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86 Scopami nel modo sbagliato

Mi amò con tutto quello che aveva a disposizione. Con le mani, con gli occhi, con la bocca. Mi amò anche con l'uccello, decidendo deliberatamente di non usarlo. Io mi sarei sentita amata anche se avesse deciso di usarlo, a dir la verità, ma non feci capricci per la mancanza di sesso. Lo interpretai come un pegno per il suo ritorno. Trevor parlò poco quel giorno, ma si impegnò con instancabile concentrazione per far sì che non bruciassi il nostro tempo contando e maledicendo ogni secondo che passava incurante della mia insistenza affinché gli istanti si prendessero una vacanza, e smettessero di andare avanti.

Trevor quasi ci riuscì a convincermi che quel tempo aveva un valore, e che i minuti non erano l'ennesima perdita che dovevo affrontare.

Ma volle anche sapere alcune cose, e io capii che mi stava mentendo, e che lui odiava ogni scheggia di tempo tanto quanto me, perché quelle merde di ore non volevano smettere di fare il loro lavoro, lasciandosi incenerire da quella successiva.

«C'è qualcuno di cui ti fidi, nel posto in cui andrai?»

Me lo chiese mentre mi cambiava le garze intorno al braccio.

«Sì.»

Alzò lo sguardo, non convinto dalla risposta poco espansiva. «Qualcuno che conosci?»

Era una scocciatura la sua capacità di intercettare le mie bugie. Mentirgli avrebbe solo alimentato la sua inutile preoccupazione. «Non di persona.»

Come aveva fatto ogni singola volta in quei due giorni, mi baciò la mano fasciata dopo aver finito la medicazione. «E come fai a sapere che puoi fidarti?»

Lo accarezzai con la mano sana. «Nello stesso modo in cui so che posso fidarmi delle persone che abitano in questo condominio, Trevor.»

«Questa è gente che ti ha vista nascere e crescere, Lea.»

«Anche Matteo Gessi mi aveva vista nascere e crescere. Evidentemente non è una discriminante molto affidabile.»

Sospirò, passandosi le dita tra i capelli. «Hai un posto in cui alloggiare? Qualcuno che ti aiuti con la lingua straniera? Che ti possa portare da un medico per seguire i progressi dell'ustione o che ti possa visitare se ti senti male?»

«Sì.»

«È molto importante che tu abbia cura di te, bambina mia.»

«Avrò cura di me se tu ne avrai di te.»

Sbuffò. «Non è una risposta che mi soddisfa, Lea.»

«È l'unica risposta che avrai.»

Scosse la testa. Sapeva che non mi avrebbe strappato promesse diverse da quella che gli avevo appena fatto.

***

A pranzo ci portarono i cannelloni e io seppi riconoscerli con certezza: erano della signora Verdianelli e fui felice che fosse ancora viva.

Rimisi la pirofila pulita fuori dalla porta. Sul divano guardammo tutti i film de I guardiani della Galassia, tranne l'ultimo.

«È troppo triste» fu la lapidaria giustificazione di Trevor, la stessa che mi aveva dato settimane prima in ben altra occasione. E siccome avevo già troppi motivi per essere ben più che triste, accettai il suo verdetto.

Avevo sempre addosso qualcosa di Trevor: le mani, la bocca, gli occhi, o tutte e tre le cose.

Dopo i film le sue coccole divennero troppo focose da sopportare, mi consumavano piano come fuoco latente sotto cumuli di cenere.

Chissà se il Sweety era rimasto in piedi. Chissà se il suo scheletro oltraggiava l'orizzonte della sperduta campagna padana. Speravo di sì. Speravo che di me, in quel posto, rimanesse il corpo non abbastanza morto dell'unica cosa che mi era appartenuta davvero.

Sospirai troppo rumorosamente, e Trevor, che aveva la bocca sulla mia gola e le mani sui miei fianchi, se ne accorse. Alzò lo sguardo in cerca del mio, che gli stavo a cavalcioni in cerca di speranze.

«Hai brutti pensieri, bambina?»

Mi venne da ridere. «Brutti pensieri, signor Baker? Non so in che modo le cose potrebbero essere più complicate di come lo sono adesso.»

Mi fece scendere dalle sue gambe, e mi mise sdraiata sul divano. Mi si sistemò addosso e mi chiesi se avremmo mai resistito a una scopata epocale in quella posizione.

«Potrebbero essere molto più complicate di così, lo sai. Potevo non arrivare in tempo al Sweety. Potevi non avere con te l'accendino per dar fuoco a Viktor. Potevi essere nelle sue mani, adesso. Ecco, questo sarebbe più complicato, Lea. Invece siamo qui, su un divano, un po' malconci, ma vivi e insieme...»

«Insieme, ma per poco. E abbiamo visto morire anche gente che non lo meritava affatto.»

Mi passò le dita tra i capelli. «Non ho detto che non è complicato, ma che potrebbe esserlo di più.»

Alla fine decisi che volevo sapere. «Te ne vai stasera?»

Appoggiò la fronte alla mia, il suo respiro caldo che s'infrangeva sulle mie labbra. «Sì, se non ti sale la febbre, vado via stasera. E anche tu. Anche tu sparisci in nottata.»

Inghiottii lacrime e tristezza. «Quante ore abbiamo?»

«Non lo so.»

Gli presi il volto tra le mani e lo alzai per vederlo in faccia. «Quante ore, Trevor?»

«No lo so» ribadì.

«Come fai a non saperlo?»

«Non so quante ore mi servono per essere pronto a lasciarti andare.»

«Io non lo sarò mai. Non sarò mai pronta.»

Mi prese la mano sana con le sua e mi baciò le dita. Me ne dava così tanti... e più me ne dava più ne volevo. «Tu sei sempre stata pronta, bambina.»

Bugiardo.

«E quanto tempo ti serve per tornare da me?»

«Con il tuo aiuto, mi basterà qualche settimana.»

«Qualche settimana vuol dire tre settimane o quaranta settimane?»

«Più di tre, meno di quaranta.»

«E mi contatterai nel frattempo?»

«No, Lea. Ma farò in modo che tu non ti senta sola.»

«Mi sentirò sola per forza. Non saprò dove sei, come stai, con chi sei, se sei vivo, cosa stai facendo. Vivrò l'attesa e l'attesa mi consumerà mentre non ho un bel cazzo da fare. La mia vendetta si compirà in una manciata di ore e io non ne sarò nemmeno testimone. Fammi venire a Londra con te. Mi sentirò meno sola a saperti vicino.»

«Ne abbiamo già parlato. Non cambieremo i piani. Il posto in cui sarai non deve avere niente a che fare con me, o ti troveranno.»

«Se mi nascondo troppo bene poi non mi trovi neanche tu.»

«Ti troverò. Dovrò disattivare la geolocalizzazione del tuo smartwatch. Ma tu tienilo lo stesso, mi raccomando. In qualche modo ti trovo.»

«Sono due i posti in cui mi devi cercare, signor Baker.»

«Non dirlo Lea. Magari siamo intercettati, forse abbiamo addosso quache tecnologia sconosciuta...»

«Anche io ho fatto in modo che tu non ti senta solo.»

Era raro che l'espressione di Trevor rivelasse stupore, ma in quell'occasione accadde. La mia autostima rialzò la testa. «Come...»

«Quando ti mancherò, mi troverai nei vetri appannati, signor Baker. Ma quando vorrai sapere dove sono...»

Alzai il collo per bisbigliare le mie ultime parole nell'orecchio «...dovrai cercarmi negli unici vetri appannati che sono partiti dall'Italia e si sono fermati a Londra.»

Realizzò all'istante l'opportunità. Era una speranza sottile, la mia, affidata a un qualcosa di effimero e fragile, ma che apparteneva solo a me e a lui. Nessuna tecnologia poteva scovare quello che gli avevo lasciato. Lo sguardo di Trevor si accese di meraviglia e sulla faccia prese vita un sorriso che fece riaffiorare il bambino che era stato.

«Hai detto che tornerai entro quaranta settimane ma dopo tre. Cercherò di stare bene per i primi ventuno giorni, Trevor. Dal ventiduesimo ogni minuto sarà un'attesa morbosa, mi terrò in vita fino alla fine della trentanovesima settimana.»

La meraviglia scomparve dal suo viso. Il sorriso si sciolse lasciando posto a una smorfia disperata. «Lea ti prego...»

«Puoi tornare anche solo per dirmi che non mi vuoi più...»

«Non dire stronzate.»

«... mi basta sapere che ce l'hai fatta. Ma non sparire e basta, ti prego. Almeno per un'ora, o un minuto, torna da me.»

Mi lasciò un bacio sulla fronte. «Tornerò da te. E sarà per sempre.»

***

Volevo solo farlo sentire amato come faceva lui con me. Volevo solo ribilanciare il mio dare con il suo avere.

Era ovvio che, in un qualche modo, ci saremmo ritrovati nudi nel letto: la nostra pelle si cercava con animalesca convinzione, guidata da un istinto vecchio come il mondo, che forse aveva a che fare con la procreazione più che con la sopravvivenza. Ogni suo bacio era una goccia di pioggia fresca sul viso caldo, Trevor era il mio temporale incazzato che piegava l'estate con la sua violenza insensata, donava sollievo ma faceva paura, rilasciava troppo e troppo in fretta, rovesciava la sua materia con furia cieca senza preoccuparsi che quello che gli stava sotto avesse la capacità di assorbire tutto. Portava con sé la cattiveria dei venti, inghiottiva il calore, e il suo passaggio lasciava segni e squarci. Era quello di cui avevo bisogno, perché il corpo può gestire un solo dolore alla volta, e Trevor Baker poteva essere il più grande dolore della mia vita, quello che si portava via tutti gli altri e portava via, alla fine, anche me.

Poteva essere la mia grande, rumorosa e fragorosa... fine.

Oppure, il mio inizio. Un altro. In fondo, dopo la tempesta, quando tutto è distrutto, si può ricostruire. Ricominciare, almeno.

E lo avevo capito che non aveva intenzione di entrarmi dentro, che era più che deciso a conservare quel bisogno disperato di cavalcarmi fino a quando non avesse lanciato anche la sua ultima saetta sul mondo, dissolvendo ogni nube nera, lasciando di nuovo spazio a un cielo generosamente azzurro.

Io invece lo volevo dentro, perché se non potevo sparire con lui, o dentro di lui, allora dovevo dare un senso a me stessa in qualche modo. E alla mia bocca, Trevor, non aveva saputo resistere mai. Era il suo compromesso preferito, una succulenta opportunità di svuotarsi dentro di me, riempirmi, occuparmi per bene, senza che la coscienza gli si divincolasse più di tanto nel cuore. E a me, dannazione, piaceva così tanto, perché era sofferenza fisica, una sopportazione umile, era il mio pegno, un sacrificio incantevole per me che veneravo il dolore e veneravo Trevor e veneravo il modo in cui Trevor gestiva il dolore per me, calibrandolo nei modi, nei tempi, nelle dosi.

Le sue mani non erano mai rudi, ma erano sempre severe quando mi stringevano i capelli per dettarmi il ritmo, per insegnarmi la disciplina del sesso orale, per mostrarmi fin dove ero tenuta ad arrivare, quanto in profondità era opportuno accoglierlo. Quella sera decise che la permanenza del suo uccello nella mia gola doveva essere più lunga possibile.

«Trattienilo, Lea. Trattienilo, perché che se ti muovi troppo, o troppo in fretta, vengo presto, e non voglio venire presto. Non voglio proprio venire presto...»

Neanche io volevo che venisse presto. Resistetti, il suo pugno sulla nuca che mi stringeva i capelli, l'altra mano che si ricordava di elargirmi un po' di tenerezza accarezzandomi le spalle, o la guancia, mentre la bocca gli sfiorava la pancia, e la sua lunghezza mi attraversava in misura quasi insostenibile, varcando con noncuranza il palato, scansando l'ugola, ignorando le tonsille e oltraggiando la cavità della gola ben oltre l'immaginabile.

E lo trattenni, come mi aveva chiesto, come mi aveva ordinato, gli occhi pieni di lacrime per lo sforzo per secondi lunghissimi, mentre mi guardava concentrato, stabilendo che poteva bastare solo quando la mancanza di respiro mi fece agitare appena un po'.

Mi liberò la bocca in fretta e artigliai l'aria con un sospiro carico d'urgenza, accompagnato da un verso acuto che morì sulle sue labbra, che mi si avventarono addosso fameliche, rubandomi un po' di respiro. Risposi a quel bacio animalesco in un qualche modo, ma il suo appetito era inestinguibile, e io ero a corto d'ossigeno. Mi leccò lo stesso, dentro la bocca e fuori, imponendosi anche con i denti, e accettai tutto, sperando di averne un'altra dose.

Si allontanò solo per guardarmi, forse assicurarsi che non stessi piangendo. Io in lui vidi l'incarnazione dell'appetito, una voglia estraniante, ingovernabile.

«Non sto capendo più un cazzo, Lea...»

Io meno di lui. «Ancora. Posso accoglierlo ancora.»

E in realtà non ne ero affatto certa, ma ormai gli avevo accordato quella possibilità e lui non se lo fece ripetere due volte. Mi abbassò di nuovo la testa sul cazzo e la stoccata mi arrivò in fondo alla gola in fretta, abbastanza da spaventarmi davvero. Gli piantai le unghie nel polso, il cuore che mi pompava nel petto, terrorizzato, forse temendo di dover far posto all'usurpatore che aveva fatto irruzione fin quasi all'esofago.

Ma nelle orecchie mi giunse il dolce suono del sospiro di Trevor, un folata d'aria divina che cullava un piacere profondo e dirompente. Ero io, ero io a farlo godere.

«Cazzo, bambina mia, fermami tu, fermami tu perché potrei andare avanti fino a farti male...»

Non era una supplica, non era una richiesta. Trevor me lo stava ordinando. Valutai la potenzialità del pericolo, sapendo che non era concreto, ma realizzando che si sarebbe incazzato a morte se gli avessi permesso di superare il limite che aveva stabilito lui, e non io. Perchè io limiti a lui non ne avrei dati mai. Trevor mi poteva fare tutto. Ma non gli avrei fatto rispettare il suo limite, non era nelle mie facoltà.

Lo sapeva anche lui.

Mi rialzò di nuovo la testa, troppo in fretta. Mi guardò con rimprovero, perché di me non si fidava, e faceva bene.

«Non ci siamo, Lea. Non ci siamo proprio.»

Avevo il fiatone, lo sguardo gli cadde sui miei seni che si alzavano e riabbassavano. Mi bruciava la gola, e tossii. Recuperai il fiato e la volontà d sfidarlo, ma soprattutto di amarlo come meritava.

«Ti amo così tanto, Trevor Baker, carogna di Wall Street. Ma tu... tu accorci le mie misure. Perché non lasci mai che ti dia tutto quello che ho? A me sembra così poco, e tu prendi ancora meno...»

Non ammorbidì la presa sui capelli, non ebbe pietà per la mia ammissione. Avvicinò il volto al mio, la sua vena sul collo che mi avvertiva del problema che stavamo affrontando.

«Perché sono un bastardo, Lea. Di quello che mi dai prendo solo quello di cui non posso fare a meno. Il resto te lo strappo via insieme al fiato. Mi abbuffo di tutto quello che hai dentro, io te lo tolgo, hai capito? Te lo porto via. Non mangio da una ciotola. Io vado a caccia. Sono un ladro.»

«Non è vero.»

«Sì. È così. Non ho bisogno che tu mi dia niente. Ti porto via la luce, i colori, i sorrisi. E me li tengo. Solo che tu ne generi ancora, e ancora, e ancora. Più me ne nutro, più ne partorisci. Io sono un cancro, assorbo la tua linfa, la uso per me. Non te ne accorgi solo perché sei una fonte inesauribile, amore mio. Io prendo, e prendo, e prendo. Secchiate di cose belle, la sorgente della mia felicità. Non mi fermo mai, mai. Non faccio che bere, aspirare, risucchiare, rubare, portare via qualcosa da te. In continuazione. Sempre. Assorbo tutto. E tu... tu crei cose nuove, cose migliori. E io prendo ancora. Non me ne frega un cazzo. Io prendo, Lea. Prendo.»

Sembrava così convinto, così certo di poter trovare tutte quelle cose dentro di me. Mi sarebbe piaciuto credergli.

«Non le so fare tutte quelle cose che dici tu, signor Baker.»

Mi strinse i capelli e mi fece male. Il modo in cui Trevor mi faceva male, mi faceva stare anche bene. «Non sai un cazzo. Sei giovane e corrotta.»

«Mi fai sentire al sicuro. Anche io voglio farti sentire al sicuro. Anche se sono giovane e corrotta e un po' mingherlina.»

La bocca gli si piegò un po', anche se il sorriso non ebbe la forza di venire alla luce. «Tu mi fai sentire onnipotente, Lea. È così che mi voglio sentire. Non voglio essere al sicuro. Io voglio tenere al sicuro te, che sei il mio forziere pieno di gioie rubate al resto del mondo. Ti voglio tutta per me, mentre generi mondi incantevoli quando mi guardi, quando mi tocchi, quando mi respiri addosso, quando ti addormenti prima di me e i tuoi capelli mi fanno il solletico sul collo e io li lascio lì, perché ho il terrore, un mare di terrore di spezzare qualcosa di tuo, toglierti troppo, fare un danno troppo grande.»

Non mi lasciava avvicinare al suo viso, ma io avrei voluto appoggiare un bacio su quella bocca che mi aveva descritta come se fossi davvero qualcosa per cui valesse la pena sopportare il supplizio della vita fino a lì. Allora mi limitai ad accarezzargliele con la punta delle dita, il suo anello che ancora mi stupivo di vedere addosso a me, una cosa unica e preziosa pensata per una catasta di difetti umani.

«Tieniti stretto quel terrore, signor Baker, continua a viverlo, perché l'unico modo che hai di togliermi troppo e fare un danno irreversibile è lasciarmi sola in un mondo che mi vuole solo quando apro le gambe. Sei l'unico, adesso, che mi vuole anche quando mi limito ad esistere.»

Fu lui, infine, ad avvicinarsi e a prendersi il bacio che avrei voluto dargli io. Forse era vero che mi portava via le cose senza che fossi io a dargliele. Adoravo il fatto di avere qualcosa che gli interessava, qualcosa che ritenesse opportuno portarmi via e tenere per sempre.

«È vero, passerotto, che ti voglio in ogni momento, ma sei pregata di continuare ad aprire le gambe. E sei tenuta a farlo solo con me. E anche i tuoi capricci mi appartengono, signorina. Sono miei, li voglio tutti. Voglio inseguirti per casa mentre scegli stanze a caso in cui chiuderti lontana da me, voglio urlarti di smetterla quando cerchi di chiudermi la porta in faccia e io te lo impedisco, e voglio tenerti costretta contro il muro mentre strilli che sono uno stronzo e io penso che lo sono davvero ma tu di più, e che la cosa mi arrapa da morire. Porca puttana Lea, voglio una vita fatta di scopate oscene, scenate memorabili, colazioni al pistacchio e pigiami buffi.»

La volevo anche io una vita così, perché era travolgente anche litigarci, con Trevor Baker. Ma farci pace era pure meglio. Era bello ascoltarlo, sentire di come era convinto di volermi sempre con lui, con il mio contorno di cose strane e sbagliate.

«E voglio il tuo culo, Lea, perché sono un bastardo e quel piccolo pertugio per niente ruffiano e incredibilmente ostinato che mi dice sempre no va domato e sarò io, dannazione, a domarlo da qui alla tomba. Lo voglio, lo voglio anche adesso. Me lo prenderò quando sarai stremata, cazzo. Sono sicuro che quello stronzetto mi farà dannare anche stavolta. Ma adesso... »

Mi ero bagnata anche solo ad ascoltarlo, ma non ebbi il tempo di vergognarmi. Mi fece sdraiare e vederlo sopra di me mi fece sentire minuscola. La vita mi aveva tolto tanto, e forse le ingenti dimensioni del corpo di Trevor erano quel contrappasso che a volte mi piaceva scorgere negli eventi della vita, quell'impreciso tentativo di dare equilibrio alle umane esistenze in modi approssimativi e discutibili.

Il suo monolite di carne non pareva molto d'accordo con le intenzioni del mio piccolo grande Baker: gli si ergeva minaccioso tra le gambe, ed era chiaro che si sarebbe vendicato. Mi parve impossibile considerare l'ipotesi di poterlo contenere nel posto in cui, tanto esplicitamente, Trevor aveva dichiarato di volerlo infilare. Forse il dubbio mi si lesse troppo bene in faccia, perché mi accarezzò il mento con un sorrisetto fetente sulle labbra.

«Tranquilla, bambolina, avevo i tuoi stessi dubbi la prima volta, ricordi? Ma abbiamo già constato che io ho i mezzi per convincerlo, e tu quelli per farmi perdere dentro di te senza farti del male, giusto?»

Giusto. Ma persi le facoltà cognitive quando mi allargò di più le cosce con le mani e ci si tuffò con il volto senza attendere nessuna risposta da parte mia.

Lì in mezzo, Trevor raramente era delicato. Riusciva a essere brusco anche con la sua lingua morbida, e la sua bocca sgarbata si faceva largo spostando ogni piccolo impedimento tra lui e il mio piacere. Sentivo anche i suoi denti strofinarsi contro la mia carne delicata e scoperta, sensibile contro la sua barba ruvida. Non volevo essere trattata bene, non ero una principessa, volevo qualcuno che bramasse il poco che avevo da dare e che fosse disposto a prenderselo con trasporto furioso. Godevo così, e a quella condizione mi ero arresa da un pezzo, sebbene avessi smesso di vergognarmene solo da quando a scoparmi era lui.

Trevor sembrava volersi scavare un rifugio dentro di me, mi succhiava con forza come dovesse strapparmi via qualche strato di guarnizione prima di arrivare al ripieno. La lingua spingeva e serpeggiava nel mio territorio, muovendosi come fosse la padrona, lasciandomi addosso la sua scia di languida arroganza. Persino il suo respiro che mi colpiva il clitoride spazientito era una frustata di piacere che mi faceva contorcere le viscere, mute testimoni di un trattamento che non poteva riguardarle più di tanto, ed era forse l'invidia a stritolare lo stomaco, a contorcere tutto ciò che era contenuto nella pancia e che pareva volesse uscire per partecipare in un qualche modo.

E leccare una donna è un gesto che può richiedere un po' di umiltà, quantomeno la volontà di piegarsi davanti alla sua vagina, un atto che può essere un dono spassionato, ma Trevor lo faceva come se non mi stesse regalando niente, come se fosse lì a farlo perché il piacere era tutto suo, e io il piatto su cui banchettava dopo una battaglia trionfale. Era tra le mie gambe con l'atteggiamento di un cazzo di dittatore che sputa ordini crudeli ai suoi sudditi, e il fatto che avesse tutto quel maledetto carisma anche mentre aveva la lingua infilata tra le mie piccole e grandi labbra mi atterriva e mi prostrava, eppure ne volevo ancora e ne volevo di più. Forse era la certezza che mi amasse davvero, anche se la sua natura era quella di prevaricare sempre, sottomettere, possedere e usare, a farmi sentire così bene anche quando il suo corpo sfruttava il mio.

E non m'importava di quanto lui stesse godendo nell'affondare dentro di me, non m'importava se gli piaceva farlo da conquistatore, senza la volontà di condividere, ma solo con quella di arricchirsi di qualcosa: perché io non godevo certo meno di lui, io precipitavo insieme a lui in qualche girone infernale dal quale mai sarei voluta uscire. Era l'ennesima baldoria dei sensi: i miei che inseguivano i suoi ovunque, i suoi che corrompevano i miei ben volentieri.

Una miscela di esultanza, immoralità, colpa e diletto. Non cercavamo nessuna assoluzione, perché eravamo uno la condanna dell'altra e l'avremmo subita in eterno, anche tra i rovi, rotolandoci su vetri rotti, strusciandoci su carboni ardenti o avvolti dalle fiamme.

Mi leccò con perfida convinzione, minacciando continuamente il clitoride con i denti, e quello svergognato si sarebbe fatto strappare via pur di non dover rinunciare a quel contatto morboso e pericoloso. Era una melodia sfrontata quella che proveniva dalla sua bocca che incontrava il rilascio dei miei fluidi abbondanti e supplichevoli, uno sciabordio delicato e allegro che si sposava bene con i sospiri profondi che gli uscivano dalla gola.

Sembrava disposto ad annegare dentro di me pur di sopraffarmi, e io mi accartocciavo su me stessa, scossa da un primo amplesso, poi un secondo... e poi non capii più niente.

Mi piaceva sentirmi così svuotata, solo dopo gli orgasmi che mi rifilava Trevor come fossero un castigo mi sentivo davvero leggera, libera dalle incudini che appesantivano la mia esistenza. Trevor non si fermava mai dopo che ero venuta, lui proseguiva sempre, e lo fece anche quella volta, profanando il mio corpo esausto e arrendevole che da lui si sarebbe fatto fare tutto, ringraziando pure per l'attenzione.

Ma sorrisi, oggettivamente felice, quando la sua lingua impudica si ritirò dentro la sua bocca dopo un tempo che parve infinito, sostituendo tutta quell'incontenibile voglia di conquista con piccoli e adorabili baci sulle cosce appiccicose di sudore e umori, poi sul monte di venere, che tremò un po' al contatto con la barba, e poi su, intorno all'ombelico, strappandomi una risata perché quel solletico era irresistibile. E Trevor si prese il tempo di occuparsi del mio seno poco vistoso che nelle sue mani grandi non sembrava nemmeno esistere.

Sulle mie labbra sentii poi il calore delle sue, e anche il mio sapore pungente, così diverso dal suo, anche nella consistenza.

Dopo mi guardò, ma non in modo rassicurante, né comprensivo. La natura della sua domanda successiva poteva essere allarmante, ma io ero abituata al suo appetito.

«Sei stanca?»

Persi troppo tempo a cercare una risposta che ben si sposasse con quelle che, presumibilmente, erano le sue intenzioni. Quindi si mise a sedere portandosi dietro il mio corpo collaborativo, anche senza una risposta. Ero in ginocchio tra le sue gambe. Mi mise una mano dietro la testa, ma non mi tirò più i capelli, ebbe quella pietà. Ma ben poca pazienza albergava nel suo sguardo. Ancora meno nel suo uccello.

«Non sei abbastanza esausta. Ti voglio distrutta, Lea. Adesso riprendi da dove hai interrotto.»

Dio, fu una minaccia che mi accarezzò tra le gambe con la stessa efficacia della sua lingua un minuto prima. Sentii un'altra vampata di calore nel basso ventre mentre mi chinavo, un po' indolenzita, a eseguire un compito che non vedevo l'ora di espletare.

La sua mano fu delicata, tra i capelli, forse perché nient'altro, di lui, lo era stato: nemmeno la voce.

E lo presi tutto, grata di poterlo fare, rannicchiata tra le sue ginocchia. Avrei voluto essere capace di scendere di più, ma non riuscivo. Mi incitò con un accarezza ad arrestarmi lì, a resistere di nuovo il più a lungo possibile, e mi concentrai per farlo. E poi, forse per vedere se poteva essere d'aiuto a me più che a lui, la mia mano sana abbandonò la base del suo uccello, andando in cerca dei testicoli. Non sapevo perché non lo avevo mai fatto prima, forse perché mi sembrava necessario aggrapparmi, a quell'asta, per poterla gestire nella bocca. Forse, semplicemente, non lo avevo fatto perché lui non me lo aveva chiesto, o perché avevo il cervello impegnato a gestire i muscoli della gola e non era capace di lanciare segnali anche alle mani. Fatto sta che glieli stuzzicai con la punta delle dita e il risultato fu un'imprecazione sputata fuori dallo stomaco, una presa incattivita tra i capelli che mi spinse con il naso contro il suo addome, il rischio concreto di farmi male pugnalandomi la gola con il cazzo. Ma gli piacque, gli piacque abbastanza da perdere il controllo per un paio di secondi, permettendosi di piegarsi al suo istinto e reagendo con il corpo allo stimolo che gli avevo procurato.

«Cazzo!»

Mi liberò subito la testa, ma ormai ero affondata fin dove non pensavo d'arrivare e lì rimasi, mentre il suo respiro si faceva affannoso, il suo corpo rigido. Solleticai ancora con le dita quel punto che si era rivelato così reattivo, avvertendo un tremolio attraversare la lunghezza dell'asta che mi trafiggeva la bocca e una certa tensione anche nella sua sacca scrotale. Imprecò ancora, inarcandosi sotto di me, cercando di domare l'istinto di prendermi la testa e spingermi dove oggettivamente non potevo arrivare, incapace di restare fermo e subire. Voleva scoparmi e voleva farlo molto, molto forte.

Quando mi prese di nuovo per i capelli e mi sfilò con foga dalla sua occupazione mi preparai a un sesso che non mi avrebbe concesso tenerezze, né dubbi.

Mi voltò, praticamente lanciandomi con la pancia sul materasso.

«Culo in su, ragazzina...»

Ma non mi diede davvero il tempo di sistemarmi come mi aveva chiesto. Mi afferrò, anzi mi artigliò, per i fianchi e me li alzò. Respiravo con un certo affanno contro le coperte, stringendole tra le mani. E io, che tenerezze non me n'ero aspettate e che, tutto sommato, non avevo nemmeno pensato di desiderarne, quasi mi commossi quando la sua mano scivolò sulla mia, quella bendata, invitandola ad aprirsi e a non stritolare la stoffa.

«Ti fai male, Lea.»

Fui felice fosse buio in casa, perché potei sperare che, chinandosi su di me per parlarmi nell'orecchio, non vedesse la lacrima che mi bagnava la guancia.

«Ti amo, bimba. Anche se quello che sto per farti è brutale, ok? Ma hai appena aperto la gabbia e la belva è uscita. Volevo venirti in bocca ma ti verrò in quel bel culetto, perché ho il cazzo gonfio di voglie torbide e il cervello annebbiato. Ma ho comunque riguardo per il tuo corpo, anche se non sembra. E adesso preparati perché la tenerezza è finita.»

Si allontanò in fretta, lasciando un freddo vuoto sulla mia schiena. Mi allargò le natiche all'inverosimile, sospirando piano nel godersi lo spettacolo.

«Cristo...»

Sentivo il cuore battere forte, bussando contro il torace con decisione, lo sentivo ingrossato, spaventato ed eccitato, proprio come il cazzo di Trevor, che mi accarezzava lo stretto sentiero tra i glutei con il glande umido.

E poi qualcosa di caldo e viscido mi colò lungo il varco. Mugolai, distrutta, ferita dal non aver visto la scena, la bocca di Trevor che liberava un po' di saliva su di me per agevolare un atto che di certo non avrebbe tratto abbastanza favori da un semplice sputo. Avrei voluto vederlo, cazzo, avrei voluto vedere quell'uomo mentre lo faceva, e invece mi dovevo accontentare di immaginarlo, mentre un'altra piccola quantità di saliva si depositava tra le mie natiche. Piagnucolai, avvilita, ma forse Trevor scambiò quel disappunto per trepidazione.

«Ci vuole tempo, Lea, perché a quanto pare questo appartamento è predisposto a tutto, ma non al sesso anale, cazzo. E non c'è niente che assomigli a un lubrificante decente qua dentro...»

Massaggiò con le dita e tornai a stritolare le coperte, gemendo come se stessi soffrendo anziché godendo.

«Non stringere la mano, Lea... ti fai male...»

Ma intanto lavorava su di me, le dita che mi coccolavano impastando la sua saliva e i miei umori, entrambi consci del fatto che era come cercare di salvare una balena con un secchiello.

Ma non importava, era solo un po' di dolore, e io ci andavo anche d'accordo.

Provocò un po' la mia fessura con i polpastrelli, incontrando resistenza.

«Rilassati, bambina, avanti...»

Ma era difficile, non perché avessi timore, ma l'aspettativa si confondeva con la tensione e non aiutava. Quando a sfidare il mio piccolo cunicolo fu il suo uccello inspirai rumorosamente. Mi accarezzò la schiena, forse per rassicurarmi, anche se non ne avevo bisogno.

«Sto facendo una cosa così stupida, Lea... dovresti proprio fermarmi... non stai bene, non abbiamo i mezzi... fermami, Lea. Fermami.»

Sì, contaci.

Sorrisi, perché era una richiesta davvero stupida.

«Sei la conseguenza di un errore da quindici dollari, Trevor. L'errore che rifarei. Le cose sbagliate fanno di noi quello che siamo. Adesso scopami nel modo sbagliato, nel momento sbagliato, nel posto sbagliato, perché è così che mi metti ordine dentro.»

Si abbassò di nuovo a riempire l'inutile spazio dietro la mia schiena. Chiusi gli occhi, felice del suo respiro tra i capelli.

«Ti lasci fare tutto, amore mio, e io non posso negare che la cosa mi faccia impazzire. Ma è pericoloso.»

«Sì, lo è. Sto spettando, signor Baker. Hai promesso di venirmi dentro e tu hai dichiarato di essere un uomo di parola.»

Si avvicinò ancora, le labbra accanto all'orecchio. «Prima o poi ti chiederò di fare qualcosa che ti farà incazzare come una iena.»

Mi abbandonò quella promessa accanto alle labbra, con un bacio intimidatorio. Poi si raddrizzò, e si spinse dentro, forte, stringendomi i fianchi fino a piantarci dentro le dita.

Gridai perché altra reazione, stretta tra le sue mani, non mi era consentita, mentre un bruciore acuto si spandeva nel punto in cui mi aveva lacerata. Mi sentii piena troppo all'improvviso, con eccessiva prepotenza, ero certa di essere pronta ma era stato esageratamente veloce e un'ondata di nausea mi stordì.

Implorai un pausa afferrandogli il polso che mi stringeva. Me la concesse, restandomi dentro ma senza scuotermi con le sue stoccate.

Non mi chiese scusa. Mi scusai io. «Adesso mi passa» lo rassicurai, perché sapevo che anche se non mi aveva chiesto niente, si aspettava che collaborassi.

Gestii la nausea con grossi respiri, la testa che girava un po' nonostante non fossi in piedi. Trevor liberò il polso e si piegò di nuovo su di me, portandomi la mano accanto al viso. Mi baciò sulla guancia, ma quello non fu un bacio intimidatorio, fu un bacio rassicurante.

«Prenditi il tuo tempo, bambina, prenditelo tutto e decidi cosa fare perché possiamo fermarci solo adesso.»

Mi baciò di nuovo, la nausea che si ritirava lentamente. Bruciava ancora, ma meno. La testa, quella stronza, girava ancora. Mi servirono ancora di versi secondi prima considerarmi in grado di sopportare altro.

«Sto bene.»

Mi appoggiò due dita sulla gola, stabilendo che non era vero, ma senza dirmelo. Con i suoi polpastrelli sulla vena, potevo sentire meglio anche io il mio stesso battito. Mi concentrai per rallentarlo, respirando piano, e la testa smise di girare.

Trevor attese ancora parecchio, anche dopo che il battito si fu calmato.

«Lea, devi dirmi se puoi continuare...»

«Sì.»

«Hai risposto troppo in fretta, bambolina. Ci devi pensare di più, perché se ricomincio a scoparti non lo so se riesco a fermarmi un'altra volta.»

Feci solo finta di pensarci, perché non c'era niente cui pensare. Mi limitai a contare fino a cinque, prima di ribadire quello che già aveva detto.

«Voglio continuare.»

Mi posò l'ennesimo bacio, ma sulla spalla.

Mi si mosse dentro, ma lo fece piano, evidentemente molto poco convinto delle mie reali possibilità. Lo immaginai attento alla mia reazione, concentrato a cogliere la condizione del mio corpo intorno al suo. Mi sarei potuta sollevare sui palmi per girare meglio il collo e vederlo, ma mi sentivo troppo stanca per reggermi sulle braccia.

Mi mandò in visibilio rilasciando altra saliva sull'incontro di perversione in cui ci stavamo incastrando. Lo spalmò un po' con le dita e io non sapevo perché quel gesto mi facesse perdere la testa così tanto, ma bastò a fornirgli altre sostanza vischiose fuoriuscite da me con cui mischiare quelle prodotte da lui. Soffiò tra i denti e parve che la cosa piacesse parecchio anche a lui.

Quando mi trascinò le ginocchia fino al bordo del materasso, seppi che lui era in piedi dietro di me, e che la sua presa sui fianchi avrebbe offerto una massiccia resistenza a colpi che avrebbero avuto l'impertinenza di distruggermi.

Sembrò pensarci su, forse esitando, forse aveva paura di farmi troppo male. E gli lanciai una sfida che sapevo di dover perdere. Che sapevo di voler perdere.

«Non sottovalutarmi troppo, signor NascondoUnArmaIllecitaNelleMutande...»

Mi rifilò una sculacciata sulla natica che mi tolse il fiato, e non mi lasciò il tempo di riprenderlo. Mi si mosse dentro con gesti violenti, sfruttando la sua presa sulle mie anche come mi aspettavo. Era uno scontro che mi ribaltava stomaco e intestino, mi spostava il cuore, spezzava il cervello. Il mio era un corpo nato per subire una penetrazione del genere, perché non avrei mai potuto resisterle, né accompagnarla. Trevor era la mia fine del mondo, come un'esondazione per un fiore di campo: era quello di cui avevo bisogno, ma era troppo e troppo forte. Mi piaceva così, volevo il troppo, ne accettavo le conseguenze.

Mi sbatteva contro, i testicoli che mi solleticavano la vulva a ogni colpo. Era terremoto e distruzione, ma era anche rinascita e speranza, novità e inizio. Il mio martirio del corpo, attraversato dal suo grande re che lacerava la carne al suo passaggio, una scia infuocata di dolore e piacere, mi consolava e non mi spaventava più. Mi scivolavano le ginocchia e se non crollavo sul materasso era perché le braccia di Trevor mi sostenevano, e anche la sua presa era diventata una penetrazione dolorosa, mi pareva di sentire le sue dita aggrapparsi direttamente alle ossa. Ero nelle sue mani, letteralmente, la nausea figlia del dolore che si faceva largo tra gli organi che si lasciavano rovesciare dal moto brusco del mio sovrano. Piangevo e venivo, tutto insieme, arresa ai conflitti che quell'atto di dominanza mi generavano nel corpo e nell'animo, lasciando che ogni parte di me se la cavasse da sola, chi soffriva e chi godeva, senza alcuna volontà da parte mia di tenere insieme i miei pezzi, perché erano troppi e troppo confusi. Mi ritrovai solo quando il respiro di Trevor divenne rumoroso e gutturale, i suoi affondi più lenti ma ancora più rabbiosi. Mi sintonizzai prontamente con il suo orgasmo in arrivo, perché quello non me lo volevo perdere, lo volevo sentire colarmi all'interno e sentirmene partecipe, responsabile. Volevo che il suo orgasmo fosse mio tanto quanto i miei erano stati suoi, volevo partecipare ma non come spettatrice, volevo essere la genitrice di quell'amplesso, la causa dell'esplosione.

Ancora spinte, prepotenti, dilaganti, lente, perché Trevor voleva che la sentissi tutta, la sua lunghezza, che entrava dentro di me. Ogni centimetro, fino in fondo, fino al suo inguine che accarezzava il mio culo. Tutto quanto, tutto dentro di me, anche se mi era sembrato strano potesse entrarci, ed era sembrato un po' strano anche a lui, la prima volta. Senza l'irruenza della furia, scomparve il dolore, offuscato dalla meraviglia di quella condivisione più lenta, più sentita, meno animale e più celebrale. Sentivo tutto, era bellissimo, lo era di più dopo quello che era stato prima, la dose della brutalità era stata perfetta, una misura ottimale per sprofondare in quel momento nell'eleganza dell'atto d'amore che diventava orgasmo.

Era bello fino alle lacrime ed erano lacrime di commozione. Non sapevo se volevo non finisse mai, o se volevo finisse per sentirlo riempirmi del suo calore liquido. Ma quello che volevo, in fondo, era di poca importanza, perché quell'accoppiamento poteva finire solo in un modo e l'ennesima imprecazione che uscì dalla bocca di Trevor sancì anche la sua deflagrazione, un rilascio impetuoso di sperma, fiotti caldi dentro un corpo bollente.

Mi accarezzò a lungo le natiche, mentre mi si svuotava all'interno, palpando e massaggiando quella parte di me che gli piaceva così tanto, forse anche ammirando soddisfatto l'effetto delle sue mani grandi sui miei muscoli tesi.

Ma le ginocchia non mi reggevano, le sentii scivolare sempre di più, e Trevor mi accompagnò distesa appoggiandomi una mano sulla pancia. Uscì fuori, mi parve quasi che i miei organi volessero seguirlo.

Mi abbandonai un secondo al nulla, i muscoli indolenziti, il culo in fiamme e la nausea che gorgogliava. Stetti meglio non appena mi ritrovai con la schiena contro il suo petto, stretta stretta tra le sue braccia, come se non volesse assolutamente nulla tra di noi, come se non volesse assolutamente lasciarmi andare, o lasciarmi sola, o lasciarmi e basta.

«Sei la cosa più bella del mondo, Lea.»

E siccome quella frase aveva il sapore di un addio, mi fece male. «Non andare via adesso, ti prego.»

Mi strinse di più anche se avevo pensato non fosse possibile. «Non lascerei adesso questo letto nemmeno se fosse infestato da serpenti velenosi.»

Attesi di addormentarmi, sperando lo facesse anche lui e a lungo, perché sapevo che al nostro risveglio ci saremmo preparati per la fine del mondo.

***

SPAZIO AUTRICE

Questa frase:

«Prima o poi ti chiederò di fare qualcosa che ti farà incazzare come una iena.»

Ma non aggiungo altro se non che...
Domani uscirà l'ultima parte.

Doveva uscire già stasera ma sono stata assalita da una cefalea terribile, una delle mie.
Speravo di riuscire a lavorarci in serata ma non ci riesco.
Abbiate pazienza ❤️

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