sì, figurati.» E riprende a sferruzzare. «Io non ricordavo nemmeno che fosse in casa.»

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