Provocation
Katsuki si alzò lentamente dal letto, il corpo ancora indolenzito e la gamba destra che bruciava ogni volta che provava a muoverla. La ferita era ancora pulsante, ma la febbre che lo aveva fatto delirare sembrava essersi abbassata. Con cautela, si mise a sedere sul bordo del letto, osservando Izuku, profondamente addormentato, rannicchiato accanto a lui. Il poliziotto doveva essere sfinito, la tensione della notte precedente ancora visibile nel modo in cui stringeva la coperta con le mani.
Con un leggero gemito di dolore, Katsuki si alzò in piedi. Tremava, il corpo indebolito dagli sforzi, e si accorse subito che la stanza era fin troppo fredda. «Dio... fa un freddo porco!», borbottò tra sé, zoppicando verso il pitale sotto la finestra per liberarsi. Cercava di non fare troppo rumore per non svegliare Izuku, anche se una parte di lui trovava divertente il pensiero di fargli uno scherzo.
Dopo aver fatto pisciato, si diresse verso la stufa: il fuoco si era ridotto a poche braci deboli, così prese un pezzo di legna e lo aggiunse al focolare, provando a piegarsi con fatica per ravvivare lentamente le fiamme, soffiandoci sopra con cautela. Lo scricchiolio della legna che prendeva fuoco e il calore che iniziava a diffondersi piano gli diedero una sensazione di sollievo. Fece per allungare la gamba, ma il dolore alla ferita lo fece sussultare, costringendolo a stringere i denti e trovare appiglio contro la canna fumaria della stufa, appena tiepida
«Sono messo proprio bene...», mormorò, zoppicando fino al catino d'acqua accanto al fuoco per sciacquarsi le mani. L'acqua gelida gli risvegliò i sensi intorpiditi e spostò momentaneamente il fastidio dalla gamba alle dita intorpidite. Si passò le mani sulla camicia, trovandola aperta e umida. Un ricordo vago della notte appena trascorsa gli passò per la mente mentre si rivestiva con calma e faceva altri due passi zoppicanti fino all'armadio dove sapeva che il poliziotto teneva un po' di cibo. Aprendolo, trovò quello che cercava: uova, pancetta e un pentolino per scaldare l'acqua per il caffè.
Si mise a lavorare lentamente, consapevole di non poter fare troppo sforzo, ma determinato a preparare qualcosa di caldo per entrambi. Zoppicando, riuscì a spostarsi davanti alla stufa, inserirvi un ciocco più grosso e poi mettere la pancetta a friggere in un padellino, rompendovi accanto un paio di uova, il profumo del cibo che iniziava a riempire la stanza. Mentre aspettava che la colazione fosse pronta, mise il pentolino dell'acqua sul fuoco per il caffè.
Quando anche il profumo del caffè iniziò a diffondersi nell'aria, mescolandosi con quello della pancetta, Katsuki si voltò per dare un'occhiata a Izuku, che si agitava lentamente sotto le coperte e sorrise tra sé, pensando che fosse giusto così: dopo tutto, Izuku lo aveva accudito per tutta la notte, ora toccava a lui fare qualcosa. Minimo, pa pur sempre qualcosa.
Izuku aprì gli occhi lentamente, stropicciandosi il viso e sollevando il capo dal cuscino, confuso.
«Ma... Ma che-» mormorò, la voce ancora impastata dal sonno.
«Colazione.» rispose Katsuki, girandosi a guardarlo con un sorriso sornione. «Pensavi di essere l'unico capace di fare qualcosa qua dentro?».
«Katsuki! Che-che ci fai in piedi?», Izuku si sollevò di più, sedendosi di scatto e osservando la scena davanti a sé con aria incredula. «Hai... Hai preparato da mangiare?» chiese, ancora un po' sorpreso dal gesto.
Katsuki alzò le spalle, zoppicando verso il letto con il piatto di uova e pancetta. «Non fare troppo il sentimentale, eh. Ma sì, ho preparato qualcosa. Avevo fame. Ho solo fatto una porzione in più per te.»
Izuku non poté fare a meno di ridacchiare. «Non ti sei dovuto sforzare così tanto, Kacchan. Potevo farlo io.»
Katsuki sbattè le palpebre a sentire quel nomignolo, non comprendendolo. O, forse, se l'era solo immaginato.
«Lo so. Ma volevo muovermi un po'... mi sono rotto le palle di stare sdraiato tutto il tempo!»
Katsuki gli porse il piatto e si mise a sedere accanto a lui sul materasso, la gamba distesa perché gli facesse meno male, sorseggiando il caffè appena preparato.
Izuku prese il piatto, annusando il cibo con un sorriso. «Grazie...» sussurrò piano, il sonno ancora nei suoi occhi verdi.
Katsuki scrollò le spalle, fingendo indifferenza, anche se un piccolo sorriso gli spuntava sul viso.
Mentre mangiavano in silenzio, il rumore delle posate che raschiavano la stessa pentola di metallo era l'unico suono nella stanza, oltre al crepitio del fuoco, ormai ben vivo nella stufa. Izuku osservava Katsuki di sottecchi, la curiosità che lentamente cresceva in lui. Si ricordava di quello che Katsuki aveva accennato il giorno prima riguardo la sua vita da ragazzino, e quella curiosità ora stava prendendo il sopravvento.
Dopo un po', però, il suo spirito da detective prese il sopravvento e non riuscì a trattenersi. «Ehi... ieri hai accennato a quella tua promessa sposa...» iniziò, la voce incerta, quasi temendo di toccare un tasto delicato. «Com'è andata a finire? Voglio dire, avevi solo quattordici anni...»
Katsuki si fermò un attimo, con una forchetta a mezz'aria, guardando di lato con un'espressione che non era né seria né scherzosa. Poi, senza distogliere lo sguardo dal suo cibo, fece un mezzo sorriso sarcastico. «Ah, quella storia...»
Izuku continuava a osservarlo, cercando di decifrare il suo umore. «Non dev'essere stato facile... immagino che non fossi proprio entusiasta dell'idea.»
Katsuki si appoggiò allo schienale della sedia, stiracchiandosi leggermente con un'espressione quasi annoiata. «Quella ragazza... non era niente di che. Brava, dolce, tranquilla... il tipo di ragazza che i miei avrebbero voluto per me, sai? Insomma, una promessa sposa perfetta secondo i loro canoni.» Fece una pausa, come se stesse decidendo se raccontare il resto o meno. «Era di buona famiglia, educata. Era tutto già pianificato: avremmo aspettato la maggiore età, ci saremmo sposati e avremmo fatto dei figli...»
Katsuki lasciò cadere la forchetta nel piatto, fissando il fuoco con uno sguardo distante. «Solo che a me non fregava un cazzo di quella vita. Quella cena, le chiacchiere, i sorrisi forzati... Mi sentivo in trappola. E lei era solo una parte di quel piano che non volevo seguire.»
Izuku ascoltava attentamente, immaginando la scena nella sua mente. «E quando hai capito che quella vita non faceva per te?»
Katsuki sorrise, quasi divertito dal ricordo. «La sera stessa, praticamente. Mi ricordo quella dannata cena...Te l'ho detto, no? I miei genitori con i suoi genitori che parlavano di noi come se fossimo bestiame. Come se l'unica cosa che contava davvero fosse dare eredi alle nostre cazzo di famiglie... Appena ho potuto, sono sgattaiolato fuori da casa, cercando qualcosa di più... interessante.»
Izuku rimase in silenzio per un attimo, riflettendo su quelle parole. «E lei? Che fine ha fatto?»
Katsuki fece una risatina. «Lei? Beh, credo si sia sposata con qualcun altro, alla fine. Non è che l'ho più vista dopo che ho cominciato a infilarmi nei giri loschi. Non c'era spazio per le ragazze della buona società nel mio mondo, sai?» Si prese una pausa, poi aggiunse: «Non che mi importasse davvero.»
Izuku annuì lentamente, cercando di processare quello che aveva appena sentito. Era strano pensare che qualcuno come Katsuki avesse avuto quel tipo di passato, con un futuro così già scritto davanti a sé. Ma era chiaro che nulla lo aveva mai trattenuto. Katsuki aveva scelto di vivere secondo le sue regole, anche a costo di buttare via tutto ciò che gli era stato promesso.
«E i tuoi?» chiese Izuku dopo un attimo, un po' più timoroso di toccare l'argomento.
Katsuki sospirò pesantemente. «Loro? Beh, diciamo solo che non gli è piaciuta molto la mia scelta. Mi hanno praticamente disconosciuto, e da allora non li ho più sentiti. Ma va bene così. Non mi sono mai pentito.»
Izuku continuava a fissare il piatto, il cibo dimenticato mentre ascoltava il criminale parlare del suo passato.
«Vorrei sapere di tuo padre.», disse d'un tratto Katsuki, il tono risoluto e gli occhi cremisi piantati in quelli verdi di Izuku, visibilmente in difficoltà. Si sporse all'indietro, puntellandosi con le mani sul materasso e inclinò leggermente la testa e, con tono sorprendentemente delicato, chiese: «Parli sempre di tua madre, ma... com'era tuo padre?»
Izuku fece un respiro profondo, come se stesse cercando di trattenere le emozioni. Non rispose subito, ma Katsuki, notando la sua esitazione, insistette: «Dai, parla. Non è che posso farti del male, sono qui a letto e non posso nemmeno andarmene.», e mosse la gamba ferita abbozzando un sorrisetto.
Izuku sbuffò, abbassando lo sguardo, e poi, con un tono quasi rassegnato, cominciò a parlare: «Mio padre... era davvero un brav'uomo. Poi però, quando ero piccolo, ha perso il lavoro a causa di un brutto infortunio in fabbrica. Da quel momento è cambiato. Si è incupito e ha cominciato a bere. Ogni giorno... Lui tornava a casa ubriaco, e finiva i soldi che mia madre guadagnava lavorando come sarta. La nostra casa era... era diventata un campo di battaglia.»
Il volto di Katsuki si fece più serio mentre ascoltava. «Cosa succedeva, esattamente?»
Izuku continuò, con voce bassa e carica di dolore, le dita delle mani che si torturavano tra di loro: «Era diventato violento quando beveva. Picchiava mia madre e picchiava me. Quando non era a casa, spariva per giorni, e non sapevamo dove fosse. O, meglio, credo che mia madre lo sapesse, ma non volesse davvero andare a prenderlo e riportarlo a casa... Poi, un pomeriggio, la polizia bussò alla nostra porta dicendo che mio padre era all'obitorio. Era morto per sindrome alcolica.»
Il silenzio che seguì era pesante, e Katsuki poté notare la rabbia e il dispiacere negli occhi di Izuku. «Non posso nemmeno immaginare...», disse Katsuki, con un tono che cercava di essere comprensivo, ma anche cinico, come se stesse cercando di ottenere una reazione.
Izuku annuì lentamente, quasi non riuscendo a guardare Katsuki. «Non ho mai avuto l'opportunità di dirgli quanto fossi arrabbiato con lui, di dirgli che avrebbe potuto cambiare le cose. Ma quando è morto... il danno era già stato fatto. E mia madre ha dovuto affrontare tutto da sola.»
Katsuki lo osservava attentamente. «Ecco perché ce l'hai con i contrabbandieri e con chi fa del male alla gente. Perché quello che hai vissuto ti ha segnato così profondamente...»
Izuku si alzò dal letto. La sua rabbia era palpabile, ma la sua voce si fece più calma quando riprese a parlare: «Esatto. Ogni volta che vedo qualcuno che si approfitta degli altri, che li sfrutta, che li distrugge... mi ricorda quello che è successo a me. È una questione di giustizia. Non posso permettere che altri soffrano come ho sofferto io...»
Katsuki, che aveva ascoltato tutto con un misto di interesse e calcolo spietato, si accorse della profonda ferita che Izuku portava dentro di sé. «Capisco...», si limitò a dire, una nota di rispetto nella voce. «E adesso che hai finalmente fatto fuori il tuo capro espiatorio, che farai?»
Izuku si voltò verso di lui, con uno sguardo che mischiava determinazione e stanchezza. «Farò tutto ciò che posso per evitare che accadano altre tragedie simili. Questo è il mio lavoro, e non mi fermerò finché non sarà tutto sistemato.»
Il silenzio che seguì fu ancora pesante, denso come petrolio, e Katsuki comprese meglio le motivazioni del poliziotto. Si rese conto che, anche se la sua missione era quella di conoscerlo e trovare i suoi punti deboli, aveva appena toccato una parte profondamente personale e dolorosa della vita di Izuku.
Ma questo non cambiava il suo piano.
Katsuki si appoggiò sul cuscino, guardando Izuku che stava mettendo via il pentolino del caffè e quello della colazione, assieme alle posate, prendendo un mestolo di acqua fresca dal catino. «Hey, sbirro!» disse, cercando di essere il più disinvolto possibile nonostante la stanchezza e il dolore. «Questi vestiti che ho addosso sono a pezzi. Dato che è stata tutta un'idea tua, che ne dici di procurarmene di nuovi?».
«Non sono la fottuta National Bank!», rispose piccato quell'altro, senza neppure voltarsi.
«Chi ti dice che devi pagare tutto tu? Puoi prendere i soldi che sono nella tasca interna del mio cappotto.»
Izuku, che stava pulendo le pentole, si girò verso di lui con uno sguardo perplesso. «I vestiti? Non credo che...»
«Oh, dai!» lo interruppe Katsuki con un sorriso ironico. «Non sarà difficile per te. Sono sicuro che puoi trovare qualcosa di decente che mi possa andare bene... Magari qualcosa senza le pezze al culo...», e indicò con un cenno del capo Izuku e i suoi pantaloni logori e rattoppati, quelli che usava per starsene in casa o, in emergenza, per scendere in cortile e prendere l'acqua.
Izuku alzò un sopracciglio. «Divertente, davvero. Mi dispiace, ma sai... la tua vita era più importante di un paio di pantaloni del cazzo!» e tornò a dargli le spalle, prima di riprendere a parlare, con tono meno caustico: «Non posso promettere nulla, ma... va bene. Tornerò con dei vestiti. Ma prima devo fare qualche commissione, quindi non aspettarti che torni subito.»
Katsuki fece un cenno d'intesa, come se accettasse il fatto che Izuku avesse altre cose da fare piuttosto che stare a rispondere alle sue domande scomode o alle sue provocazioni. «Non mi muovo, non ti preoccupare!»
Izuku sorrise debolmente e si avviò verso il cappotto, buttato malamente su una sedia, rovistando nelle tasche alla ricerca di spiccioli. Quando però estrasse un rotolino di contanti, sbiancò.
«De-devo prenderli tutti?».
«Fai il cazzo che vuoi, sbirro. Basta che mi porti dei dannati vestiti puliti e non spendi i miei soldi in cose frivole.».
Izuku strinse nel pugno il rotolino e annuì con veemenza: non aveva mai visto tanti soldi, non così da vicino, almeno. Anche i soldi delle retate... quelli lui si limitava a farlo raccogliere, ma non erano destinati al proprio compenso personale. «Fa-arò del mio meglio.», balbettò. «E... Tornerò quanto prima!», aggiunse, fuggendo da quella stanza come se avesse il diavolo stesso alle calcagna.
Mentre Izuku usciva dalla stanza, Katsuki si sdraiò di nuovo, cercando di mettersi comodo nonostante i dolori e i brividi residui dovuti alla febbre altalenante che ancora lo spossava.
Il pensiero di avere vestiti nuovi, non macchiati o strappati lo confortava, anche se non poteva fare a meno di riflettere su ciò che era riuscito a sapere da Izuku, sfruttando quel suo buon cuore, manipolandolo a puntino. Se fosse stato un altro giorno, in circostanze diverse, avrebbe potuto persino provare un po' di simpatia per quel poliziotto dall'animo Gentile e rovinato. Ma ora, con la febbre che continuava a tormentarlo e il suo futuro totalmente incerto, Katsuki non poteva fare a meno di concentrarsi sulla sua prossima mossa.
Izuku, invece, tornò a casa solo nel primo pomeriggio, con alcuni vestiti modesti per Katsuki, tutti stipati in un sacchetto anonimo di carta marrone, tenuto tra le braccia come fosse un tesoro, sperando che andassero bene per il contrabbandiere.
Katsuki, seduto sul letto, aprì la borsa e guardò dentro, un sopracciglio alzato in segno di palese disapprovazione.
«Ah, stupendo!», esclamò con sarcasmo, tirando fuori i vestiti e osservandone il tessuto di scarsa fattura, pur tuttavia morbido al tatto, dando l'impressione di essere caldo e confortevole. «Potevi almeno comprare qualcosa di decente! Con i soldi che ti ho dato, ci saremmo potuti permettere qualcosa di migliore!»
Izuku non rispose e, con un velo di frustrazione, si girò per lasciare Katsuki a vestirsi in privato. Tuttavia, il biondo lo chiamò. «Oi! Non scappare così in fretta!».
«Che vuoi ancora?»
«Ho bisogno di una mano per mettermi questi vestiti.»
«Ah! Pure? Mica sono il tuo servo!»
«Ti ci sei infilato tu in questa situazione del cazzo, sbirro. Ora ti prendi pure tutte le conseguenze!»
Izuku si girò, visibilmente alterato, ma accettò la richiesta. «Va bene.»
«E mi devi aiutare a lavarmi.».
Il volto di Izuku impallidì, prima di virare sulle guance a un rosso acceso, l'imbarazzo crescente nei balbettii a cui il criminale rispose con una frase lapidaria, che non ammetteva alcuna replica: «Non ho certo intenzione di mettermi cose pulite mentre puzzo come un animale!».
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