Capitolo cinque - Uno strano incontro
Mavi trattenne il fiato. Il panico si impadronì di lei per qualche secondo: il cuore prese a martellarle nel petto e un brivido di terrore le scese lungo la schiena.
C'era qualcuno. Di certo, non una presenza amica.
La ragazza imprecò tra sé. In anni di fughe notturne, mai nessuno l'aveva scoperta: aveva sempre potuto contare sulla propria agilità per salvarsi la pelle. Ora, invece, per colpa di un maledetto piolo scricchiolante, stava rischiando di mettersi in guai seri.
Cercò di restare lucida e di ragionare. Se si fosse trattato di un Funzionario, questi non avrebbe indugiato così a lungo prima di rivelarsi e un colpo deciso di astaluna non si sarebbe fatto attendere. Doveva trattarsi di qualcun altro: un folle, un Profanatore, un malvivente che cercava di nascondersi, o magari solo un animale ferito.
Il battito impazzito di Mavi si placò appena. Ormai era spacciata, per cui non ne valeva la pena restarsene pietrificata dal terrore. Doveva agire.
La sua attenzione venne catturata da una scheggia di luce riflessa in qualcosa di metallico: qualcosa che l'ombra stava brandendo e che somigliava terribilmente a una lama.
Mavi scattò all'istante: la paura svanì e in lei rimase soltanto il desiderio di vivere. Recuperò il vecchio, fedele pugnale nascosto nello stivale con un movimento fluido del braccio e scese dalla scala in un balzo, con una rapidità fulminea.
L'ombra, tuttavia, fu più veloce. Una sola spinta e in un attimo la ragazza si ritrovò a terra. Il pugnale le era scivolato di mano e brillava sul pavimento polveroso della fabbrica, a pochi passi da lei.
Mavi indietreggiò, allontanandosi appena in tempo, e si rialzò di scatto. Recuperò il pugnale e in un istante tutta la paura, la rabbia e la frustrazione di una vita si fusero nell'elsa che ora stringeva tra le dita.
Balzò in avanti e lasciò che il suo corpo agisse per lei, reduce di anni di allenamenti segreti. La figura schivò i suoi colpi, mostrando dei riflessi piuttosto acuti.
«Diamine!» sibilò una voce maschile.
Le due lame cozzarono cinque o sei volte; poi qualcosa afferrò il polso di Mavi e glielo torse. Il pugnale le cadde di nuovo.
L'ombra la spinse a terra con forza, lei si puntellò sulle braccia per rialzarsi. Non riuscì a trattenere un urlo di dolore quando la sua mano sinistra incontrò i mille frammenti acuminati di un vetro rotto, che le ferirono il palmo.
Il suo aggressore trasalì e si scostò da lei. Questo le bastò per rimettersi finalmente in piedi, le spalle contro il muro, ansimando dal dolore e dallo sforzo.
La strana figura rimase ferma, davanti a Mavi: la ragazza poteva sentirne il respiro affannoso che si confondeva con il suo. Aveva raccolto il pugnale che le era scivolato e adesso teneva puntate entrambe le lame su di lei.
Era stata una stupida, imprudente come al solito. Si era illusa di potersi difendere da uno sconosciuto, forse un assassino, molto più esperto di lei.
Non aveva vie di scampo: era sola, disarmata e per giunta ai confini della periferia. E adesso era finita, e lei non era riuscita a resistere neanche per un minuto a quell'aggressione silenziosa.
«Sei una donna!» esclamò l'ombra.
«Però, osservazione acuta.»
«Non credo che tu sia nelle condizioni di scherzare.»
L'ombra si rigirò i pugnali tra le mani. La sua voce era quella di un uomo e aveva qualcosa di insolito, uno strano accento.
Possibile che si trattasse di uno straniero?
Mavi inspirò. «Che cosa vuoi?» gli chiese in tono di sfida.
«Io... Niente, in realtà. Ti chiedo scusa se ti ho aggredita e spaventata.»
L'uomo rinfoderò la sua arma e le porse di nuovo il suo pugnale, che lei afferrò in fretta. Non poteva crederci.
«Cosa?!»
«Ho detto che ti chiedo scusa. Non era mia intenzione attaccarti, mi dispiace. Non pensavo che... insomma, che tu fossi soltanto una ragazzina. Non voglio altro che riposare in pace per ciò che resta di questa notte.»
Mavi lo fissò. Una fascia di luce lunare gli aveva illuminato il corpo sottile, fasciato da una camicia chiara e da un paio di pantaloni che sembravano logori. Il suo volto era celato dal cappuccio del mantello e dal buio della fabbrica, e la ragazza non riuscì a distinguerne i lineamenti.
«Chi sei?» chiesero entrambi, all'unisono.
Lui alzò le spalle. «Nessuno di importante» rispose. «Sono una cicatrice invisibile, un urlo muto, una corsa folle priva di traguardo. E tu?»
Mavi sorrise, triste. «Allora siamo in due.»
«E cosa ci fai tutta sola in un posto del genere, in una notte fredda come questa?»
«Potrei fare la stessa domanda a te.»
L'uomo ridacchiò. «Sei sfrontata. Mi piace il tuo coraggio. Sei stata anche abbastanza eroica da chiamare un Funzionario, per caso?»
Mavi esitò. Era la cosa più immediata e sensata da fare, in effetti. Sarebbe bastato premere tre volte sul contatto e un Agente sarebbe arrivato a soccorrerla senza indugio. Eppure, lei non ci aveva pensato nemmeno per un istante.
«Allora?»
«No.»
«Sicura?»
«Se l'avessi fatto, l'avrei saputo.»
«Bene. Tanto meglio. Non ho alcuna voglia di avere a che fare con loro.»
Lei continuò a fissarlo. «Sei un assassino?» gli chiese.
«No.»
«Hai intenzione di farmi del male?»
«Non rientra nei miei interessi, no.»
Mavi sospirò. «Allora sei un Profanatore.»
«Te l'ho già detto.»
L'uomo si voltò verso una finestra, la raggiunse e inspirò l'aria fredda della notte. Mavi notò che zoppicava.
«Mi hai detto cosa?»
«Che non sono nessuno.»
La figura si mosse e il cappuccio gli ricadde sulle spalle. La luce era ancora troppo fioca per riuscire a scorgere bene il suo viso, ma Mavi capì che apparteneva a un giovane, non molto più grande di lei.
Abbassò lo sguardo, turbata. Non sapeva come comportarsi, cosa pensare: non aveva mai avuto a che fare con un Profanatore prima di quel momento – ed era abbastanza sicura che quel giovane lo fosse. Ne aveva visti diversi, certo, aveva assistito a numerosi arresti ed era stata testimone di alcuni discorsi scomodi, ma mai aveva interagito con uno di loro.
Le venne da pensare a Nastor, alle storie che raccontava su quanto fosse stato difficile e pericoloso affrontare i Profanatori in cui si era imbattuto. Eppure lei non aveva paura di quel ragazzo: non riusciva ad averne.
Avrebbe dovuto allontanarsi prima possibile e cercare aiuto, ma al tempo stesso si sentiva inspiegabilmente legata a quello sconosciuto così misterioso, così indecifrabile. Così simile a lei, in fondo.
«Devi essere una persona fuori dal comune, ad ogni modo» disse lui, interrompendo la sua catena di pensieri.
«Cioè?»
«Beh, andarsene in giro da soli, di notte... con un bel pugnale pronto per l'occorrenza, e per giunta senza nemmeno affidarsi a un Funzionario qualificato nel momento del bisogno. Non è una cosa da poco. No, per niente.»
Mavi tacque, irrequieta. Solo adesso si rendeva conto di quello che aveva fatto; o meglio, di quello che non aveva fatto. Eppure quella era la prima lezione che ti facevano entrare in testa da bambino: convocare le autorità. Non farlo significava agevolare il Male, significava tradire Uhr e i suoi insegnamenti.
La ragazza rabbrividì. Dentro di lei qualcosa si contorse e i mille frantumi che da sempre le ostruivano i pensieri sembrarono ricomporsi in un'immagine terribile. Per la prima volta in vita sua, si sentì davvero perduta.
Si lasciò cadere a terra e finì seduta, la schiena contro il muro e la mano ferita stretta in quella sana. All'improvviso, tutto sembrò perdere quel briciolo di senso che in anni di sacrifici era riuscita ad attribuire a ogni piccola cosa. Non le importava più nemmeno di difendersi da quello strano, oscuro personaggio.
«Ehi? Stai bene?»
Lui le si avvicinò. Mavi restò immobile.
«Sei ferita?»
«È una scemenza.»
Si sforzò di usare un tono fiero e indifferente, ma i tagli sul palmo cominciavano a farsi sentire con acute fitte di dolore.
Il giovane se ne accorse e avanzò ancora di un paio di passi, fino a ritrovarsi davanti a lei. Si piegò sulle ginocchia, le prese le mani e le ruotò i palmi verso l'alto, incurante di ogni ostilità. Mavi desiderò di ritrarsi a quel contatto, ma si sentiva troppo debole per reagire.
Lui cercò di esaminare le ferite ai flebili riflessi della luna, ma l'oscurità dominava l'interno della fabbrica.
«Usciamo da qui, è troppo buio. E poi un po' d'aria ti farà bene. Ce la fai?»
Si rimise in piedi e le porse una mano. Mavi biascicò un assenso, si rialzò a fatica e si trascinò fuori, seguendolo. Le mancava il respiro e forse tutto ciò di cui aveva bisogno, in effetti, era una boccata d'aria.
Una volta fuori dalle vecchie mura della fabbrica, Mavi poggiò la schiena a un pilastro che non sorreggeva ormai più nulla, inspirò a pieni polmoni il freddo della prima notte di primavera e restò in silenzio.
«Va meglio?» le chiese lo sconosciuto e lei annuì col capo, scossa da tremiti incontrollabili. La mano le pulsava e i tagli facevano male.
Il ragazzo frugò nella minuscola bisaccia che portava a tracolla e ne estrasse qualcosa. Le si avvicinò deciso e le afferrò il polso sinistro, ma Mavi si liberò con uno scossone.
«Sto cercando di aiutarti!» esclamò lui, mostrandole i due lembi di tessuto bianco che aveva tirato fuori dalla borsa. Con uno dei due ripulì il sangue e le avvolse l'altro attorno alla mano con inaspettata delicatezza. Il secondo panno, appena umido, le donò un immediato sollievo.
«È impregnato di un estratto delle radici di una pianta medica, l'Agathusa: disinfetta la ferita e allevia il dolore. Lo stavo usando per me, ma ne è avanzata una striscia» le spiegò.
Mavi continuò a tacere per un po'. Osservò lo sconosciuto e notò una macchia di sangue sulla manica della sua camicia. Doveva avere un braccio fasciato.
«Grazie» mormorò. Lui mugugnò un assenso.
All'aria aperta il respiro di Mavi si calmò, l'angoscia e le preoccupazioni sfumarono pian piano nel cerchio di luce bianca della luna. Stava meglio.
«Sei uno straniero, non è vero?» chiese al giovane, la voce incerta.
Lui la scrutò, torvo. «Cosa faresti, se ti dicessi di sì?»
Mavi non rispose, paralizzata dallo stupore, e il ragazzo si rabbuiò.
«Come pensavo» borbottò. «Avrai una paura fottuta. Non me ne meraviglio: per una creatura di Uhr, tutto ciò che va oltre le sue limitate conoscenze è un pericolo insormontabile, una minaccia, un mostro da abbattere e bruciare sul rogo.»
«Veramente volevo solo chiederti come hai fatto a oltrepassare le frontiere.»
Lui strabuzzò gli occhi, incredulo. «Cosa?!»
«Ti ho visto arrivare» ricordò Mavi. «Circa un'ora fa ho visto le frontiere tremolare per un istante. Eri tu, non è così?»
Lo sconosciuto tacque per un po'.
«Sì, ero io» confermò poi «e devo scusarmi di nuovo. Chiunque addita un forestiero come un nemico. Non immaginavo che tu fossi fuori dal comune fino a questo punto.»
«Si capisce così tanto?» sospirò Mavi.
Lui sembrò accennarle un sorriso. «Non credo ci sia nulla di male in questo» le disse. «Anzi... Le persone comuni si incontrano tutti i giorni. Invece tu, forse, riesci a pensare con la tua testa. Tu non temi il confronto con idee che si discostano dal normale, non ti spaventi se ti allontani dalle abitudini, non hai paura di scoprire qualcosa di diverso dal solito. Forse l'unica cosa che temi è il giudizio degli altri, e sinceramente ti capisco: in un mondo come questo, il giudizio è l'unica cosa che sembra contare.»
Mavi sorrise amara. «Sei riuscito a tracciare un perfetto ritratto di me senza nemmeno conoscere il mio nome» disse allo straniero.
«Sono un bravo osservatore» spiegò lui.
Lei si morse il labbro, turbata. Per la prima volta in vita sua aveva espresso la volontà di oltrepassare le frontiere, e per di più l'aveva fatto parlandone con un Profanatore. Una strana inquietudine cominciò a farsi strada nel suo petto, sempre più decisa a spodestare ogni traccia di tranquillità.
Aveva paura. Se solo Uhr li avesse ascoltati... Se solo un Funzionario li avesse sentiti, per loro sarebbe stata la fine.
«Potrebbero intercettarci...»
La voce le tremava, ma lo sconosciuto le sorrise con una calma innaturale.
«Puoi stare tranquilla. Sono l'unico testimone delle parole che hai detto.»
«Questo non è possibile. Uhr ha mille occhi e mille orecchie.»
«Le orecchie di Uhr non sono le mie.»
Mavi rabbrividì. C'era qualcosa in lui che le faceva uno strano effetto.
«Posso conoscere il tuo nome?» gli domandò.
Il giovane sembrò esitare per un momento. Guardò Mavi negli occhi e i suoi vacillarono appena. Sorrise triste, i riccioli ribelli mossi dal vento e un accenno di turbamento sul viso. Poi pensò che in fondo non c'era nulla di male in ciò che lei gli aveva chiesto.
«Mi chiamo Reven.»
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro