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Duty

La sera calò lentamente, avvolgendo la stanza in un'atmosfera di quiete. Izuku e Katsuki si ritrovarono nuovamente al tavolo sgangherato, i piatti fumanti di brodo di gallina e pezzi di carne lessata, che la moglie del dottore aveva portato loro come gesto di cortesia. La gamba ferita di Katsuki era distesa in avanti, sorretta da una cassetta di legno e da un cuscino di fortuna, fatto con qualche coperta e indumento.

Il silenzio tra loro era quasi reverenziale, interrotto solo dal suono delle posate che sfioravano i piatti. Entrambi mangiavano con gusto, assaporando la cena semplice ma confortante, un momento di normalità in una giornata che, per entrambi, era stata tutt'altro che ordinaria.

Ma quel silenzio fu infine rotto da Izuku, la sua voce che emergeva timida: «Domani... domani devo tornare in servizio...» disse, con un tono che tradiva una certa malinconia: il dovere lo chiamava, ma sentiva un peso che non era sicuro di voler affrontare.

Katsuki sollevò lo sguardo, l'ombra di un sorriso amaro che gli attraversò il volto. «E dovrai trovare una bella scusa per farmi passare per un povero idiota... e portarmi in prigione, no?» L'ironia nelle sue parole si mescolava con un'amarezza palpabile, eppure il tono era quello di sempre, vagamente sarcastico e quasi provocatorio.

Izuku rimase in silenzio, incapace di guardarlo negli occhi. Aveva sempre vissuto secondo il senso del dovere, convinto che fosse giusto. Ma in quelle poche ore qualcosa si era incrinato, come se quel criminale avesse fatto breccia in tutte le sue certezze. Con gli occhi fissi sul piatto, Izuku rifletté su quanto Katsuki fosse riuscito a insinuarsi in lui, a metterlo in discussione, a fargli riconsiderare tanti aspetti della sua vita che aveva sempre dato per scontati. La battuta dirla criminale rimbombava nella sua mente, facendogli realizzare quanto ciò che lo aspettava l'indomani fosse vero. In quel momento, i suoi pensieri si affollarono, perché la verità era che non sapeva nemmeno se fosse giusto continuare a nascondere il contrabbandiere e se quel piano che aveva avuto fosse stato davvero così geniale come pensava inizialmente.

«Già...» mormorò, più a se stesso che all'altro. Le parole scivolarono via, cariche di un peso inaspettato. Avrebbe dovuto fare il suo dovere, eppure una parte di lui si ribellava all'idea di vedere Katsuki andare in prigione. Era un essere umano, prima di essere un criminale. Lo aveva imparato nei pochi scambi di battute che avevano avuto.

Katsuki lo osservò, il suo sorriso che svaniva lentamente, sostituito da un'espressione seria. «Non è così semplice come te lo immaginavi, ah? L'essere un poliziotto e dover affrontare scelte a cui non avevi pensato...»

«Non...», lo interruppe Izuku, sentendo il bisogno dire la sua, fissandolo in quei suoi occhi che sembravano fuoco puro: «Non sei solo il criminale che io...» ma si fermò, il nodo alla gola che sembrava soffocarlo.

La verità era che, nonostante tutto, Katsuki era riuscito a fargli mettere in discussione tutto ciò che credeva di sapere su se stesso...

Il biondo posò il cucchiaio e lo osservò con un lampo di comprensione nello sguardo: sapeva di aver confuso il giovane poliziotto, e in parte lo aveva fatto di proposito. Ma, senza saperne il motivo, si era ritrovato a rivelare aspetti di sé che non aveva mai condiviso con nessuno. E forse, per la prima volta, si era permesso di abbassare le difese.

Alla fine, ruppe a sua volta quel pesante silenzio che s'era di nuovo formato tra di loro. «Premesso che non dovresti fidarti di tutto quello che ti ho detto finora... Potrei aver detto tante cose per... metterti un po' di confusione in quella testolina verde che ti ritrovi. Dopotutto, sono solo un criminale, no?», disse, incrociando le braccia al petto e fronteggiando il suo sguardo con una sicurezza invidiabile. Le sue parole avevano un tono cinico, ma lo sguardo tradiva tutta la sincerità con cui stava esprimendo quel discorso.«Ma quello che ti voglio dire... e credimi che non sono mai stato così sincero con nessuno... Lascia perdere il tuo lavoro per un attimo.», aggiunse, con un tono deciso. «Vivi un po'. Vivi per davvero... perché per quanto ti sembri così lontano da ciò che conosci, da ciò che hai provato e sperimentato... La vita non è solo doveri e leggi. Alcune volte, ci sono cose che valgono la pena di essere vissute. Anche se sono sbagliate.»

Izuku deglutì, stringendo le dita attorno al cucchiaio. «Non è così semplice, Kacc-...», ma si fermò, correggendosi. «Bakugō. Non posso ignorare tutto questo come se non significasse nulla. E... non parlo solo delle tue parole. Tu mi hai messo in crisi! Hai risvegliato domande che nemmeno pensavo di avere!», fece, chiudendo e riaprendo gli occhi, trovando di nuovo quelli di Katsuki fissi su di lui, e si sentì attraversato da un misto di emozioni strane, che lo resero irrequieto. Aveva paura di quel legame che si stava formando, ma non poteva negare quanto fosse rincuorante avere qualcuno che parlava così liberamente, che metteva in discussione tutto ciò a cui si era abituato a pensare.

«È strano, sai? Mi sono aperto anche io con te, e non capisco nemmeno perché.», ricominciò il biondo, per poi fermarsi di nuovo a riflettere: «Io... Non pretendo che questo cambi la tua idea su di me. O forse l'ha già fatto e io nemmeno lo so... Ma è una cosa da mettere sul piatto della bilancia. Anche se è una situazione di merda, ci sono state delle connessioni... È innegabile. Lo senti anche tu, no?»

Izuku abbassò lo sguardo, le parole del biondo gli ronzavano nella testa. La tensione si era affievolita durante il pasto, ma ora che il discorso si era fatto più serio, il peso della situazione tornava a gravare su di lui. «Non...» iniziò a dire, cercando le parole giuste. «È tutto così... complicato...», e la sua voce si affievolì.

Katsuki lo guardò intensamente e, per un momento, tutto il suo sarcasmo sparì, per lasciare spazio ad una strana calma nella sua voce. «Se le tue parole sono vere, Izuku... allora dovresti fare anche tu un esame di coscienza.» Lasciò che il silenzio si posasse tra loro, una pausa pesante e densa di significato. «Comunque, sei tu che sai qual è il tuo dovere e se ritieni che il tuo posto sia a difendere la legge, trovati una bella scusa per portarmi via da qui domani.»

Izuku sentì il peso di quelle parole, ma stavolta fu lui a rompere il silenzio, posando il cucchiaio e alzandosi dal tavolo, l'espressione accigliata: «Domani... io non dirò nulla di te alla centrale... Perchè... Perché sei ancora troppo debole, e non ho intenzione di mandarti al processo se non sei in grado di affrontarlo fino in fondo.» Le sue parole erano ferme, risolute. «Se mai dovrò portarti in prigione, voglio che ci arrivi vivo e intero.»

Katsuki si limitò ad annuire, un sorriso amaro sulle labbra: «Come vuoi, sbirro.», e tornò a finire il brodo con espressione neutra, ma si sentiva rimestato dentro, in parte deluso e preoccupato.

Alzò gli occhi solo quando udì Izuku strisciare sul pavimento la sedia, notando il viso rigido e lo sguardo tormentato, mentre prendeva il cappotto appeso accanto alla porta. Stava per uscire dalla stanza senza dire nulla, ma Katsuki lo seguì con lo sguardo, incuriosito: «Dove stai andando?» domandò, mantenendo un tono normale, anche se la sua espressione tradiva un pizzico di sospetto.

Izuku non si girò verso di lui. «Fuori. Ho bisogno di... schiarirmi le idee.»

Katsuki fece un sorriso beffardo, osservandolo mentre apriva la porta. Proprio mentre Izuku stava per varcare la soglia, la voce di Katsuki lo fermò, tagliente e carica di sottintesi: «Non contare sul fatto che io sia qui quando torni, sbirro. Stare male non mi ha mai fermato, e non sarà certo un poliziotto a impedirmi di andarmene...»

Izuku si irrigidì, restando in silenzio per qualche istante, la mano stretta sulla maniglia. Poi, senza rispondere, uscì e chiuse la porta alle sue spalle.

•••

Katsuki si svegliò di soprassalto, il cuore che batteva forte nel petto. Un rumore di chiave che girava nella serratura lo aveva strappato dal sonno leggero e tormentato, e ora, nella penombra della stanza, cercava di mettere a fuoco ciò che aveva di fronte.

L'aria era gelida: la stufa, evidentemente, si era spenta durante la notte, e un brivido di freddo gli corse lungo la schiena. Il suo sguardo si spostò verso la porta, dove intravide una figura immobile, il fiato caldo che condensava nell'aria.

Appoggiato alla porta, con le spalle curve e il petto che si sollevava velocemente, come se avesse corso, stava Izuku, innaturalmente fermo nell'ombra della stanza.

Katsuki si raddrizzò un po' nel letto, allarmato e ancora confuso dal risveglio improvviso. «Ehi...che diavolo è successo?», domandò, la voce arrochita dal sonno e dal freddo e leggermente preoccupata. «Stai... bene, sbirro?».

Izuku non rispose subito, continuando a respirare affannosamente. Nell'ombra, sembrava che fosse combattuto tra il rimanere fermo e l'avvicinarsi.

Katsuki si irrigidì, gli occhi socchiusi per mettere a fuoco la figura di Izuku che avanzava, barcollante e incerto.

«Oi! Mi vuoi rispondere?», ringhiò Katsuki, cercando di mantenere la voce bassa ma dura, come per scrollarlo dallo stato in cui si trovava.

Katsuki lo guardò barcollare verso il letto, e il disagio che si insinuava in lui divenne presto una fitta di preoccupazione. Con il buio, rotto appena dalla luce fioca della luna, riusciva a distinguere i contorni di Izuku, che sembrava perso, come guidato da una qualche volontà meccanica. Ogni respiro che sfuggiva dalle sue labbra era pregno di un odore denso, quasi nauseante, e avvertì immediatamente l'amaro dell'alcol e l'odore di fumo denso sui vestiti, quasi dolciastro, tipico dell'oppio, e poi l'andatura claudicante, priva di quella compostezza che aveva visto così spesso nel poliziotto. «Cosa cazzo ti è saltato in mente?» ringhiò, cercando di dare un tono deciso alla voce, ma sentendo già che la rabbia lasciava spazio a un'ansia crescente.

Izuku non rispose. Si fermò lì, immobile, mentre l'oscurità sembrava rendere la sua figura quasi irreale, i contorni sbiaditi. Senza una parola, iniziò a togliersi il cappotto, sfilando una manica dopo l'altra, le dita insensibili che quasi non riuscivano a slacciare i bottoni. Katsuki trattenne il respiro, il battito che martellava nelle orecchie. Il poliziotto era chino su se stesso, assente, con uno sguardo vuoto che lo rendeva stranamente estraneo, come se si fosse smarrito da qualche parte, lontano, e proseguì, lasciando cadere il cappotto a terra, le dita che ora armeggiavano con le scarpe, slacciandole con movimenti lenti e scattosi.

Katsuki non poteva fare a meno di fissare quella scena, gli occhi spalancati mentre ogni suo istinto gli urlava che c'era qualcosa di terribilmente sbagliato.

Quando Izuku rimase immobile di fronte a lui, il maglione sfilato in fretta dalla testa, i capelli arruffati mentre l'indumento cadeva a terra, un bagliore lunare attraversò la stanza e illuminò il volto segnato del giovane, il labbro spaccato che trasudava sangue secco e un occhio gonfio, bluastro sullo zigomo. Katsuki si ritrovò senza parole, il respiro che si faceva più rapido e corto. C'era qualcosa di quasi spettrale in quella figura, nella sua espressione persa, con i segni di una serata che sembrava volutamente vissuta nel degrado, e l'immobilità con cui stava lì lo faceva sembrare come una creatura a metà tra un uomo ferito e un fantasma.

«Che diavolo ti è successo?», mormorò, non più in tono di accusa ma con un'inquietudine sincera, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quell'immagine ambigua e stranamente fragile.

Lo guardava, incapace di muoversi, un nodo che gli stringeva la gola mentre percepiva la gravità del suo stato, lo sguardo opaco, i movimenti goffi e impacciati mentre slacciava e toglieva anche la camicia: Izuku sembrava a malapena consapevole di dove si trovasse, come se ogni cosa fosse avvolta da una nebbia distante, e le parole che uscivano dalle sue labbra, biascicate e arrendevoli, risuonavano quasi come un'accusa.

La luce della luna che filtrava dalla finestra evidenziava ogni livido, ogni segno, e Katsuki si ritrovò incapace di staccare gli occhi da quella figura spezzata che non riconosceva più. «Izuku...», mormorò, abbassando la voce, questa volta quasi con un filo di preoccupazione autentica, osservandolo, impotente.

«È... colpa tua...», mormorò il poliziotto, la voce soffocata e sgranata, le parole pronunciate appena udibili.

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