Chapter 1.2 - ⭒Far far away...⭒
13 Marzo, 2966
Bloody Hell, non avevo mai desiderato tanto una sigaretta, come in quel momento. Anche solo sentirne la forma rotonda tra le dita mi avrebbe appagata. Me ne concedevo una all'anno. Una. Sola. Misera. Sigaretta. All'anno. Ma dall'ultima ne erano passati parecchi, di anni. Ormai ne avevo accumulati... Quanti? Novecento trent'otto, se i miei calcoli non erano errati. Se solo fossi riuscita a mettere le mani su un pacchetto di Winston blu.
Purtroppo, dubitavo che No Longer Silent Man avrebbe concesso qualcosa di tanto cancerogeno alla sua paziente, per cui non ebbi altro modo per superare il trauma che restare a guardare il finto paesaggio fuori dalla finta finestra, sperando di elaborarlo in un modo o nell'altro. Chissà se esistevano ancora gli psicologi, in quel secolo. Ma neanche Freud avrebbe avuto strumenti per aiutarmi in quell'assurda situazione. Ero passata attraverso un'esperienza di premorte, da cui, tra parentesi, avevo guadagnato una ciocca bianca a deturpare l'altrimenti rosso acceso della mia capigliatura, e ora mi trovavo in un altro mondo. Una nuova epoca, con gente diversa e nulla di familiare ad accogliermi.
Era scomparso tutto. La mia carriera, i miei amici, mia madre, mio fratello, la loro bella casetta a Oxford o la villetta di mia nonna Siobhan nelle Highlands... Non c'erano più. Erano ormai morti e sepolti. Andati. Svaniti. Solo un ricordo. Mio e di nessun altro, dopo più di novecento anni.
Il mondo si era ribaltato sul suo asse. Tutto ciò che conoscevo, tutto ciò che avevo amato, la mia intera esistenza... Tutto svanito.
Il senso di sradicamento non era una novità, avevo sempre girato a causa del mio lavoro, riuscendo a vedere mio fratello e mia madre a malapena per una o due cene all'anno. Ma questa volta? Questa volta non li avrei rivisti mai più.
Non mi era stata concessa una scelta. Mi era stata strappata. Tutto mi era stato portato via. E ora mi sentivo spezzata, fragile, senza uno scopo, incompleta, come se avessero staccato un pezzo del mio cuore assieme alla mia storia.
Ed era colpa mia. Ero morta, o meglio, non morta. Avevo gettato al vento ogni cautela, avevo fatto una scelta e adesso, beh, questo era il risultato.
Un risultato inatteso, ma avrei dovuto conviverci.
Avrei dovuto armarmi di scopa e paletta, raccogliere tutti i cocci frantumati di quel che restava del mio cuore e provare a dargli nuova vita.
Chissà se Roy aveva sofferto, negli ultimi istanti prima che l'oscurità lo prendesse. La sua vita era stata piena e appagante? Aveva avuto figli? Una moglie? Un lavoro intrigante?
E mamma? Era morta di vecchiaia? Aveva pianto la mia morte o era stata troppo concentrata su un nuovo progetto di lavoro?
Rimuginare su queste ipotesi non mi avrebbe portato a nulla. Forse un modo per cercare risposte c'era, ma non era restando qui a piangermi addosso.
Ciò che avevo appreso in anni di lavoro a fianco di De Lacey era l'importanza delle informazioni.
Dovevo apprendere quanto più potevo su questo nuovo mondo, o sarei stata in svantaggio.
Le intenzioni erano buone, ma quando aprii il primo libro di testo mi venne la nausea.
Mi sentivo un po' come una bambina di cinque anni che chiede al papà di mostrarle sul mappamondo dove si trovi Londra. O Arduinna, in questo caso.
Un mondo nuovo, eppure somigliante. Come due gemelli posti uno di fronte all'altro. Simili, ma diversi. Il mio mondo con i cinque continenti, questo mondo con sette Settori. Poi c'erano le Nazioni, definite Dominii. Anch'esse sette, ma disposte in modo molto differente a quel che ricordavo. In tutta quell'assurdità, ciò che più mi lasciò basita fu scoprire che non c'erano confini tra la Gran Bretagna e la Francia. Aye, il mondo doveva davvero essere stato a un passo dall'annientamento!
Infine, c'erano le città, pochissime e molto distanti tra loro. Arduinna quasi sicuramente prendeva il nome dalle Ardenne, poiché si trovava proprio in quella zona, vicino alla città belga che ai miei tempi (aye, l'ho detto davvero! Sembro nonna Siobhan!) si chiamava Namur.
Novecento anni di storia sarebbero stati difficili da apprendere, quindi mi soffermai sugli aspetti che ritenni più importanti, come il fatto che la popolazione mondiale fosse stata quasi sterminata da una catastrofe ambientale nel 2035, quando il Vulcano nel Primo Settore, come lo avevano definito riferendosi con grande probabilità allo Yellowstone, era eruttato.
Secondo questi libri le conseguenze furono disastrose e portarono a un passo dall'estinzione mondiale. Lessi di come tutti gli scienziati del pianeta si affrettarono a cercare metodi alternativi per far crescere le piante quando il sole fu oscurato dalle ceneri e dal gas immesso nell'aria dall'esplosione. Nonostante gli scienziati si adoperassero per cercare di risolvere il collasso socio-demografico, furono intralciati dai pochi umani rimasti, che iniziarono a farsi la guerra per accaparrarsi i beni essenziali alla sopravvivenza come l'acqua, che presto scarseggiò, e il cibo.
Insomma, il periodo che andava dal 2035 al 2503 doveva essere stato molto simile a uno dei film apocalittici che adoravo guardare con mio fratello.
Per mia fortuna, esisteva ancora qualche umano intelligente al mondo e, circa quattrocento anni fa, ebbe inizio un piano di ripopolamento della Terra grazie alla siglatura della cosiddetta "Convenzione della Vita". Senza di essa, era probabile non ci sarebbe stato nessuno a riportarmi in vita e il lavoro di quei poveri scienziati che avevano tentato di darmi una seconda possibilità sarebbe andato in fumo.
Concentrarmi sui fatti storici non servì a molto, comunque. Si sa che eludere i dispiaceri non li rende meno reali. La realtà si schiantò di nuovo sulle mie spalle e mi ritrovai a piangere, rannicchiata in un angolo della stanza.
Ero ancora convinta che tentare di rimuovere Valentine dall'esistenza fosse l'unica possibilità per salvare la mia famiglia, ma perdonarmi era tutt'altro discorso.
Roy doveva avermi odiato per essere morta. L'avevo abbandonato.
Passai diversi giorni ritirata in me stessa, o almeno quelli che pensavo fossero giorni, se dovevo basarmi sullo scorrere del tempo dettato dall'ologramma al posto della finestra e dalla somministrazione dei pasti. Cose disgustose, a proposito. Tipiche pappette da ospedale, ma era il massimo che in quel periodo ero in grado di ingoiare senza avere mal di pancia. In quelle occasioni No Longer Silent Man cambiava la flebo, controllava i miei valori, poi usciva e mi lasciava raggomitolata nel letto, o sul pavimento, o dietro ai sanitari in bagno, o dovunque in quel momento mi fossi spostata per piangere.
Al decimo giorno, mi obbligai a superarla. Mi costrinsi, con estrema fatica, ad accantonare il tormento. Non potevo passare la restante esistenza che mi era stata concessa a disperarmi.
Dovevo andare avanti. Perché ero qui; ero sopravvissuta. Forse non avrei più rivisto mia madre, né litigato con mio fratello, ma ero viva.
Viva.
Fu così che passai i restanti mesi a cercare di costruire qualcosa col tempo in più che mi era stato concesso.
Iniziai lavorando sul mio corpo. Se avessi avuto intenzione di uscire da quella stanza, avrei dovuto poter sostenere una camminata più lunga di quei dieci passi che mi portavano fino al punto più lontano della stanza, ovvero il bagno.
Il mio corpo, che non si poteva certo definire formoso, aveva perso la sua solita tonicità muscolare, rendendomi simile a uno spaventapasseri tutt'ossa. Fu penoso ricominciare ad allenarmi. Non ero più in grado di eseguire esercizi che prima avrei fatto senza neanche stillare una goccia di sudore. Gli squat furono più faticosi della volta in cui dovetti restare appesa per cinque minuti a un ramo che sporgeva da uno strapiombo nell'attesa che venissero a soccorrermi. Il tizio che era rotolato giù con me non era stato abbastanza fortunato da trovare un appiglio e non avevo alcuna intenzione di fare la sua stessa fine.
Aye, quella con Valentine non era stata la mia prima esperienza a un passo dalla morte.
I giorni si accumularono. Il mio ventinovesimo compleanno era passato senza che me ne accorgessi, cosa che scoprii solo perché chiesi la data a No Longer Silent Man.
Pensare che ero terrorizzata da quel giorno, che mi portava sempre più vicina ai trenta, soglia che avrei superato senza un compagno o dei figli. Adesso, invece, ne avevo appena compiuti novecentosessantotto! Più o meno. Non era facile tenerne il conto, sapete? Lo specchio in bagno però mi rifletteva la stessa Amneris di sempre. Un tantino più ammaccata, certo. Con occhiaie livide, guance smunte e, vista l'assenza di una spazzola, capelli che potevano apparire allettanti solo a un uccellino in cerca di nido.
Non li avevo mai tenuti tanto lunghi. Era difficile domare una chioma lunga, per non parlare della poca praticità che una coda di cavallo, così facile da raggiungere, dava durante un combattimento.
E ho perso ancora una volta il filo del discorso con questo sfogo sull'età e i capelli che non ha molto a che vedere con la storia che sto cercando di riportare.
Era il tredici marzo e No Longer Silent Man (Aye, non avevo ancora scoperto il suo nome: molto maleducato, vero?) entrò come ogni giorno per portarmi da mangiare, ma non nel solito orario in cui mi faceva visita. Arrivò dopo, trafelato e stranamente in ansia, anche se cercava di non darlo a vedere.
Ero impegnata a fare delle flessioni e al suo ingresso non mi interruppi; finii la quarta ripetizione fingendo di non degnarlo di attenzione.
—Come ti senti stamattina? — domandò.
Un altro fatto insolito. Ero sempre io a parlargli per prima, di solito per domandargli quando sarei potuta uscire. Rispondeva sempre allo stesso modo: l'atmosfera era dannosa per il mio sistema, avrei dovuto finire la profilassi e solo dopo qualche mese sarei potuta infine uscire, yada yada yada. Avevo smesso di credere a queste scuse da tempo. Stava mentendo. Lo sapevo.
Non voleva uscissi, ma di certo non perché sarebbe stato dannoso per la mia salute.
Perché allora non ero ancora scappata di lì?
Bella domanda. Avrei potuto stordirlo, oppure ucciderlo, se avessi voluto, per poi darmela a gambe. Conoscevo molti modi per farlo senza neanche sporcare.
Sospettavo che in quell'edificio non ci fosse nessun altro oltre a lui. Ormai, dopo mesi passati a cercare di cogliere ogni dettaglio del luogo in cui mi trovavo, avevo classificato ogni minimo rumore della casa, più silenziosa di una biblioteca. Avevo l'impressione che quell'uomo fosse l'unico abitante di quella che, secondo la mia analisi, doveva essere un'abitazione con tutti i comfort a cui ero abituata nel mio secolo e molte nuove tecnologie... Beh, a parte l'asciugacapelli o una spazzola.
Dunque, qual era il motivo che mi spingeva a non scappare da quel luogo?
Semplice: dove altro sarei potuta andare? Cosa avrei potuto fare? Non conoscevo niente e nessuno, a parte lui e quella casa. Inoltre, dovevo recuperare le forze.
Mi accorsi di non avergli ancora risposto quando lui ripeté la domanda.
—Mi sento bene, ma per una volta non mi dispiacerebbe mangiare proteine animali che non siano uova o latte. Dov'è quella bistecca di cui avevamo parlato? O il caffè?—
Lo vidi alzare gli occhi al cielo, una delle poche espressioni emotive che si lasciava scappare —Mi sono dimenticato. Domani... No. Te le farò avere, ma non oggi. Ti ho portato del cibo anche per questa sera. Poi c'è questo. Devi assumerne una adesso e una subito dopo aver finito di mangiare—
Guardai la strana pillola che mi consegnò e aprii la bocca, ma non per ingoiarla. Appena ne ero stata in grado, avevo rimosso tutti i tubicini che mi erano stati inseriti in corpo, rifiutandomi di assumere qualsiasi cosa se prima non mi veniva spiegata la sua funzione. Lui, infatti, comprese cosa stessi per dire, perché iniziò a brontolare su quanto fosse necessaria per la mia salute. Insomma, alla fine inghiottii la pasticca, storcendo il naso al saporaccio amaro.
Se De Lacey, il mio superiore, mi avesse visto tanto docile mi avrebbe di certo presa in giro. Chissà che fine aveva fatto il mio, come lo definiva lui, "temperamento focoso".
Forse era morto e sepolto assieme alle persone che mi ero lasciata alle spalle, De Lacey compreso.
No Longer Silent Man se ne andò lasciandomi da sola col mio pranzo da neonato. Mentre masticavo verdure poco invitanti, mi misi a sfogliare il diario per passare il tempo.
Ancora facevo fatica a comprendere la maggior parte di ciò che vi era scritto, nonostante riuscissi ormai a tradurre con estremo agio quella nuova lingua. C'erano dei passaggi troppo assurdi, in cui lo scrittore si metteva a parlare di colori o di anime facendomi girare la testa per tutte quelle stramberie.
Di una cosa però ero certa, il diario doveva appartenere a un ragazzo, un certo Ciano, innamorato perso di questo suo Cristallo, nome che compariva di frequente accompagnato da pensieri struggenti o aneddoti divertenti. Poveraccio, sembrava un amore totalmente platonico, ma era ciò che di più simile a un romanzo rosa avessi, per cui dovevo farmelo andare bene o con tutta probabilità sarei morta di noia, vanificando gli sforzi che No Longer Silent Man e gli scienziati prima di lui avevano fatto nel tentativo di tenermi in vita.
Sfogliai fino ad arrivare alla data di quel giorno e iniziai a leggere ad alta voce.
13 Marzo, 2961
Oggi è il mio ventunesimo compleanno.
Sì. Oggi è quel giorno. Oggi ho scoperto il colore prevalente della mia Anima
La Veggente Platino è venuta a farmi visita. Mi avevano parlato di lei, l'ultima Veggente, una ragazza tanto affascinante, ma con due occhi che sembrano leggerti direttamente dentro la profondità dell'Anima. La loro intensità rivaleggia con quelli del mio prezioso Cristallo. Talmente inquietanti da dare i brividi.
Non conosco l'età esatta, ma dovrebbe avere meno di quarant'anni. Tuttavia, in quello sguardo imperscrutabile ho letto la saggezza di secoli di conoscenza. Chissà cosa deve aver visto, nella sua breve vita, da renderla così come si presenta ora.
Forse anche suo padre era crudele quanto il mio?
In ogni caso, la sua visita mi ha sconvolto. La Lettura non ha rispecchiato neanche lontanamente le mie aspettative. Non sono risultato Verde come mio padre o Rosso come era mia madre.
No, sono risultato Viola.
Io, un Veggente!
Fantastico. Ero arrivata a una di quelle parti da mal di testa. Già la sentivo pulsare, ma l'alternativa era tornare a far palestra e, per quanto fossi fissata, dovevo dare un po' di riposo al mio povero corpo in guarigione.
Ripresi a leggere.
Adesso non so cosa fare. Conosco bene il disprezzo di mio padre per gli appartenenti a quella Divisione, così come dei miei pochi amici.
Il mio prezioso Cristallo potrebbe forse essere l'unico a restare al mio fianco. Oppure no. Dopotutto, è un Indaco fino al midollo e, per quanto non condivida il disprezzo della sua Divisione per tutte le persone che non appartengono a essa, non nutre molto affetto per i Veggenti.
Cosa vado a pensare! Il mio splendente Cristallo non è quel genere di persona. Non mi volterebbe mai le spalle per un motivo così futile, nonostante le pressioni a cui di sicuro sarà sottoposto da quelli della sua cerchia.
Inoltre, tengo troppo a lui per ipotizzare anche solo l'idea di perderlo.
Cosa fare, però? Accettare o non accettare il mio destino?
Una piccola parte di me ha già deciso, devo ammetterlo. L'alternativa sarebbe restare al fianco di mio padre. Invece, accettando, sono certo che mi scaccerebbe di casa e... Beh... Non è che un incentivo in più, per me.
Sto preparando una lista di nomi tra cui scegliere dopo aver fatto il Salto.
Cadmio, Ferro, Piombo, Mercurio o Xenon.
Probabilmente, Cadmio sarebbe il più azzeccato, essendo simile al mio nome di battesimo, Ciano. Mi renderebbe meno complicata la transizione...
Stavo rileggendo le ultime righe per la terza volta, ma non perché faticassi a comprenderle. C'era qualcosa che non andava nella mia vista. Le scritte sembravano ballare sulla pagina. E la mia lingua sembrava gonfia. Le parole stavano iniziando ad accavallarsi l'una con l'altra. Battei le palpebre e mi resi conto di quanto mi sembrò faticoso come gesto. Macchie bianche spuntarono nel mio campo visivo. La camera attorno a me si mise a girare come se stessi avendo il peggior dopo sbornia della mia vita. Il diario mi cadde di mano, le dita formicolanti a tal punto da far quasi male.
Riconobbi subito i sintomi di ciò che mi stava accadendo. Purtroppo, non era la prima volta che mi capitava.
Ero stata drogata.
Agii con prontezza, sperando non fosse troppo tardi. Mi misi carponi. Il mondo ondeggiava attorno a me. Il letto da cui caddi sgraziatamente a terra sembrava essere diventato di gelatina, il pavimento su cui cercavo di sorreggermi scivolava sotto i miei palmi come se fosse stato appena incerato.
Quel bastardo mi aveva drogata! Doveva essere stata la pillola amara... Bloody Hell, sapevo che non avrei dovuto assumerla. Quanto tempo era passato? Venti minuti, forse meno.
Mentre facevo quei ragionamenti provai a indurre il vomito, sperando di riuscire in questo modo a debellare un po' di quella dannata sostanza dal mio corpo. Se assomigliava ai sedativi utilizzati nella mia epoca, forse non era ancora entrata del tutto in circolo e potevo ancora salvarmi.
Sudata e tremante come una foglia, col puzzo di vomito che mi faceva arricciare le narici, alla fine il mondo smise di girare. Per fortuna non avevo ancora preso il secondo dosaggio.
Dovevo andarmene da lì.
I campanelli di allarme che avevo ignorato fino a quel momento si misero a squillare tutti in contemporanea.
Solo qualche ora prima avevo silenziato l'ennesimo, dicendomi che non c'era alternativa per me se non restare lì.
Meglio una casa conosciuta che vagare senza una meta, mi ero detta.
Sbagliato. Anzi, sbagliatissimo.
Meglio l'incognita a uno che aveva appena provato a drogarmi per Dio solo sa quale motivo.
Dovevo fare le valigie e andarmene alla svelta.
Con le gambe che mi sorreggevano a malapena, iniziai a radunare quelle poche cose che avevo, infilandole dentro a un lenzuolo da cui, grazie al coltello che mi aveva dato per il pranzo, ricavai anche delle strisce di stoffa con cui mi avvolsi i piedi.
Eravamo a marzo, in un paese situato nel nord Europa; quindi, doveva essere freddo. A meno che il clima non fosse stato stravolto in tutto il tempo che avevo passato a riprendermi da quella ferita mortale.
Possibile che, tra tutti gli esseri rimasti sul pianeta, dovesse avermi risvegliato proprio Dottor Psicopatico? Non avevo alcuna intenzione di restare a scoprire il motivo per cui aveva voluto drogarmi.
Cercai di raccogliere anche i capelli in un lenzuolo color blu scuro, ipotizzando potessero passare più inosservati in questo modo che sciolti e rosso selvaggio. Dovevo cercare di agevolare la mia mimetizzazione in ogni modo possibile.
Se la luce dell'ologramma avesse riflesso la realtà, fuori sarebbe stato già buio. Non c'era di sicuro un momento migliore di quello per fuggire e avvolgersi nelle tenebre.
Sarei scappata. Dovevo farcela. De Lacey sarebbe stato orgoglioso della sua partner, questa volta.
Ero una sopravvissuta, dopotutto. Resistere e continuare a combattere era la mia specialità. E anche sopravvivere a una morte imminente, a quanto pareva.
Per cui... Adieu, Lebewohl, Adiós, Proshchay, Adeus, Veda, Pożegnanie.
Era il momento di evadere da Azkaban.
Nota:
Yada yada yada: forma inglese traducibile come "bla bla bla".
⋰∴🌙∴⋱ ANGOLO AUTRICE ⋰∴🌙∴⋱
Ed eccoci arrivati alla fine del primo capitolo.
Cosa ne pensate fino a qui? Siete rimasti sconvolti o, da lettori ormai esperti in colpi di scena, avevate previsto il ritorno di Amneris?
Il prossimo capitolo sarà narrato da un personaggio nuovo... O forse non così nuovo. Siete curiosi? Allora vi aspetto nella prossima pagina ❤️
Il mondo narrato non è, ricordo, lo stesso a cui siamo abituati. Amneris filtrerà tutto col suo punto di vista "Inquinante" (termine che, vedrete, troverà spiegazione più avanti), ma se vi restano dubbi o domande, vi invito ad andare all'ultimo capitolo, quello sul Lessico.
Vi ringrazio infinitamente per aver concesso a questa storia l'occasione di entrare nel vostro cuore e spero di riuscire a sorprendervi e intrattenermi con i capitoli che seguiranno.
Un carissimo saluto dalla vostra
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