18. Tre, undici, trentatré
Lippo, quattro chilometri e mezzo a Nord di Trebbo. Marzia inserisce la freccia quasi all'ultimo secondo, poi svolta a destra, in una traversa di via Surrogazione. Si ritrova a metà strada tra due condomini, abbastanza simili tra loro nella loro dozzinalità architettonica, entrambi dotati dello stesso miserevole giardino sulla facciata principale. Quello di sinistra, in particolare, ha la parete esterna in falsi mattoni rossi, e tanti terrazzini tutti uguali, sempre sormontati dalla stessa tenda parasole sbiadita.
Marzia lascia l'auto poco più avanti, a fianco di un muro dall'intonaco scrostato. Controlla di non aver lasciato niente sul sedile del passeggero, lo sguardo le cade sul tappetino di fronte.
C'è un'impronta. L'impronta di uno stivale, forse un trentasette, appena umido di fanghiglia.
Ci fa caso solo adesso.
La figura di Erica, per un attimo, si materializza lì, accanto a lei. Fuori è di nuovo buio, la pioggerella picchietta sul finestrino. Poi, svanisce. Sono di nuovo le cinque del pomeriggio. E lei si trova a circa otto chilometri dalla città.
I suoi polmoni si svuotano. Si è imbottita di antidolorifici prima di uscire, e ora la sua testa è come serrata dentro a una boccia. Tira la leva del freno a mano, estrae la chiave. C'è un leggero venticello, fuori dall'auto, ma non è lungo il tragitto che deve fare. Pochi metri più in là, infatti, c'è la porta d'ingresso in vetro opaco, sormontata da sbarre.
" D A V O L I ".
L'etichetta adesiva in bassorilievo, sul citofono appeso nella rientranza, è stata fatta con una vecchia stampante a ruota.
Marzia solleva lo sguardo per aria. Il cielo è bianco, coperto in maniera uniforme da un sottile strato di nubi. Si sistema la cinghia della borsa sulla spalla, si aggiusta il colletto del cappotto, e preme l'indice sull'ultimo campanello della lista.
Fa un passo indietro.
La voce distorta della proprietaria di casa prorompe dall'apparecchio dopo pochi secondi.
«Sì, chi è?»
La stessa domanda, ma priva di modulazione meccanica, ha riecheggiato con un leggerissimo anticipo a pochi metri di distanza, al di là della porta.
«Parlo con la signora Davoli?»
«Sì...?»
«Bene. Salve, sono Marzia.»
«Chi?!»
Aggrotta le sopracciglia. «Marzia Ciano... Quella del motel...»
Passa qualche secondo di silenzio.
Borbottio incomprensibile.
«Piano terra, sulla destra» aggiunge poi la signora Davoli, a voce più chiara. Dopodiché, chiude il collegamento.
Il meccanismo di apertura sbotta in una ferruginosa vibrazione. Marzia spinge la maniglia verso l'interno, e si ritrova nel piccolo atrio, in fondo alle scale.
«Sulla destra...» borbotta tra sé e sé, e avanza sulle mattonelle in graniglia.
In effetti ci sono due porte, nel piccolo ambiente dalle pareti color verde menta. La prima, sulla sinistra, è in legno scuro. Al suo fianco ci sta una grossa pianta da appartamento, forse un ficus. La seconda, invece, è verniciata di un brutto beige. Sta sulla destra, avanti all'inizio delle scale.
«Dev'essere questa, allora.» Marzia si volta di quarantacinque gradi e si posiziona a un passo dall'uscio. Di certo, la signora Davoli verrà ad aprirle a breve.
Silenzio.
«Cristo.» Si sporge in avanti per bussare. «Signora Davoli?!»
Si sente un piccolo click metallico, che Marzia subito associa al richiudersi del coperchietto dello spioncino. Poi, la porta si apre. Dal sottile spiraglio si affaccia un viso rugoso, nascosto per metà da due enormi lenti squadrate e sormontato da una messa in piega vaporosa, di color argento.
La signora Davoli allunga il collo come una testuggine di terra.
«Marzia» le sibila.
Marzia raddrizza la schiena.
«Luigina.»
Le due si fissano a lungo, le bocche rigide come fessure di salvadanai.
«Insomma... Mi fai entrare o no?»
«Ghhh.» La signora Davoli solleva il labbro superiore, solo da un lato. Si allontana dall'uscio, lasciandosi la porta semiaperta alle spalle.
Bene.
All'interno dell'appartamentino, salotto, sala da pranzo e cucina sono unite in un unico grande stanzone. Il modesto spazio che divide il divano dal supporto del televisore è occupato da un basso ripiano apparecchiato da riviste e agendine sovrapposte fino all'ultimo centimetro. Sul pavimento, a fianco di una poltrona reclinabile, c'è una grande scatolone verde bottiglia, pieno di gomitoli e di ferri per l'uncinetto.
Marzia richiude la porta, avanza di fronte a sé. Tavolino da pranzo, credenza, libreria, mobiletti e cassettoni... Ogni singolo ripiano, fin dove può estendersi lo sguardo è occupato...
...da cose.
Madonnine, angioletti, tazzine, vasetti, piattini, brocchette; souvenir di San Pietro, di Assisi, Lourdes, Medjugorje, Santiago di Compostela, Guadalupe. E poi...
Da gatti.
Gatti sulle sedie, gatti sul tappeto, gatti sul davanzale, gatti nella lettiera.
«Oh... Gesù Crist-» Un furioso attacco di tosse la salva all'ultimo istante dal crollare a terra per un mancamento.
Marzia è sopraffatta dal kitsch.
«Accomodati, eh. Fai come se fossi a casa tua» La signora Davoli, di spalle, armeggia chinata sul piano di cottura. Per fortuna, è pressoché sorda. «Suppongo che ora ti aspetti che ti serva un caffè? O magari, una tisana?» Il tono della sua voce è alto, sardonico. «O preferisci forse del tè caldo coi biscotti...?»
Marzia procede, con cautela, in direzione del divano. Un mastodontico, gargantuesco felino a pelo lungo col collo incastrato in un cono di plastica la sta fissando da uno dei braccioli, gli occhi pieni di malanimo.
«Sì, Luigina. In effetti un tè coi biscotti sarebbe molto gradito.»
«Immaginavo!»
«Grazie per il pensiero, cara.»
Segue un borbottio incomprensibile.
«Weaoh.»
«No, Agostino. I biscotti non sono per te.»
«Weaoh-uh.»
«No, Agostino. Ti ricordo che hai il diabete.»
Rassegnato, Agostino – a quanto pare, il formidabile felino si chiama così – muove la punta della coda un paio di volte, in su e in giù, per poi dirige di nuovo l'apertura del suo cono in direzione di Marzia. Sguardo assassino. Dopodiché, atterra con un tonfo sul pavimento.
La signora Davoli, seduta sulla poltrona reclinabile, ha un'espressione disgustata. Tiene tra le mani la sua tazza di tè inglese, e osserva Marzia mangiare. Sul tavolino basso, in equilibrio su tutte le riviste e a fianco di un'agendina aperta, c'è una scatola di latta piena di biscotti al burro.
«Uh, buoni. Hm!» Marzia, accomodata all'angolo destro del divano, sorride con affettata cortesia, mentre finisce di masticare. «Questi biscotti danesi sono... davvero squisiti...! Hm!»
«Si può sapere perché sei qui?»
E lei solleva la bevanda fumante, se la porta vicino alle labbra. Ne risucchia un sorsetto, appena una puntina, per poi passarsela da una guancia all'altra, con delicati movimenti della lingua. Si protende in avanti, appoggia la tazza a fianco dell'agendina e intreccia le dita tra loro. Lì, su una pagina bianca, è ripetuta in maniera ossessiva sempre la solita data: 3/11/33, vergata con calligrafia incerta.
Vecchia pazza.
«Sì, certo.» Solleva lo sguardo. «Dimmi, Luigina... Per quanti anni hai lavorato al Purgatory?»
«Ci ho lavorato per trent'anni» risponde con rimarcata gravità.
Marzia annuisce con lentezza. «Dagli anni Novanta, dunque. A quel tempo, com'è che si chiamava...?»
«Hotel Anteo.» La signora Davoli tiene il gomito rigido sul bracciolo e la tazza sospesa a mezz'aria. Il vapore si solleva lento verso il soffitto. «Solo in due continuammo a far parte del personale anche dopo il passaggio di proprietà al compianto signor Antonio».
«Hmmm.» Marzia assottiglia le palpebre.
«Il padre di Martino.»
«Ah, giusto. Certo.»
«Scomparso troppo presto.»
«Pace all'anima sua.»
Silenzio. Marzia allunga una mano alla scatola di latta, si appropria di un altro biscotto.
«Possiamo arrivare al punto?»
«Hai sempre svolto il turno di notte?»
«No.» La risposta arriva fulminea, quasi oltraggiata. «Il signor Antonio aveva la buona creanza di non pretendere che una povera donna venisse lasciata da sola in quel postaccio d'infimo livello dopo le ore del tramonto.»
«Capisco. Un uomo d'altri tempi.»
La signora Davoli la fissa. Non muove alcun muscolo dal collo in giù.
«E... non hai mai notato niente di insolito, durante quel turno?» Marzia addenta un angolo del biscotto.
«Di insolito...? A parte la sua ripugnanza, intendi? A parte la profonda abiezione morale degli individui che erano soliti presentarsi alla reception durante l'orario notturno?!»
«La...» Un pezzo del biscotto si sbriciola ai lati della sua bocca. «La profonda... abiezione?»
«Sì... Gli adulteri. Le prostitute. I papponi. Gli uranisti. I travestiti. Gli albanesi.» Il volume della voce della signora Davoli è una curva ascendente.
«Scusa, hai detto... gli uranisti?»
«Sì. Gli invertiti. I deviati.»
«Ah. Giusto, scusa.»
«I sodomiti.»
«Sì, Luigina, avevo capito. Sì, comunque. A parte quello.»
«Ah, be', non saprei! Cos'altro avrei dovuto notare di insolito, durante il turno di notte?»
«Uhm.» Marzia si mette in bocca ciò che resta del biscotto, mastica piano. «Tu... Tu quand'è che sei andata in pensione, di preciso?»
La signora Davoli digrigna i denti, il suo corpo si scuote e un'increspatura si forma sulla superficie del suo tè, al punto che una goccia fuoriesce dal bordo. «Ma che razza di domande mi fai?! Se è successo dieci giorni fa!»
«Era per fare un attimo mente locale.»
«Non ti sei neanche degnata di venire alla cena di pensionamento, oltretutto!» Indignata, la signora Davoli appoggia la tazza sul bracciolo, si asciuga una nocca bagnata contro il tessuto dei pantaloni.
«Eh, lo so. Mi dispiace. Sarei tanto voluta venire. Purtroppo quel giorno mi sentivo poco bene.»
«Certo! Anche per mettere i soldi per il regalo ti sentivi poco bene?!»
«Ah, a proposito. Ti è piaciuto l'orologio?»
«No!» Poi, di colpo, la signora Davoli riprende il controllo. Le sue narici si allargano, inspira piano dal naso, poi esala. «Marzia, che cosa vuoi?»
«Voglio che tu mi dica cosa sai di Aiakòs.»
«Di... cosa?!»
«Di Aiakòs» ripete, imperturbabile.
Luigina la guarda allucinata.
«Uhm. Il nome Èaco ti è più familiare, forse...?»
«Èaco...» Luigina si porta le dita al mento. «Èaco... Uhm, questo nome non mi è nuovo.» Riflette a lungo, con lo sguardo puntato al tavolino. «Non... Non era... Non era uno dei giudici delle anime dell'Ade?»
Questo non se l'aspettava. «Eh? Come, scusa?»
«Mi pare che fosse menzionato in un dialogo di Platone... Il Gorgia, forse?»
«Sto... Sto parlando del gatto... Aspetta, ma tu ti leggi i dialoghi di Platone?!»
«Ho frequentato Lettere Antiche, io. Nel Sessantotto.» Il labbro si solleva in un moto di ribrezzo. «Il peggior anno possibile per iscriversi all'Università... in tutta la storia del Novecento.»
«Ma... dici sul serio?» Marzia inarca le sopracciglia.
«Sì.» La signora Davoli, con espressione immutata, si tocca all'altezza dell'incavo del collo, alla ricerca di un ciondolo nascosto sotto al foulard. «Marzia, quale gatto?»
E lei scuote la testa, cerca di riprendere il filo del discorso. «Il... Il gatto randagio, bianco e nero, che si aggira sempre attorno al motel.»
Luigina ci pensa per mezzo secondo. «Non ce l'ho presente.» Poi aggrotta la fronte. «Marzia, non dirmi che sei venuta qui per chiedermi di un gatto randagio.»
«No, io...»
E poi, un flash.
Alle spalle della signora Davoli, oltre la sua poltrona ergonomica, Agostino spinge una porta col busto e s'intrufola in una stanza. Il suo cono si struscia contro il legno, lascia aperto uno spiraglio. C'è una normalissima camera, dall'altra parte. Lui...
Lui era più o meno alla stessa distanza.
«Il telo! Il telo, forza!»
«Al tre! Uno, due tre!»
«Dai, dai, ci siamo!»
«Marzia?!»
Marzia torna in sé. Fissa la signora Davoli dritta negli occhi. Di colpo, è seria.
«E cosa mi dici... delle stanze?»
«Che... Che intendi dire?» chiede l'altra, scocciata. «Che cosa dovevo notare di insolito, nelle stanze?»
«Ti è mai successo» scandisce con lentezza, «che... arrivassero delle persone... a chiedere alcune, specifiche stanze... e che poi... la mattina dopo... fossero... sparite?»
La signora Davoli assottiglia lo sguardo.
«Sparite.»
«Sì, Luigina. Sparite.»
«Marzia, sto perdendo la pazienza.»
«Rispondimi! Dimmelo e basta. Ti è mai successo... oppure no?»
E la signora Davoli si umetta piano le labbra sottili. «Strano, non sembri avere particolare familiarità con questo lavoro. Evidentemente, non hai imparato granché, in questi anni al banco. Gli ospiti hanno sempre pagato in anticipo, e si dà il caso che io staccassi o alle cinque o alle sei del mattino, a seconda del periodo. Grazie a Dio, in ambo i casi, non ero costretta a rivedere le loro facce il giorno dopo.»
«No, no...» Marzia scuote la testa.
«E comunque, a prescindere, erano parecchi quelli che se ne andavano alla chetichella senza ripassare dalla reception. Quindi sembra proprio una domanda stupida, la tua.»
«No. Io mi riferisco a persone che spariscono nel nulla, Luigina!»
«Ah... Ah, nel nulla.»
«Sì. Nel nulla!»
«Certo, adesso è chiaro.» La signora Davoli afferra entrambi i braccioli e, con un certo sforzo, si dà la spinta per rimettersi in piedi. «Be', Marzia. È stato un vero piacere averti qui. Adesso però, devo pregarti di andartene. Sono molto impegnata.»
«Solo un secondo...»
«Scusa, ma davvero non ho tempo per queste... Queste fantasticherie.» Si approssima a lei, la tocca di malo modo sul braccio, come a scacciarla. «Su, alzati! Lasciala pure lì, la tazza, ché... ci penso io.»
Marzia non ha scelta. La signora Davoli è a mezzo centimetro da lei e non sembra disposta a negoziare. Sospira. «Okay, va bene!» Afferra la sua borsa dal tappeto. «Me ne vado.»
«Sì, ecco.» Con evidente sollievo nel tono, la signora Davoli l'accompagna – se così si può dire – a piccole spinte in direzione della porta d'ingresso. «Ti direi di ripassare a trovarmi, ma purtroppo sono spesso fuori casa.» Gira la maniglia della porta. «Non vorrei farti fare viaggi a vuoto, insomma...»
Marzia è già per metà nell'atrio. D'istinto si volta all'indietro, con lo sguardo incrocia il tavolino, nel punto in cui ha lasciato la tazza, vicino a quell'agenda, dove c'era scritto ...
Aspetta.
E afferra di colpo il bordo dello stipite.
Ruota la testa in direzione della padrona di casa, col cuore in gola.
«Tre... undici... trentatré» le sibila.
L'altra, di colpo gelata, spalanca le palpebre per gradi. «...Eh?!»
«Tre, undici, trentatré...» ripete, sardonica. «Ti dice niente... Luigina?!»
Il suo volto si illividisce. «Non... Non so di cosa parli.» A sguardo basso, fa per chiudere la porta d'ingresso.
«Ah, no?!» Marzia blocca la porta col piede. «Quindi... non ti è mai successo... di voltarti verso la bacheca... e di accorgerti che mancava proprio una... di queste tre chiavi?»
L'altra è atterrita.
«E, magari, non so! Di ritrovarle... nelle rispettive camere... senza che fossi stata tu a portarcele?»
«Vattene!»
«È così, vero? Ho indovinato! Luigina, rispondimi!»
«Fuori!» La spintona, con una forza inaspettata. «Esci da casa mia!»
E sbam. La porta si richiude. Segue il clang della serratura.
Marzia si ritrova nell'atrio, da sola.
Poi, sente sottilissimo suono metallico, più o meno all'altezza della sua testa.
Si volta. Punta lo sguardo allo spioncino.
«Lo so che sei ancora lì dietro, fottuta beghina!»
«Tribade!» si sente dall'altra parte.
«Carogna!» Marzia si affretta verso l'uscita.
«Strega!»
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