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31. Il male partiva dallo stomaco

Un'altra settimana, altri sette pasti e sette notti, sette tramonti mancati e albe viste da un piccolo spiraglio di luce che penetrava dalla nostra cella. Sette giorni passati, tutti e sette stretta nelle braccia di Killian a rimpiangere ogni scelta fatta e a parlare d'amore.

Era strano pensare che fino a qualche tempo prima mi consideravo un altro tipo di persona, poco combattiva e tanto pretenziosa, ma soprattutto troppo debole per affrontare una situazione tanto scomoda.

Poggiai una mano sul pavimento ruvido, cosparso da sassolini che mi facevano sussultare dal dolore ogni qualvolta mi sedevo, e mostrai un sorriso finto e stanco all'uomo davanti a me.

Lui, in posizione retta e con i pugni chiusi, negò con la testa e fece un sospiro profondo. Il suo demone interiore attendeva di essere liberato, almeno quanto io desideravo poter nuovamente essere baciata dalla luce del sole.

Fece pochi passi in direzione delle grandi e possenti sbarre, stringendo i suoi palmi su di esse e muovendosi compulsivamente per romperle.

"Per quanto tempo ancora?" domandò al nulla, guardando oltre la cella, dove pensava ci fosse il nulla. Nel buio e nel vuoto, una misera e fiacca lanterna, appesa a un gancio nel mezzo dell'infinito corridoio, era l'unica forma distinta disposta ad ascoltarlo. "Per quanto tempo ancora ci terrete qui, senza scopo e senza obbiettivo?" urlò di nuovo, stavolta alzando ulteriormente il tono.

"Inutile sprecare la voce, non c'è nessuno ad ascoltarti" rispose una voce tremante, talmente piatta e spenta da rendere a me impossibile riconoscerla.

Rimasi sorpresa dal sentir parlare qualcuno che non fosse Killian. Credevo che oltre noi due le segrete fossero vuote, ma la fiacca lucetta, che impediva di vedere ciò che c'era due metri oltre la nostra gabbia, poteva spiegare l'incomprensione.

Mi alzai in piedi e poggiai una mano intorno al braccio possente del pirata, il quale volto esprimeva lo stupore.

Non mi ero mai fermata a osservare l'ambiente intorno a me, tutto quel tempo imprigionata era andato perso tra lamenti e sbuffi.

Due settimane dalla mia cattura notai una seconda cella, posta di fronte alla mia, dalla quale due braccia esili e sporche di terra spuntavano e tentavano di essere raggiunte.

"Chi sei?" chiesi, strizzando gli occhi nel tentativo di scorgere una qualunque figura.

Il viso di quella ignota figura si fece più chiaro, quando poggiò le guance tra le sbarre per mostrarci la sua identità e, nonostante lo sporco e gli occhi incurvati dal dolore, la riconobbi.

"Regina."

"Mi dispiace, Emma" rispose, con un tono poco più deciso rispetto a qualche attimo prima.

Mi passai una mano sul volto e feci qualche respiro profondo per prendere lucidità. La mia unica consolazione era stata la consapevolezza che la mia seguace era riuscita a fuggire. Vederla lì, apparentemente distrutta, più magra e debole, mi fece provare un dolore non indifferente.

Il mio male non partiva dal cuore, ma dallo stomaco, saliva fino alla gola e mi bloccava il respiro, rendendo difficile anche solo risponderle.

Volevo scappare, come da abitudine, per lasciare quell'emozione morire, ma ero in trappola e andare via non era tra le mie opzioni.

Killian aveva intrapreso una discussione con l'altra prigioniera, per farsi raccontare come fosse finita lì, ma io non avevo bisogno di confrontarmi con la mora. Conoscevo abbastanza bene la mia famiglia, da capire come si fosse comportata:

Riducevano ogni sentimento a un gioco, come una partita a scacchi, in cui Regina era la mia torre e Neal l'aveva appena mangiata.

Quella giornata si rivelò piena di sorprese, ovviamente non positive, ma era pur sempre qualcosa su cui lavorare per andare avanti.

Qualche ora dopo i pasti si presentò una delle guardie reali, vestita con la solita armatura scura e lo sguardo fisso nel vuoto che aveva davanti.

Picchiettai sul braccio di Killian, che assonnato si era appoggiato al muro, pronto per cedere al sonno.

Si avvicinò alla cella e, senza emozioni nel tono, disse: "Prigioniera, sporgi le mani oltre le sbarre e resta in silenzio."

Annuii. Non ero in vena di contraddire nessuno, neanche una guardia che mi trattava come se non avesse mai avuto il minimo timore di me, della principessa che ero prima.

Mi limitai a rivolgergli uno sguardo torvo e obbedire.

Poggiai le mani tra le lastre di ferro e attesi che l'uomo sciogliesse una corda e la legasse intorno ai miei polsi.

Né io, né Killian, provammo a parlare.

"Tu, prigioniero, fai due passi indietro e non tentare di fuggire, o la uccido."

Rivolse al pirata uno sguardo fulmineo e un brivido percosse il mio corpo al solo sentir nominare la morte.

Mi voltai, per trovare conforto negli occhi di Killian, il quale mi rivolse un veloce occhiolino pochi attimi prima che il soldato aprisse la cella e mi trascinasse fuori da essa, senza accennare a un minimo di delicatezza o sensibilità.

Mi sentii più simile a un animale, che a una persona.

Percorremmo le segrete in silenzio, l'unico rumore che udivo era causato dal fruscio del vento, che penetrava dalle fessure di quelle stanze mal progettate.

In poco tempo, trascinandomi da un braccio, arrivammo davanti al portone della sala del trono che in quel momento mi sembrò così estraneo da farmi paura.

"Il principe vuole parlarti. Ti conviene fare la brava o stavolta non ci penserà due volte prima ucciderti" disse la guardia.

Io ingoiai della saliva e trattenni il respiro, mentre lui poggiò le sue manacce sulla maniglia e la serratura emise un rumore quasi impercettibile.

Provai paura, ma contemporaneamente sentivo che stavo andando incontro a ciò di cui avevo più bisogno.

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