Capitolo quattro - Sette anni dopo
Le strade del Quartiere A07, baciate dal sole mattutino, brulicavano di persone gioiose e benvestite. L'arrivo imminente della primavera, coi suoi colori e i suoi profumi, portava un certo buonumore tra la gente, più allegra e spensierata del solito in quella giornata così particolare.
Era l'ultimo giorno del terzo mese d'inverno, giorno in cui ricorreva la Cerimonia di Attivazione. Nell'arco della mattinata, tutti i bambini nati dodici inverni prima avrebbero sentito per la prima volta la voce di Uhr, mettendo fine alla loro genuina infanzia, e l'avrebbero fatto senza esitazione, perché l'unica alternativa all'accettazione di Uhr era essere ricondotti a lui e nessuno avrebbe voluto morire a dodici anni.
Mavi scosse il capo, contrariata. Non riusciva a gioirne, non riusciva a prendere parte ai festeggiamenti che imperversavano per le strade del Quartiere e che coinvolgevano proprio tutti, dai bambini più piccoli alle persone più anziane.
Ripensò alla sua Cerimonia di Attivazione, avvenuta esattamente cinque anni prima. Non ricordava molto di quel giorno: solo la terribile riluttanza che le aveva invaso l'animo e poi una forte luce bianca, seguita da una voce dalla tonalità indescrivibile che le porgeva un sincero e rassicurante benvenuto.
Per lei l'Attivazione non era stata felice come per tutti gli altri. Per lei non aveva sancito l'avvio di un lungo, devoto cammino verso la salvezza, bensì la privazione della sua libertà. Se per gli altri quel giorno rappresentava un inizio, per lei era stato una fine.
Una risatina acuta e snervante la riscosse dalle sue riflessioni. La ragazza si voltò e si ritrovò faccia a faccia con Sofi e Liz, le sue più acerrime compagne di studi.
«Ma guardala, che strana! Oggi è vestita da donna!» sghignazzò Sofi.
«È un evento ancora più importante dell'Attivazione!» infierì Liz.
Mavi strinse i pugni. «Mi rendo conto di quanto un cambiamento simile sia inaccettabile, per gente abitudinaria come voi. Vi chiedo solo di aspettare che finisca la Cerimonia e vi assicuro che tutto tornerà alla normalità» disse fredda, rispondendo alla provocazione.
Loro si guardarono, perplesse. «Tutta invidia!» fece poi Sofi ed entrambe ripresero a ridere sguaiate.
Mavi voltò loro le spalle, seccata, e avanzò lungo la strada che conduceva al Rifugio. Un paio di bambini elettrizzati quasi la travolsero e lei, abituata alla comodità dei pantaloni, dovette tenersi un lembo del vestito tra le mani per non inciamparci sopra. Il suo abito non era neanche troppo elaborato, ma Mavi odiava le gonne e i vestiti stretti e non si sentiva per niente a suo agio quando era costretta a indossarli, una volta ogni tre mesi, in occasione di eventi importanti come quello.
In realtà detestava anche le festività e le giornate dell'Attivazione. Trovava ridicolo il fatto che le stesse persone che ogni giorno lottavano le une contro le altre, che giudicavano e che si lamentavano potessero unirsi all'improvviso per celebrare Uhr e poi ritornare con disinvoltura alla competizione, all'egoismo e alle ostilità di sempre. Ma, come al solito, era costretta a tenersi la sua opinione per sé e a sopportare i suoi doveri di brava creatura di Uhr.
La ragazza rallentò appena il passo, perdendosi tra la folla smaniosa di raggiungere il Rifugio. Aveva appena raggiunto la piazza centrale del Quartiere A07, dove su un vecchio muro di pietra erano affissi alcuni manifesti. Due o tre recavano le cifre esorbitanti di Profanatori che erano stati arrestati nel corso della stagione invernale, con tanto di ringraziamenti a coloro che avevano contribuito alla cattura. Un altro ricordava che nel quarto giorno di primavera le Sorelle della Fede sarebbero passate di casa in casa a ritirare gli Omaggi, quei tributi che ogni dieci giorni le famiglie dovevano donare ai più devoti servi di Uhr, che come ogni servo che si rispetti vivevano nei punti più alti e nobili del Quartiere.
L'ultimo manifesto mostrava la situazione di tutte le regioni del mondo. I rapporti erano tesi e lo Shedir, nelle lontane Terre del Sud, era in conflitto con le regioni limitrofe.
Nulla di nuovo, insomma.
«Buongiorno, Mavi!»
La ragazza si voltò di scatto. Era stato un giovanotto a salutarla, di un paio d'anni più grande di lei: Nastor era il suo nome, ed era il ragazzo più carino dell'intero Quartiere. Si diceva che avesse affrontato e sconfitto ben due Profanatori, armato soltanto della propria fede in Uhr.
«Buon... buongiorno» balbettò lei, arrossendo. Lui le rivolse un sorrisetto, poi si fermò a parlare con Sofi e Liz.
Mavi sospirò. Tutte le sue coetanee avevano una cotta per Nastor, lei compresa. Ma era inutile illudersi: un ragazzo così bello, allegro e cordiale, non avrebbe mai perso tempo con un'asociale come lei.
Alle sue spalle, le voci allegre di Sofi e Liz echeggiavano nell'aria, svenevoli all'inverosimile, e Nastor rideva con loro. Mavi continuò a ignorarle, ma la stizza che quelle due le provocavano non tardò a manifestarsi.
Le odiava, anche se a volte avrebbe voluto essere proprio come loro: determinate nella loro cieca devozione verso un dio in cui credevano fermamente. Ragazze conformi, meravigliose nei loro abiti svolazzanti e nei loro capelli vaporosi, rassegnate e felici di esserlo: persone perfette, come si deve.
Erano le classiche ragazze che attiravano l'attenzione dei giovani come Nastor, insomma.
Mavi non era così. Non lo sarebbe mai stata, nonostante la realtà cercasse di mutare a fondo la sua indole e la sua mente, e lo sapeva.
Era questo ciò di cui aveva più paura: la sua anima era deviata, nera e tetra, e il suo cuore vagava troppo lontano da Uhr. In fondo lei odiava ciò che il suo Dio avrebbe voluto che fosse, rifiutava il destino che sapeva prescritto per lei e non aveva intenzione di rassegnarsi, e tutto questo in effetti faceva di lei una Profanatrice.
Solo che non voleva ammetterlo. Non l'avrebbe mai fatto e al tempo stesso non avrebbe mai ceduto all'idea di mutare le sue convinzioni.
Nessuno avrebbe potuto provarlo: lei era la sola testimone dei suoi pensieri, e finché fossero rimasti al sicuro nella sua testa non le sarebbe potuto accadere nulla di male.
***
La luna era appena spuntata nella notte, dietro ai pesanti nuvoloni scuri, sancendo l'inizio di un nuovo giorno – il primo della stagione primaverile – e la fine del gelido inverno. Fuori le strade del Quartiere erano deserte, dopo un'intera giornata di festeggiamenti in cui erano state calpestate fino allo stremo.
Mavi indossò il suo mantello, nascose il vecchio pugnale nello stivale e si avvolse una sciarpa attorno al viso. Un forte e continuo russare le comunicava che i suoi genitori dormivano da un bel po'.
La ragazza uscì a passi felpati dalla sua vecchia camera umida, scese i gradini di legno con cautela, cercando di non farli scricchiolare, e fece scattare la serratura del portoncino d'ingresso. Ancora un passo, poi fu fuori: rabbrividì dal freddo, si richiuse la porta alle spalle e si incamminò decisa verso ovest.
Conosceva le strade del Quartiere come le sue tasche. Nei suoi diciassette anni di vita le aveva frequentate come vecchie e sagge amiche, le aveva solcate con milioni di passi, ne aveva imparato a memoria gli sbocchi e i vicoli più nascosti.
Senza un minimo di esitazione, svoltò quasi subito a sinistra e si infilò in una scorciatoia insidiosa. Le sue gambe ormai ricordavano la strada e avanzavano da sole, lasciandole la mente libera per poter pensare.
Guardò la luna ancora alta nel cielo e fece un paio di calcoli. Circa sei o sette ore la separavano dall'alba: ce l'avrebbe fatta, senza dubbio sarebbe riuscita a tornare in tempo per non farsi scoprire.
Non che fosse proibito uscire di casa: erano i confini della propria regione di appartenenza ad essere invalicabili, e non quelli delle mura domestiche, ma Mavi non aveva poi molta voglia di mettersi a dare spiegazioni per le sue fughe notturne. Dubitava che qualcuno avrebbe potuto capirla, perciò preferiva tacere e passare inosservata. Si limitava a rispondere in maniera incompleta alle domande che le venivano poste quando qualcuno si accorgeva della sua assenza: diceva di aver bisogno di camminare e di meditare da sola, e in effetti era la verità; tuttavia non specificava mai quali pensieri tetri erano soliti affollare la sua mente, né quali luoghi desolati attiravano il suo interesse.
Un'ora dopo, senza neanche rendersene conto, Mavi aveva raggiunto il vecchio muro di mattoni rossi che delimitava l'area in cui sorgeva una fabbrica abbandonata da anni.
Era stato un centro di produzione di contatti, ai suoi tempi d'oro. Suo nonno, un tipo strano e solitario quasi quanto lei, aveva lavorato lì prima di ammalarsi e lasciare per sempre quel mondo infame, e Mavi se lo ricordava bene: un posto grandissimo per i suoi occhi di bambina, sempre pieno di gente indaffarata a far funzionare quelle macchine mostruose, le cui braccia giacevano ora arrugginite oltre quelle mura dimenticate, tra le macerie del passato.
La ragazza aggirò le file di mattoncini logori fino a imbattersi in un piccolo varco nascosto. Si guardò intorno e una volta certa di essere sola fece forza sulle braccia e vi si infilò agilmente.
Varcare quella soglia le faceva sempre uno strano effetto. Era incredibile come la sua mente riuscisse a trovare un minimo di pace soltanto in un posto inquietante come quello.
I suoi piedi s'imbatterono in un tappeto di muschio ed erbacce cresciute chissà come, intrufolatesi nella fabbrica dai solchi nei muri e dalle fessure nei vetri, e Mavi sorrise.
Forse era proprio questo ad attirarla. Quel luogo era cambiato con gli anni, era diverso: una rarità, in quel mondo così statico.
La sua stessa vita era sempre uguale: la vecchia, grande casa in cui abitava, i coetanei che frequentavano l'Istituto di Formazione con lei, la sua famiglia, le strane idee che le ronzavano in testa. Era rimasto tutto immobile, intatto, cristallizzato.
L'unico cambiamento degno di nota aveva investito sua sorella Demna, che si era sposata ed era andata a vivere con il marito: un uomo che Mavi proprio non sopportava, fissato con la devozione e la venerazione di Uhr. Eppure a Demna doveva piacere, dato che aveva avuto già due bambini con lui ed era incinta del terzo.
Da quando sua sorella se n'era andata, Mavi si era chiusa ancora di più nel suo mondo. Suo padre non le parlava, sua madre la insultava in continuazione, e Demna, per quanto amasse trattarla con fastidiosa superiorità, era stata l'unica a dedicarle ogni tanto una parola sincera.
Man mano che Mavi avanzava verso il cuore della fabbrica, il tappeto muschioso si faceva sempre più rado. I pensieri cominciarono ad accavallarsi, il suo cuore prese a battere forte e il suo respiro si fece agitato.
Quanto avrebbe voluto restare là per sempre, sigillare quel momento e lasciare che fermasse il tempo per un po'. Ma procrastinare non sarebbe servito a nulla: solo una Decade la separava dal Giorno del Giudizio, il momento in cui sarebbe diventata una donna e non avrebbe più avuto il privilegio di restare indifferente allo scorrere del mondo.
Solo dieci, brevissimi giorni.
Tra dieci giorni un Funzionario le avrebbe stretto al polso il suo giracrediti personale e Mavi avrebbe dovuto cominciare a cavarsela da sola. Avrebbe guadagnato col lavoro, con la fede in Uhr, con le azioni degne di onore come la denuncia di un Profanatore. E poi le sarebbero stati riconosciuti i suoi crediti formativi, quelli accumulati in una vita di studi nell'Istituto di Formazione.
Avrebbe creato debiti acquistando cibo, vestiti, libri di preghiera. E pagando qualche ammenda, con ogni probabilità. Tanto per cominciare, se un Funzionario l'avesse scovata in un posto come quello, al buio, nel cuore della notte e senza una valida spiegazione, non avrebbe di certo esitato a multarla senza pietà.
Era spacciata. I suoi crediti formativi sarebbero stati ben pochi, a giudicare dalla sua scarsa attitudine allo studio, e Mavi sapeva che avrebbe dovuto avere a che fare con gli Agenti di Controllo prima di quanto avesse voluto. Troppi debiti l'avrebbero posta in una condizione di insolvenza, e in fondo si sapeva: da Insolvente a Profanatore il passo era breve.
La sua gamba urtò all'improvviso contro qualcosa di duro, forse un pezzo arrugginito di qualche strano macchinario. Mavi si guardò intorno, cercando di scrutare qualcosa alla tenue luce della luna, e riconobbe ben presto il punto in cui i suoi piedi l'avevano istintivamente portata.
Cercò a tastoni la scala arrugginita che conduceva di sopra, ai piani di controllo delle macchine, e vi si arrampicò fino alla cima. Percorse le assi di legno polverose fino al lato opposto dell'enorme stanzone in cui era spuntata, dove da un paio di finestre dai vetri rotti filtrava la pallida luce lunare; aprì le imposte scheggiate e marcite e si appollaiò sul davanzale.
Inspirò a pieni polmoni l'aria fredda della notte, lasciando che le svuotasse la mente dai pensieri opprimenti. Sotto di lei v'era il buio più totale, un baratro nero che sembrava volerla inghiottire nelle sue viscere, ma lei non si fece intimorire. Si alzò in piedi, tenendo la schiena curva per non cozzare contro l'intelaiatura della finestra, si sporse a sinistra e tastò i mattoncini consunti e sgretolati fino a imbattersi in un appiglio saldo. Con una spinta decisa staccò i piedi dal davanzale e si arrampicò lungo il muro esterno.
Presto le sue mani incontrarono la grondaia di rame, segno che era quasi arrivata a destinazione. Vi si aggrappò con tutte le sue forze, penzolò nel vuoto per pochi attimi, poi fece forza sulle braccia e si issò sul tetto, con l'agilità e la sicurezza donatele dall'abitudine.
Restò distesa sulle tegole sbeccate per qualche secondo, a riprendere fiato; poi avanzò carponi fino a raggiungere la cima della tettoia. Da lassù, la luna sembrava ancora più vicina.
Mavi si affacciò dall'altra parte del tetto e finalmente le vide. Luminose, terribili, minacciose nella loro luce azzurra. Oltre quel bagliore, una striscia deserta di terra di confine.
Erano le frontiere, le immense barriere di luce che circondavano l'Adhar, la sua regione, e che sancivano il limite al di là del quale mai avrebbe potuto spingersi.
Oltrepassarle, rinnegando le proprie origini, era impossibile. Ed era pericoloso, oltretutto: le regioni delle Terre del Nord non nutrivano di rapporti amichevoli tra di loro e le tensioni rasentavano la guerra. Ad ogni modo, chiunque avesse provato a superare quel confine luminoso sarebbe stato identificato all'istante tramite il proprio contatto e non avrebbe avuto alcuna via di scampo. Gli Agenti di Controllo erano ovunque: non avrebbero tardato a trovare e arrestare un fuggitivo, segnalato dalla rilevazione delle frontiere.
Erano sbarre invalicabili di una gabbia immensa. Eppure, quelle linee di luce azzurra che si allungavano nel buio per centinaia di metri, fino a perdersi oltre il limite di uno sguardo, erano uno spettacolo affascinante.
Mavi ne era innamorata fin da quando le aveva viste per la prima volta. Se ne sentiva attratta, aveva l'impressione che cercassero di comunicarle qualcosa. Aveva sempre desiderato avvicinarsene ancor di più, ma non l'aveva mai fatto.
Non negava che tra le sensazioni che le impedivano di spingersi al di là di quel tetto ci fossero la paura, l'inquietudine e quel briciolo di prudenza che aveva sepolto dentro di sé, sotto al disinteresse, alla curiosità e alla propensione per il rischio. Aveva sempre sognato di farlo, ma mai ne aveva trovato il coraggio.
Da quando aveva scoperto quel posto, alcuni anni prima, ne era diventata assidua frequentatrice. Amava arrampicarsi, penzolando nel vuoto delle tenebre; amava esercitarsi con l'immancabile pugnale trovato proprio lungo la strada che conduceva alla fabbrica, o con qualche vecchio pezzo di legno marcito. Amava restarsene seduta lì, ferma per ore, ad assaporare il buio, il silenzio e la solitudine.
Tutti avevano paura della notte, perché l'oscurità ospitava ogni timore; invece a Mavi la tenebra piaceva, perché le concedeva di sognare e immaginare qualcosa che non c'era. E così, di notte, Mavi immaginava: oltre quella vecchia fabbrica dismessa e quella tettoia dalle tegole spaccate, oltre le frontiere che illuminavano le linee ininterrotte del confine, immaginava distese sconfinate di campi, prati fioriti, alberi e specchi d'acqua; immaginava strade popolate da risa, canti e allegria, immaginava sorrisi e felicità.
Immaginava la libertà. E mai, mai avrebbe ceduto alla realtà. Aveva fatto una promessa.
«Non lasciare che nulla uccida mai la ragazzina che sei e la donna che diventerai» le aveva detto il nonno in punto di morte, diversi anni prima. «Promettimi che non smetterai di sognare. Non farlo, Mavi, o sarà davvero la fine.»
La piccola Mavi di un tempo forse non aveva capito, sorpresa da quell'uomo che rare volte le aveva parlato. Ma da quel giorno aveva continuato a sognare anche quando le era stato quasi impossibile riuscirci e aveva imparato a ritagliarsi ore intere della notte per poterlo fare indisturbata.
La paura di adeguarsi e di non essere all'altezza degli altri aveva lasciato il posto alla sfrontatezza, all'indifferenza che adesso contrassegnava il suo carattere sfacciato e impertinente. Adesso non le importava più di fingere: lei era Mavi, e se a qualcuno non andava bene non erano affari suoi. Aveva mantenuto la sua promessa e continuava ad onorarla a testa alta. Mite di giorno, ma viva di notte.
Ormai saltava sui tetti con un'agilità felina, conosceva a memoria ogni parete di mattoncini scheggiati, ogni macchia di ruggine sui macchinari dimenticati, ogni asse dei pavimenti consumati da milioni di passi. Conosceva ogni buco nei muri, ogni passaggio, ogni varco. Aveva imparato a muoversi nel buio senza fare il minimo rumore, a leggere la notte, a riconoscere i passi e i respiri umani che ogni tanto si facevano sentire.
Non era raro che all'esterno del muro che circondava la fabbrica passassero gruppetti di Funzionari, quasi sempre Agenti di Controllo. A volte erano soli, a volte scortavano i Profanatori verso la Dimora della Luce, poco distante da lì, oppure si accingevano a pattugliare le terre di confine.
Non era raro neanche imbattersi in veri e propri criminali che tentavano la fuga prima di essere rintracciati tramite il contatto. Ma Mavi se ne restava ferma e zitta, senza farsi scoprire. Aveva imparato a non aver paura.
Le frontiere tremolarono appena per un istante, catturando la sua attenzione. Poi tornarono a luccicare del loro feroce bagliore azzurro.
Doveva esserci qualcuno. Funzionari, senza dubbio. Ma erano lontani e non c'era motivo di preoccuparsi.
Mavi sospirò. Per quanto fossero insopportabili, almeno agli Agenti di Controllo era concesso, seppur di rado, varcare quel confine. Loro sapevano che cosa si celava al di là della linea bluastra che li divideva dal resto del mondo.
Quanto avrebbe voluto poterlo fare anche lei: uscire dall'Adhar e viaggiare, conoscere nuove terre, incontrare le persone che le popolavano. Quanto avrebbe voluto toccare il mare, di cui tutti parlavano ma che nessuno aveva mai visto. Ma nell'Adhar non c'era il mare, pertanto quel desiderio sarebbe rimasto tale per sempre.
Persa nei suoi sogni, Mavi se ne restò a lungo accovacciata sul tetto della fabbrica. Quando sentì le spalle rabbrividire per il freddo intenso delle ore più buie, si rese conto che si stava facendo tardi. Aveva fantasticato abbastanza, per quella notte: gettò un'ultima occhiata alle frontiere, salutò a malincuore la luna e si apprestò a scendere.
Non poteva proprio trattenersi oltre. Era stanca, reduce dalla giornata di Cerimonia, e le aspettava una nuova mattinata al Rifugio per celebrare l'inizio della primavera: un'altra festività che stentava a tollerare.
Si calò giù, lungo il muro di mattoni, fino alla vecchia finestra da cui era uscita un paio d'ore prima. Nella quiete della notte aguzzò le orecchie e acuì i sensi, in attesa di abituarsi al buio della fabbrica.
L'immobile silenzio che avvertì le confermò che era sola. Percorse a ritroso l'enorme stanzone, raggiunse la scala, fece per scendere.
Poi un fruscio, appena percettibile.
Ne era sicura. Le sue orecchie, allenate dai silenzi notturni, non sbagliavano mai.
Mavi si irrigidì. Ancora arrampicata sulla scala, si guardò intorno, cercando di scorgere qualcosa nella pallida luce lunare che entrava dai vetri spaccati.
Nello stesso istante in cui i suoi occhi si imbatterono in un'ombra sconosciuta, uno dei pioli della scala scricchiolò miseramente.
L'ombra si mosse di scatto. L'aveva vista.
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