72 Non lasciarmi solo
Non aveva importanza quale fosse la taglia del letto in cui dormivamo io e Lea: io la volevo talmente addosso da sentirla dentro, e lei comunque cercava il conforto delle mie braccia non appena si infilava sotto le lenzuola. Quando la notte diventava più buia e silenziosa del nulla, riuscivo a sentire il cuoricino di Lea battere contro il mio petto: quelli erano i momenti in cui mi sembrava di avere tra le braccia una creaturina troppo sottile per poter sopravvivere anche solo a una folata di vento, quelli erano i momenti in cui emergeva la mia paura di vedermela togliere nel peggiore dei modi.
Allora la stringevo più forte, e sapevo che una morsa del genere doveva risultarle fastidiosa, e invece lei mi si sistemava meglio addosso, come se la mia oppressione le risultasse ancora più comoda. E quindi mi rassegnavo al fatto che Lea era molto più resistente di quanto chiunque potesse immaginare.
Gli incubi avevano abbandonato le notti della mia regina da quando avevamo affogato Danyl nel suo bagno, e a me piaceva vederla dormire perché aveva il volto rilassato, il respiro regolare e sembrava sentirsi al sicuro. Era stato lo stesso quando l'avevo portata a Milano: aveva scalpitato, aveva ringhiato, aveva tentato di mordere, ma il modo in cui dormiva in mia presenza era la prova assoluta di quanto abbassasse le difese con me.
L'avevo spiata a lungo in Italia, prima di perdere la testa per lei, e sapevo quanto poco dormisse prima della mia irruzione definitiva nella sua vita.
Io, invece, non avevo imparato ad abbassare le difese, la notte non era ancora mia amica e il mio sonno era rimasto breve, leggero e intermittente, come lo era sempre stato.
«Non piangevi mai» mi aveva raccontato mia madre. «Ma non dormivi neanche. Ti trovavo nel lettino tutto intento a guardarti intorno. Ti svegliava tutto, anche il rumore del silenzio.»
E fu proprio il rumore del silenzio, quella notte, a svegliarmi di nuovo.
Avevo sentito Lea alzarsi e mi aveva detto che andava in bagno e che sarebbe tornata subito.
Non so quanti minuti trascorsero prima di ritrovarmi con gli occhi sbarrati mentre annegavo nell'improvvisa consapevolezza che non avvertivo il peso leggero del suo corpo sul mio, che accanto a me il letto era vuoto e che la mia bambina non era tornata.
Mi misi a sedere di scatto, con addosso un terrore che non provavo da un paio di decenni, finché vidi un minuscolo bagliore al di là della vetrata.
Il sollievo fu così immediato che mi stordì. Mi alzai piano, non volevo spaventarla precipitandomi in veranda.
Quando feci scorrere la porta a vetri alzò lo sguardo e mi fece un sorriso stanco. Si era avvolta in una coperta perché a lei non fregava un cazzo delle stagioni, se voleva una coperta sulle spalle in piena estate se la procurava. Seduta per terra, con il bagliore dei una sigaretta tra le dita, mi parve afflitta come una stella che si era persa cadendo dal cielo.
Aprì un braccio per offrirmi un posto accanto a lei sotto la coperta, ma preferii sollevarla e mettermela in braccio. Il suo corpo abbandonato al mio mi restituì la vita.
Le presi la sigaretta dalla bocca e diedi una boccata anche io prima di spegnarla sul pavimento, in attesa che mi dicesse quello che le passava per la testa. Sapevo che forse avrebbe fatto male.
«Non ti avevo mai visto mentre dormivi, mister Nike.»
Aveva la voce un po' impastata, sembrava si trascinasse le parole con una lingua affaticata.
«E io non ti avevo mai vista mentre fumavi, miss.»
«Te l'ho rubata dalla tasca dei pantaloni.»
«Non è un problema, ma mi chiedo per quale motivo tu abbia deciso di iniziare a fumare proprio stasera.»
Sospirò, solleticandomi il collo. Appoggiò la testolina tra la spalla e la clavicola e mi maledii per non essermi sfilato la camicia, che mi impediva di sentire la sua pelle sulla mia.
«Non ho iniziato stasera. Sono stata adolescente anche io, sai?»
«Certo che lo so. È stato tipo la settimana scorsa...»
Fece tintinnare una risatina, un po' meno acuta del solito. «Non sono così giovane, signor Baker.»
Attesi un po', convinto che avrebbe trovato il modo di dirmi cosa la tormentava. Non accadde.
«C'è qualcosa che vorresti dirmi, amore mio?»
Si mise a giocherellare con i bottoni della camicia. «No.»
«Mm. Allora, forse, c'è qualcosa che non vorresti assolutamente dirmi?»
«Sì.» Alzò il mento per lasciarmi un bacio sulla mascella, le dita che ancora indispettivano i bottoni.
Da sotto la coperta tirò fuori un braccio e appoggiò la bottiglia di Martini a terra, accanto a noi. Non era quello, che doveva dirmi. Quella bottiglia serviva solo a prepararmi relativamente alla dimensione del problema. E la dimensione non era nemmeno finita lì.
«Ok, Lea. Ascolta, per me non è un problema se scegli di tenerti dentro alcune cose, hai diritto ai tuoi segreti, ai tuoi cassetti chiusi a chiave, ai tuoi ricordi privati. Ma se ce ne sono alcuni che ti spaventano, o che ti fanno star male, è meglio parlarne un po'. Non so se posso aiutarti a elaborarli, ma almeno possiamo sopportarli insieme.»
«Sì... ero venuta a cercare le parole, perché non riuscivo a dormire. Ma adesso, adesso mi sento un po' stanca.»
Le presi il volto tra le mani, piano, cercando di scorgere le condizioni delle sue pupille con la sola collaborazione della luce della luna.
«Lea, hai preso qualcosa per dormire?»
Fece una piccola smorfia, consapevole di non poter mentire. «Sì.»
Non vedevo granché, ma se avessi dovuto scommettere, avrei detto che quelle dannate pupille erano un po' troppo dilatate. «Xanax e Martini? Ma cazzo...»
«Non fare il bacchettone, non credere sia la prima volta.»
Non lo credevo, ma le sue parole mi sembravano sempre più trascinate, meno comprensibili. Una mano abbandonò il suo visino per prendere la bottiglia: non era vuota, ma ne aveva bevuto una quantità non propriamente innocua.
«Quanti Xanax hai preso, Lea?»
«Uno. Non sono deficiente, Trevor.»
«Sicura? Dimmi la verità.»
Si accucciò di nuovo contro di me, mi venne spontaneo circondarla con le braccia. Mi era sembrata sincera.
«Sicura. Sono solo stanca...starà funzionando...»
La testolina crollò contro il mio petto. Era decisamente troppo stanca. Le sollevai il mento, ormai convinto che ne avesse combinata un'altra delle sue.
«Lea, guardami, tieni gli occhi aperti...» si sforzava, faceva fatica. Uno Xanax, come no. «Lea, quanti ne hai presi? Non può essere uno solo.»
«Sono figlia di una tossica, ne ho preso uno.»
E la sua vocina affannata era convinta, sotto quel macigno di stanchezza indotta, ma quello non era l'effetto di un solo cazzo di Xanax.
Sospirai, già arreso all'inevitabile. A malincuore, mi liberai del corpo di Lea, appoggiandola contro la vetrata avvolta nella sua coperta. Afferrai la bottiglia di Martini ed entrai in casa. Appoggiai la bottiglia nella vetrina degli alcolici e aprii il cassetto in cui avevo messo, tra le altre cose, la confezione di Xanax. Guardai il blister. Presi atto della situazione. Tornai da Lea e la feci alzare. Senza la sua collaborazione, naturalmente.
«Andiamo a letto?» mi chiese.
Avrei potuto prenderla in braccio, ma era meglio se camminava da sola. Era instabile. Non risposi alla sua domanda, rimandando di qualche attimo la sua sfuriata. La ressi per i fianchi con un braccio e quando superammo il letto avvicinandoci al bagno, Lea capì.
«No! Era una solo! Ne ho preso uno solo!»
La sua convinzione era uno strazio che pensavo di non meritare, ma avremmo dovuto sopportarlo entrambi lo stesso. La spinsi verso l'entrata del bagno ma Lea piantò le mani contro lo stipite.
«Trevor, ti prego...»
Non volevo farle del male, non volevo spingerla dentro quella stanza come avevano fatto gli uomini di mio padre dopo averle ucciso la madre, ma sapevo che in un qualche modo saremmo dovuti entrare. Da dietro, le scostai i capelli dall'orecchio, cercai di essere rassicurante, di non impormi fin da subito. «Lea, dalla confezione ne mancano di più. Non sarebbe un grosso problema, sai? Ma ti sei scolata anche mezza bottiglia di Martini. E questo è un grosso problema, bambolina.»
«Hai contato male. Ne ho preso uno! Che ne sai di quanti ce n'erano prima?»
Portai le mie mani sopra le sue, senza stringere, senza esercitare alcuna forza, preparandomi solo all'eventualità più che concreta che le parole non l'avrebbero convinta a collaborare.
«Le ho contate prima di partire.»
«Sei un maniaco del controllo del cazzo. Io sono sicura, sono sicura!»
E lo era, lo era davvero. Ma sbagliava. Forse era confusa: alcol, qualche ricordo sgradevole, la paura di confessarmi chissà cosa, e magari si era alzata più volte tra un sorso e l'altro di Martini, ogni volta convinta fosse la prima e ultima, ma tra la prima e l'ultima ce n'erano state almeno cinque.
«Lea, ti prego, facciamo presto, ti aiuto io.»
Iniziò a scuotere la testa, ma il suo corpicino era lento quanto lo era la sua lingua a pronunciare ogni frase: lo Xanax la rallentava e la rendeva più debole. La sentivo perdere le sue battaglie contro il mio corpo e mi devastava dover abusare della mia condizione fisica, staccarle la mani dallo stipite e trascinarla dentro.
«Ti prego, no, faccio da sola...»
Guardai il suo volto rigato dalle lacrime, la preghiera nel suo sguardo vacuo e lucido. Le diedi quella possibilità, ma mi chinai con lei accanto al cesso.
Si annodò i capelli, ma le mancò il coraggio di proseguire.
«Era uno solo, sono sicura...» piagnucolò, e capii che era certa di subire un'ingiustizia, di essere nuovamente vittima di una cattiveria gratuita. Mi sanguinò il cuore, ma decisi di ignorarlo, di mettere da parte quel muscolo pericoloso che annebbiava le funzioni del cervello. Lea stava soffrendo ma non c'era alternativa, la cosa migliore da fare era accelerare quella disgustosa faccenda.
Fui rapido, le afferrai la testa e la feci chinare ficcandole due dita in gola. Le soffocai un grido tra le tonsille e la sua reazione istintiva fu quella di serrare i denti affondandoli nella mia carne. Ignorai il dolore e nella frazione di secondo successiva sentii la sua gola contrarsi e il suo conato costringerla ad aprire di nuovo la bocca. Sfilai le dita e il getto di vomito filò dritto in fondo al water.
Lea tossì un po', singhiozzando e piangendo, e io ebbi modo di sentirmi una merda nel vederla ridotta così. Le baciai la tempia, sentendola calda e sudata, mentre ancora tossiva con gli occhi arrossati. Era stata una cosa veloce: la prostrazione del suo corpo aveva reso il tutto affrontabile, sopprimendo anche la sua rabbia. Questo finché alcol e tranquillanti non ebbero abbandonato il suo corpo.
Allontanò la fronte dalle mie labbra, spingendomi via con le mani piantandomele nel petto.
«Esci» sibilò.
«Lea...»
«Vai fuori, cazzo!»
Lo sguardo arrossato pareva volermi spiaccicare per terra come avevo fatto io con la sigaretta qualche minuto prima. Con un immane sforzo di volontà, la lasciai lì, inginocchiata accanto al water, con addosso una t-shirt con la bandiera australiana e un paio di mutande ancora pregne della sua eiaculazione. Avrei voluto sostenerla, assicurarmi che non le tremassero troppo le gambe nel rialzarsi, tenerle i capelli mentre si sciacquava la bocca, ma compresi che quello che volevo io non corrispondeva a quello di cui aveva bisogno lei.
Mi rialzai e uscii dal bagno, chiudendomi la porta alle spalle e lasciandole una privacy che aveva preteso con fermezza.
Non mi allontanai troppo: volevo accertarmi che stesse bene, che non cadesse a terra, che non avesse bisogno di me. Ma Lea non ebbe bisogno di me: sentii il rumore dell'acqua che iniziò a scorrere dal rubinetto, mentre la mia bambina si rinfrescava, si lavava i denti, cercava di far scivolare via le tracce di quanto appena accaduto.
Aprì la porta del bagno e si fermò dritta, pallida e ancora arrabbiata di fronte a me.
«Mi dispiace, ma era necessario» sentenziai.
«Non sono d'accordo. Sei uno stronzo villano e non dovevi permetterti.»
Cercai di incassare quella risposta piccata senza cogliere la provocazione. «Ti ricordo che sono stato un efficiente spacciatore.»
«E io ti ricordo che non è sinonimo di medico.»
«Però è sinonimo di persona in grado di riconoscere una condizione pericolosa per la salute.»
«Ma se non sai neanche riconoscere un paio di scarpe decenti!» gridò, tutta fiera del suo velenoso rancore che esibiva come un abito nuovo.
«Lea, credimi se ti dico che preferisco ficcarti le dita in bocca in ben altre occasioni, porca puttana!»
Si chiuse a riccio, incrociando le braccia sotto il petto e mostrando un broncio strepitoso e nuovo di zecca. Cercò una risposta nei quattro angoli della stanza, finchè lo sguardo le cadde sulla mano dalla quale mi aveva quasi staccato due dita. Tutti i nodi che l'avevano ingarbugliata si sciolsero all'improvviso, fece qualche passo avanti e con le sue manine fredde prese la mia, grande, calda e... coperta di sangue.
«Tranquilla, sei velenosa solo per il resto del mondo, bambina mia. Non morirò.»
Quando alzò gli occhi per farli incontrare con i miei, ci vidi dentro il senso di colpa.
«Mi dispiace.»
«È stata una reazione meccanica della tua bocca, Lea. Una di quelle che il corpo non comanda, esattamente come il getto di vomito che volevo provocarti: il corpo reagisce a uno stimolo, e tu non ci puoi fare proprio niente.»
Il mio sangue colava dalle mie dita alle sue. Divenne una scena dannatamente erotica.
«Disinfettiamo, signor Baker.»
Mi venne spontaneo cercare di ribattere con una frase da maschio alfa, ma Lea me la fece inghiottire girandosi e portandomi con lei nuovamente dentro al bagno.
Lasciai che si prendesse cura di me, mentre tutta concentrata ripuliva la ferita e lavava via il sangue. Il segno dei suoi denti era un'impronta evidente nella mia carne. A dirla tutta, faceva un male cane, e un leggero gonfiore si stava spandendo intorno al suo morso feroce.
Quando ebbe finito usai quella mano martoriata per accarezzarla sulla guancia scavata ma bellissima.
«Lea, hai presente quella cosa che prima non volevi assolutamente dirmi?»
Inclinò la testa, come faceva sempre, per raccogliere meglio il mio tocco sul viso.
«Sì.»
«Adesso dovresti proprio dirmela.»
Abbassò lo sguardo, tutta intenta a scrutarsi i piedi nudi. «Non so come si può raccontare una cosa così.»
«Magari me la puoi raccontare davanti a una tazza di the? Lo preparo io.»
«Non voglio dirtelo davanti a una tazza di the.»
«Allora possiamo metterci comodi sul divano, ti appoggi addosso a me, così non sei costretta a guardarmi mentre me lo dici, ma io potrò stringerti forte mentre lo fai.»
Ci pensò un po' su, incerta. «Se non ti vedo in faccia mi chiederò per sempre come hai reagito mentre te lo dicevo.»
«Allora dimmelo qui e adesso, dentro un bagno in cui tu hai vomitato e io sanguinato, perché se è una cosa che ti fa star male, forse questo è il posto migliore per liberarsene.»
La vidi inghiottire senza riuscire a liberarsi del disagio. Iniziò ad arricciarsi una ciocca di capelli intorno al dito.
«Ne avevo già avuti altri» mi disse, sputando fuori quella frase come se fosse più amara del veleno. Ma io non capii. Avrei voluto cogliere al volo quello che mi stava comunicando, evitarle il supplizio di approfondire, di argomentare un concetto che la tormantava come un'emicrania furiosa, ma ero troppo coglione per arrivarci da solo.
«Bimba, mi dispiace, io...»
«Di orgasmi così. Di quelli che divampano fuori e sembrano farti uscire dalla vagina anche le budella. Ne ho avuto altri. In passato.»
E a quel punto, se avessi avuto più cervello che cazzo, o più cervello che ego, o almeno più cervello e basta, avrei dovuto capire. Invece no.
«Beh, Lea... non pretendo di essere l'unico, anche se...»
«Con Matteo Gessi. Li ho avuti tutti con... mio padre.»
E quello, cristo, fu un duro colpo persino per me. Quello fu un concetto che in prima istanza non seppi digerire, che mi ribaltò lo stomaco, mi infettò l'anima, mi avvelenò il cuore. Non seppi elaborare immediatamente quella rivelazione, non seppi gestire il mio stupore, la mia costernazione, non seppi governare il fastidio e probabilmente Lea mi lesse tutto sulla faccia.
Mi sgusciò via di lato in cerca di una fuga dalla propria vergogna, non seppi nemmeno essere abbastanza reattivo da afferrarla per un braccio e calmarla, rassicurarla.
Mi ritrovai a inseguirla e quasi mi tranciò una mano nel tentativo di chiudermi in camera mentre lei cercava rifugio in veranda. Ma il mio attimo di smarrimento era sfumato, le mie percezioni erano tutte rivolte a quella cosina piena di guai che si lasciava confondere così facilmente da una condizione che non poteva governare.
Feci scorrere la porta con tanta forza che temetti andasse in frantumi nello sbattere contro lo stipite. La mia dea dai piedi scalzi non ebbe scampo, la agguantai subito, perché a me non poteva sfuggire.
La racchiusi tutta con la schiena contro il mio petto, i polsi raccolti al seno e stretti nella mano che ancora pulsava dopo il suo morso, contenuta dal mio corpo, dove avrei voluto nasconderla dal mondo e difenderla dall'umanità.
«Lea, è tutto a posto, stai tranquilla.»
La sua vocina pregna di un pianto che ancora non aveva trovato la via di fuga dagli occhi mi raggiunse le orecchie come un cinguettio primaverile. «Io te l'avevo detto, te l'avevo detto che sono tutta sbagliata...»
«Non sei sbagliata, non sei guasta, non sei difettosa...»
«Era mio padre!»
«No che non lo era, cazzo! E anche se lo fosse stato, Lea, quello deprecabile sarebbe sempre e comunque stato lui!»
«Ma gli orgasmi erano miei...» sussurrò, con la voce della disperazione.
«Cosa ti ho detto prima, sulle reazioni meccaniche del corpo?»
«Non è la stessa cosa...»
«Sì invece.»
«Stai paragonando un getto di vomito indotto a un orgasmo procurato da un genitore?»
«Non era un tuo genitore Cristo di Dio! Ti ha solo cresciuta e sì, francamente il paragone tra quello che ti ha fatto e un getto di vomito mi sembra abbastanza calzante, porca puttana.»
Appoggiò la testolina al mio petto, ma non liberai i polsi e nemmeno il resto del suo corpo, perché di lei non mi fidavo ma soprattutto perché avevo bisogno di sentire la concretezza del suo corpo contro il mio. «Lea, ascolta, è fuori discussione che questa meraviglia di corpo che hai risponda in modo sorprendente a certi stimoli...»
«Sono un fenomeno da baraccone, Trevor.»
«A me fa impazzire, bambina, la scioltezza con cui accogli il piacere. Non ti nascondo che la tua è una predisposizione pericolosa, perché qualche pezzo di merda ne può abusare. Ed è quello che ha fatto Matteo Gessi, Lea. Sono abusi, capito? Ha preso il corpo di una bambina e l'ha piegato e modellato a suo piacimento. Avrebbe dovuto renderti consapevole, darti degli strumenti, cercare di difenderti e...»
«L'ha fatto.»
Fu un'altra doccia fredda. La sua risposta inaspettata mi fece perdere la concentrazione e Lea si liberò. Si allontanò solo di due passi, per voltarsi e guardarmi. A quel punto le lacrime vinsero la loro battaglia.
«Lui non ti ha difesa, Lea.»
«Lo ha fatto. E tu devi avere la correttezza di ammetterlo.»
Feci un passo verso di lei, con l'intenzione di annientare le distanze e riacciuffarla di nuovo, ma Lea non si fece cogliere di sorpresa. Non volevo innescare una fuga, volevo solo abbracciarla e cercare di darle un po' di sollievo.
«Ma che cazzo dici? Tutti i tuoi guai sono frutto delle sue stronzate egoiste!»
«Le regole, Trevor. Lui mi faceva rispettare le regole.»
«Non puoi dire sul serio, Lea!»
«Certo che dico sul serio! Come credi che sarebbe cresciuta una come me, eh? Quante volte avrei aperto le gambe prima di cadere nelle mani sbagliate, prima di lasciarmi dominare dallo stronzo sbagliato, prima di lasciarmi fare qualunque cosa da un cazzo di mostro o assassino o malato di mente, eh?»
«Stai delirando...»
«No, cazzo! Le regole un senso ce l'avevano! Ero io a dominare gli altri, io a stare sopra, sempre! Tranne che con lui. E così quasi nessuno intuiva tutta la melma nera che mi ribolliva sotto la pelle...»
«Non lo faceva per te, Lea. Lo faceva perché non sopportava di condividere la tua devozione con nessuno.»
«Non me ne frega un cazzo del perché lo faceva, Trevor. La verità è questa: lui mi scopava come piaceva a lui ma il modo in cui piaceva a lui piaceva anche a me, e il modo in cui mi costringeva a non scopare con gli altri probabilmente mi ha salvata da aggressioni, o sequestri, o violenze o...che ne so, magari da torture o dalla morte. Matteo Gessi mi ha tenuta al sicuro da tutti...»
«Non ti ha tenuta al sicuro da lui.»
«Ok ma...»
«Ma un cazzo! » gridai, facendola sussultare. Mi dilaniava la sua incapacità di guardare le cose nella giusta prospettiva. «Non era quello il suo compito, Lea! Non era così che doveva difenderti, porca puttana!»
«E cosa doveva fare, eh? Lasciare che il mio modo di... godere mi esponesse a tutti rischi del caso?»
«No. Doveva solo accompagnarti all'accettazione di te, piccoletta. Doveva insegnarti che non c'è niente di male ad avere un corpo che brama il piacere, ma che quella brama va gestita in sicurezza. Tu avevi solo bisogno di consapevolezza: avrebbe dovuto tradurre le sue regole del cazzo in consigli, spiegazioni, raccomandazioni. Avrebbe dovuto farti parlare con qualcuno, magari del tuo stesso sesso, che ti avrebbe spiegato cosa fare, come farlo e quando, che ti avrebbe fornito tutti gli strumenti che una bambina non può avere, ma che una ragazza può procurarsi e una donna può usare e condividere. Avrebbe potuto e dovuto fare molte cose, Lea. Ma ha scelto di sfruttare la tua inclinazione per i suoi porci comodi, di farti sentire materiale di scarto difettato, di abbandonarti al tuo disagio e di approfittare di te in così tanti modi che non bastano tutti i gironi dell'inferno per condannarlo a una giusta pena. Non ti ha salvata, Lea. Non ti ha difesa. Sei stata il suo giocattolo, e spero che la corda a cui si è appeso lo abbia ucciso molto lentamente.»
Mi guardò senza vedermi per un po', come se stesse cercando di figurarsi la prospettiva di crescere con un essere umano che si prendeva cura della bambina anziché sfruttarla. Poi tornò a vedermi.
«Saresti un ottimo papà, signor Baker.»
Mi parve una cosa strana da dire a uno che aveva appena augurato una morte orribile a un altro essere umano, ma poi vinse la tenerezza per il significato di quella frase. Si lasciò avvicinare e abbracciare, perché avevo già usato tante parole con lei, e mi sembrava di non averne più di adatte alla situazione. Fu di nuovo lei, a dire qualcosa. Un altro tormento, molto meno radicato, di cui non si vergognava, che sceglieva di condividere pur sapendo che quello non avrei potuto renderlo più sopportabile. Capii che avrebbe causato un altro capriccio nel momento stesso in cui terminò la frase, ma era vero, era vero che ogni volta che faceva un capriccio non vedevo l'ora di affrontare quello successivo: perché finché ero io a raccoglierli, eravamo vivi ed eravamo insieme.
«Dovresti sparire con me, mio re. Dovresti sfanculare tutta la Russia e tutto il Canada e tutta la Gran Bretagna e sparire con me non appena avrò ceduto la proprietà del Sweety ad Alice. Ecco, cosa dovresti fare.»
Sospirai, accarezzandole i capelli e tenendola tra le mie braccia. Avrei voluto anche io sparire insieme a lei, ma non era la cosa migliore e lei lo sapeva. Come al solito, prediligeva il piacere ai bisogni, ma da Lea mi sarei fatto trascinare in qualunque stramberia inefficace, tranne quella. Quella no.
«Ci cercherebbero. Prima o poi ci troverebbero.»
«No, se gli diamo tutto. Il BlueDomino. El Diablo. Tutto.»
Sentii il cuore sprofondare sotto le scarpe.
«Anche tua madre gli avrebbe dato tutto, Lea. E l'hanno uccisa lo stesso.»
«Ci nascondiamo bene.»
«Ci troverebbero. Viktor ci troverebbe. Lui mi trova sempre. Anche io lo trovo sempre. Prima o poi entreremo in collisione, Lea. E non può accadere mentre mi nascondo con te. Deve accadere quando sia io che lui ci cerchiamo senza evitarci.»
«Allora cerca solo lui, fallo fuori, e sparisci con me. Se non faccio partire la mia apocalisse Sebastian e i Volkov, privi di Viktor, ci lasciano in pace.»
Piccola cocciuta bambolina, sempre frettolosa.
«Non ci lasceranno in pace. Morto un Viktor ne cercheranno un altro. Sappiamo troppo Lea. Anche senza El Diablo a congelargli ogni ricchezza, abbiamo materiale a sufficienza per rovinarli.»
Si liberò furiosa dal mio abbraccio. Lo avevo previsto e mi sentivo pronto ad affrontare anche quello. Sapevo che sarebbe stata una lunga notte. Sapevo che l'avremmo risolta rotolandoci tra le lenzuola e scopando come ricci. Dovevo solo tenerle testa ancora per un po'. Aveva solo bisogno di quello: sapere che la mia pazienza, con lei, non si sarebbe esaurita mai, che avrei sopportato in eterno i suoi conflitti, che avrei elaborato ogni sua ribellione senza toglierle le libertà che iniziava ad acquisire. Ero stanco, esaurito, prosciugato da tutto come non lo ero mai stato, ma davanti a Lea non mi sarei mai mostrato meno che inamovibile e convincente. E lei mi avrebbe creduto. Per forza.
«La tua vendetta è più importante di me, Trevor.»
«No, niente è più importante di te. E quando tornerò dalla mia regina, sarà per sempre. Un regno inespugnabile, amore mio. Ma non passerò la vita a nascondere me e te con la consapevolezza che prima o poi ci troveranno. E se a trovarci sarà Viktor, so bene cosa ti farà, Lea. Non esiste al mondo che io non faccia qualunque cosa in mio potere per evitare che accada. Qualunque cosa, Lea. E se dovrò perderti per salvarti, se dovrò vederti sparire con Denis o con qualunque altro stronzo dotato di un uccello tra le gambe anziché con me, lo farò. Hai capito? Se non sei in grado di accettare che io predisponga questo cazzo di mondo di merda alla possibilità che tu viva a lungo e al sicuro e felice, mi sta bene che tu sparisca facendoti scopare da qualcun altro. Io mi occuperò dei Volkov, di Viktor e di mio padre lo stesso. E quando avrò finito verrò a verificare che lo stronzo che ti scopa lo faccia per bene, che ti renda felice, e se supererà il mio esame, me ne andrò a fanculo da solo per sempre.»
E se una donna ordinaria magari si sarebbe commossa davanti a quella che era una via di mezzo tra una dichiarazione d'amore e una dichiarazione di guerra, ecco che Lea, tutt'altro che ordinaria, s'imbizzarrì. Sbatté il suo piedino nudo per terra e incrociò le braccia, stropicciando il faccino in un'espressione più dorabile che furiosa, sebbene lei desiderasse il contrario.
«Ah è così, signor FateLargoPassaQuelloCheDecideTutto?»
«Sì. È così.»
«Sai cosa ti dico allora?»
«Preferirei non saperlo ma scommetto che dirai qualcosa che mi farà saltare i nervi e le coronarie insieme.»
«Sappi che se non sopravvivi o non torni in tempi decorosi dopo i tuoi piani del cazzo io spedisco il mio indirizzo a Viktor...»
«Non sopporto quando dici queste stronzate...»
«Ci metto anche la mia foto, vestita a lutto da brava vedova di un criminale che si è fatto uccidere pur di non nascondersi...»
«Lea, finiscila.»
«...gli dico proprio dove trovarmi, hai capito? Mi faccio trovare bella lucida, sai? Mica mi stordisco con i Martini e gli Xanax per provare meno paura e meno dolore...»
Mi avvicinai di due passi e lei si allontanò di cinque, mentre gridava le sue minacce che mi ustionavano l'anima. «Stai zitta, cazzo...»
«E se Viktor è morto insieme a te, cambio i piani. Faccio quello che Matteo Gessi mi ha impedito di fare quando ero una ragazzina...»
Atri due passi miei. Cinque suoi. «Guarda che è meglio se la smetti, credimi.»
«...mi faccio prendere da chiunque, in tutti i modi peggiori, finché trovo quello che mi stringe le mani intorno al collo troppo a lungo...»
«Basta.»
«...o quello che si fa prendere la mano mentre usa la cinghia sulla mia schiena...»
«Ho detto basta.»
«... o quello che si eccita a prendermi a pugni finché mi ha ridotto la faccia come hai fatto tu con Danyl...»
E scattai come un dannato ghepardo affamato, talmente veloce che lei nemmeno se ne accorse, l'agguantai per un gomito e la strattonai verso di me. La sua espressione non cambiò, né si sopì la sua volontà di farmi girare i coglioni.
«...e se un dannato stronzo che mi uccide mentre mi scopa non riesco proprio a trovarlo, allora magari ne trovo tre o quattro insieme di merde psicopatiche che vogliono passarsi un corpo come il mio tra sesso e torture...»
Con la mano libera le afferrai i capelli, senza tirare. «In che condizioni è la mia vena, bambina? Quella sul collo.»
Il suo sguardo furioso non seppe resistere alla tentazione di scoprirlo. Un sorriso perfido e compiaciuto si allargò sulla sua faccia. «Pulsa come uno stagno pieno di piragna incazzati, signor Baker.»
«Hai impilato troppi capricci, ragazzina. Io non ti faccio mancare niente, Lea. Niente. E non ti basta mai, perché più ti ricopro di devozione, più tu hai paura di perdere tutto, in un modo o nell'altro. Mi sono innamorato anche dei tuoi meccanismi contorti, quelli che ti spingono a mettermi alla prova continuamente, quelli che ti costringono a cercare con tenacia il confine del mio amore per te, ma non lo troverai mai, Lea: niente confini, niente limiti. Non ci sono prove che io non possa superare, capricci che io non possa sopportare, accuse che io non possa incassare. Non c'è niente che possa gonfiare il mio ego quanto una sequenza infinita di successi nei confronti delle tue sfide. E dopo ogni tua sconfitta, piccolo passerotto che non sei altro, io esigerò il mio trofeo.»
La vidi inghiottire un bolo di rabbia per accogliere l'ennesima conferma che ero pronto ad amarla con tutte le sue stranezze, tutti i suoi disordini.
«Non lo so se te lo do il tuo trofeo.»
Figuriamoci. Proprio lei. Ma mi stava pur bene lasciarle il suo pezzettino di supponenza. Le liberai le ciocche di capelli per accarezzarla come si deve.
«E pensi che io non me lo prenderò lo stesso?»
Non le lasciai nemmeno al facoltà di rispondere. «Avanti, passerotto» mi allontanai di un solo passo, lasciandola libera. «Vai dentro.»
Obbedì, più che altro perché l'alternativa era passare la notte in veranda ed evidentemente non era poi così allettante.
La seguii dentro chiudendo la porta scorrevole a vetri dietro di noi.
Si girò per guardarmi. Mi slacciai la cintura. Lo facevo sempre con attenzione, da quando Lea mi aveva raccontato di Matteo Gessi, e mi guardavo bene dall'arrotolarla come una liquerizia. Ma quella sera la mia cosina non riuscì a nascondere per bene un piccolo brivido. Lasciai cadere per terra la cintura.
«Sfila la maglietta. Sei bellissima con addosso qualunque cosa, davvero. Ma ti preferisco quando non hai addosso proprio niente.»
Parve appena un po' titubante, ma lo fece lo stesso. Lea meritava di essere esposta in un museo tutto suo, in una sala tutta sua. In quella stanza, proprio come era accaduto nello scantinato in cui ci aveva rinchiusi Viktor, gli unici colori che vedevo in un mondo in bianco e nero erano i suoi: rosso, verde. Su quel corpicino impreziosito dalle carezze dei raggi di un luna bianca e accomodante, non serviva altro per dare un senso alla mia capacità di vedere.
E quegli slip senza pretese continuavano a essere un erotico tormento, sopra di lei.
Si lasciò guardare, si lasciò consumare dai miei occhi adoranti.
Aspettò, la testolina inclinata. Silenziosa. Obbediente. Remissiva. Aveva deposto le armi, come sempre, quando io sentenziavo che era ora di farlo per scannarci entrando l'uno dentro l'altra.
«Girati.»
Me la divorai con lo sguardo ancora un po', anche da quella prospettiva. Il mio smartwatch non vibrava, il suo battito era sotto controllo. Se quello di Lea fosse stato collegato al mio, di battito, avrebbe vibrato fino a staccarle il braccio.
Mi avvicinai e le accarezzai la schiena, le comparve la pelle d'oca sugli avambracci. Le spostai i capelli di lato, le presi i polsi e glieli strinsi con una sola mano poco sopra i piccoli e invitanti glutei.
«Devo ribadirti qualche concetto che davo per scontato, miss.»
La spinsi prona sul letto, le manine incastonate nella mia, il mio corpo che dominava il suo.
Di norma il contatto tra la nostra pelle m'incendiava ma quella sera mi sentivo un po' bastardo e traevo una giusta dose di compiacimento nel restare ben più vestito di lei.
«Hai paura di me, bambina mia?» le sussurrai piano all'orecchio.
«No.»
«Ho visto il tuo corpo lasciarsi attraversare da un brivido solo un attimo fa, Lea. Quando mi sono sfilato la cintura.»
Mezzo sorriso si fece largo sul suo visino sommerso dalle lenzuola. «Com'è che la chiami, tu? Ah sì, una reazione meccanica del corpo, signor Baker.»
Inspirai a fondo, godendo nel profondo della sua insolenza.
«Di solito la gente che mi risponde con questo tono non sopravvive, passerotto.»
Le infilai la mano libera tra le gambe, scostando appena il cotone della biancheria. Mi trovai a chiedermi se l'avrei mai trovata asciutta lì in mezzo, prima o poi. «Ma tu sei sempre la mia eccezione, vero? Sei sempre lo strappo alla regola, mmh? Sei sempre quel vizio che andrebbe evitato, l'errore che se ripetuto diventa rovina. Sembri tentazione, ma in realtà sei peccato e causi condanna. Adesso ascoltami bene, mia queen...» le lasciai un bacio sullo zigomo « ...ascoltami molto bene...» un altro bacio sulla tempia «... non me ne frega un cazzo di quelli che ti hanno scopata prima di me...» premetti la mia erezione vincolata dagli abiti tra le sue natiche «... so che sono tanti, vero? Ti sono entrati dentro senza lasciarti niente, e quando sono usciti ti sei sentita come se ti avessero portato via qualcosa, mmh?»
Le liberai le mani, ma lei non si mosse. Armeggiai con la mano che non mi sosteneva per liberare il mio povero uccello esausto tirandolo fuori dalla patta dei pantaloni e dai boxer. Eseguito quel semplice compito, fui io a portare le manine di Lea sopra la sua testa, affinché non le facessi male appoggiandomi con il busto su di lei. Si sarebbe fatta fare qualunque cosa, porco cazzo, qualunque cosa. «Anche io ti scopo Lea, e mi piace. Da questo punto di vista, sono solo uno dei tanti, mmh? Ma io faccio anche l'amore con te, vero? E a fare questo, beh, a fare questo siamo stati in pochi. Non voglio sapere se quel ragazzino che ti hanno ammazzato ha almeno avuto l'onore di fare l'amore con te, non dirmelo, è una cosa tua e sua. Ma diciamo di sì, perché almeno col pensiero sono sicuro che lo ha fatto. E anche se mi fa diventare matto saperlo, so che anche quello stronzo di Denis ha fatto l'amore con te, bambina. Lui non ti scoperebbe mai, figurati. Lui ha fatto l'amore con te, ed è stato per quello, cazzo, che hai allargato le gambe. Odio che sia successo, ma è successo. E allora diciamo che a fare l'amore con te siamo stati in due, massimo tre...»
Le allargai le gambe con le ginocchia, la vidi stringere le lenzuola tra le dita e spostai il più possibile gli slip, inserendo il cazzo tra le sue carni calde e viscide. Forse l'avrei graffiata con la zip dei pantaloni, o con il bottone. Non riuscii a preoccuparmene. Il glande arrivò al suo piccolo varco anteriore, pulsante e voglioso. Lo appoggiai con una leggera pressione. Le sentii mugugnare appena, la bocca che affondava tra le lenzuola del Four Seasons. «Ma io faccio una cosa che nessun altro ha mai fatto, Lea...»
Entrai, con decisione ma senza prepotenza, dentro di lei. Mi si sciolsero le budella: ne avevo così tanta voglia che se avessi atteso oltre mi sarebbe esploso il cervello. Mi zittii un attimo per concentrarmi, o le sarei venuto dentro nel giro di una manciata di secondi. Ritrovai un doloroso controllo del cazzo. Mi mossi dentro di lei senza fretta, perché mi doveva anche ascoltare.
«Io sono l'unico, Lea, sono l'unico che mentre ti scopa come una bestia senza cuore fa anche l'amore con te, e sono l'unico che mentre fa l'amore con te ti scopa come un animale senza cuore...»
Le sfuggì dalla bocca un gemito che aveva la stessa voce del pianto. Corsi a stringerle le mani con le mie, sperando di non distruggerla col mio peso. «...ti fotto e ti amo e ti amo e ti fotto ed è per questo, passerotto, che sei libera di avere...come l'hai chiamato? Un orgasmo di quelli che divampano fuori e sembrano farti uscire dalla vagina anche le budella, e lo puoi avere senza sentirti in colpa, senza sentirti sporca. Libera, Lea, ok? Con me sei libera.»
Nella sua fronte corrucciata, nella smorfia che emergeva dal materasso su cui la stavo montando, decisi che stavo leggendo la piena comprensione del concetto. Di conseguenza, decisi anche che potevo anche muovermi con più prepotenza, permettere a entrambi di abbandonarci per un po' al nostro incastro.
Sentivo la morbidezza del suo culetto adattarsi alle mie spinte regolari, e io non riuscivo a rinunciare alla delizia che Lea mi concedeva adattandosi a ogni esigenza, ogni perversione, ogni preferenza. Le piaceva, tanto, quando il solo guardarla mi faceva balenare per la testa immagini oscene e idee perverse. La cucitura dei suoi slip mi sfregava contro l'asta nel suo andirivieni, quell'ostinazione dell'indumento mi causava ulteriore determinazione nel prendermi tutto lo spazio disponibile dentro Lea. Presi a scoparla con piccoli schianti: la sinfonia della mia carne contro la sua, i miei testicoli che schiaffeggiavano la sua intimità vergognosamente aperta.
Finché ebbi bisogno di averla con me in modo diverso.
Uscii e la feci voltare: i segni delle pieghe delle lenzuola sulla guancia, i capelli appiccicati alla fronte, gli occhioni lucidi, e quel corpo nudo alla mia mercè. Mi sfilai finalmente i pantaloni e i boxer ma non persi tempo a fare lo stesso anche con la camicia. Tornai a coprirla con il mio corpo, ancora una volta senza liberarla delle mutandine fradice.
Mi piaceva prenderla così, quella sera, svestito ma non nudo, come se quella di scopare fosse stata una scelta inaspettata, come se fosse capitato all'improvviso, come se fosse stato il frutto di una serie di fortunati eventi incredibili.
La verità era che entrarle dentro era diventato urgente, e quando una cosa è urgente la fai in modo approssimativo, con una furia che brucia il cervello e l'adrenalina che spegne le percezioni.
Eravamo così inesatti, da soli, il frutto di una mano imprecisa che aveva cercato di sistemare un pasticcio e aveva solo peggiorato un danno. Ma insieme, insieme eravamo la matrice di riferimento per tutto, il seme originale dell'amore, anche carnale, ma non solo. Insieme i nostri difetti si elevavano fino a diventare unicità di pregio.
Lea tendeva a perdersi un po' quando arrivava l'amplesso, e a me stava bene, poteva volteggiare nel nulla oppure in qualche orbita sconosciuta, poteva lasciarsi disintegrare e smettere di sopportare di esistere per qualche attimo. Ma quella sera avevo bisogno di lei, forse perché lei aveva avuto talmente tanto bisogno di me per lasciarsi dietro il disagio del ricordo di Matteo Gessi, che alla fine mi ero ritrovato un po' troppo usurato io. Avevo bisogno di Lea perché iniziavo a sentire che quel sesso bellissimo mi stava facendo l'effetto di una sbronza malinconica, mi stavo facendo sopraffare dal buio che avevo voluto toglierle. Le chiesi aiuto, a modo mio, sapendo che lei mi avrebbe aiutato, a modo suo.
«Lea resta con me, stasera resta con me...»
I suoi occhioni da cerbiatta cercarono i miei ma mentre la penetravo con la solita prepotenza la vedevo arrancare per restarmi agganciata. E se arrancava lei, arrancavo anche io, stanco e prosciugato da tutto il turbine di sinistre rivelazioni che la mia regina non era più capace di tenere sepolte lontano da noi. E allora cambiai linguaggio, adattandomi a quello di una creaturina ferita, sfruttata, molestata e usurata come lei. Per una cosina in quelle condizioni, c'era un abisso di differenza tra la frase "resta con me" e la frase...
«Non lasciarmi solo. Stasera non lasciarmi solo, per favore.»
Spalancò gli occhietti e mi portò le mani al viso, sollevandosi col busto fino a far sfiorare i nostri nasi. «Sono qui, puoi prenderti tutto.»
E lo sapevo, lo sapevo che lei mi dava tutto e che io mi potevo prendere tutto ma quella sera avevo bisogno di farlo con lei proprio lì, lei che non staccava la spina per paura di pensare o ricordare, lei che era ben presente a me e a se stessa e che non si faceva nemmeno sfiorare da quello che non eravamo semplicemente noi.
E mi fece questo dono: non ebbe paura, rimase agganciata a me con il suo cuoricino spezzato e la sua testolina scombinata e non andò in qualche angolo remoto e inaccessibile del suo oblio a godersi l'orgasmo: se lo consumò lì, con me, mentre io ancora mi stavo aggiustando e curando infilandole dentro l'uccello, e poi fuori e poi dentro e avanti così, ogni spinta un cerotto, ogni scontro del mio inguine contro il suo pube un velo di pomata, ogni affondo del mio glande nel suo canale una dose di antibiotico.
Lea venne stringendo forte le sue gambine intorno ai miei fianchi, aggrappandosi con le mani alle mie spalle, lasciando che i suoi occhi limonassero con i miei mentre mi spingevo al suo interno in cerca del mio posto perfetto, trovandolo.
Il mio fu un amplesso quasi disperato, estorto da una prestazione che ben poco aveva a che fare con il sesso, e molto aveva a che fare con un amore destinato a patire ancora molto. Mi accasciai su di lei, cercando un rifugio tra le sue braccia accoglienti e il suo collo caldo.
Mi strinse e seppi di averla preoccupata: Lea sapeva interpretare l'atto fisico con troppa lucidità.
«Trevor...»
«Vorrrei sparire con te, Lea, come hai detto tu...»
«Non avrei dovuto dirlo, mi dispiace. Capisco il motivo per cui non puoi farlo...»
«Promettimi che non soffrirai mentre saremo lontani...»
«Non posso farti questa promessa, Trevor.»
«Cerca di sospendere tutto, bambina. Prova a far finta che sia solo la brutta copia della vita vera. Io posso sentire la tua sofferenza anche se siamo divisi da intere galassie.»
Sentii le sue dita infilarsi tra i miei capelli, erano carezze materne, di quelle che hanno il potere di farti sentire al sicuro per un po', anche se fuori piovono missili.
«Va bene, provo a congelare il cuore mentre siamo lontani. Posso guardarmi vivere da fuori, come se fosse un film. L'ho già fatto, qualche volta.»
E potevo immaginare in quali occasioni l'avesse fatto.
Affondai il viso nel suo collo sottile. Sapevo che la barba le dava fastidio, ma sapevo che avrebbe fatto finta di niente perché Lea, per amore, poteva sopportare quello che avrebbe ucciso chiunque altro. Anche me, forse.
«Stavolta sono io che dico a te di riposare un po', signor Baker. Sono io a dire a te che quando ti sveglierai sarò ancora qui. Ok?»
Incamerai tutto l'ossigeno che i miei polmoni potevano contenere, e forse anche un po' di più.
Avrei voluto risponderle che sì, era ok, avrei riposato e mi sarei risvegliato accanto a lei al mattino. Ma Lea non era la sola a non poter governare il proprio corpo in certe occasioni.
«Non ancora bambina. Ho ancora bisogno di te.»
«Sei stanco.»
«Sfinito. Ma sono ossessionato dalla voglia di assaporare di nuovo la conquista di quel piccolo varco che finora è stato solo mio e che mi auguro non sia mai di nessun altro. Non chiuderò occhio finché non mi sarò dissetato anche di lui, piccoletta. Non giudicarmi, per questo.»
Mi alzò il viso con le mani per obbligarmi a guardarla. Aveva un sorrise rilassato e innocente sul viso. «Oh io giudicherò, invece. La tua prestazione, signor Baker. Puoi cominciare quando vuoi. Fai in modo che io non debba accorgermi del fatto che sei così sfinito.»
SPAZIO AUTRICE
Mie queens, è da venerdì scorso che sto proprio da cani, e per uno strano scherzo del destino credo di essere nel pieno di un'orribile bronchite per niente lontana da quella cui ho condannato Lea qualche capitolo fa. Peccato che la sottoscritta sia andata a lavorare ogni giorno, anche oggi, e non ho avuto un Trevor che mi faceva le coccole (però un marito che mentre brontolava perché non sono andata da un medico sì - ma in realtà mi ha fatto anche qualche coccola, eh).
Il capitolo, in realtà, come è facilmente intuibile, non è finito. Però ho bisogno di uno stacco. La prossima parte la scrivo quando sono in condizioni almeno decenti. Sicuramente anche questo è rivedibile, non mi soddisfa in toto ma, come detto in bacheca, a volte è necessario stringere i denti e andare avanti punto e basta. A obiettivo raggiunto, si potrà tornare indietro a sistemare l'operato meno soddisfacente, ecco.
Tutto qua. Buon weekend, riguardatevi altrimenti vi mando il dottor William a prescrivervi gli antibiotici che dovrei prendere io.
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