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63 Fammi male


Avrei potuto disintegrare quella dannata porta con due spallate, ma dietro c'era Lea, e avevo paura di colpirla. Ma avevo anche paura di quello che le passava per la testa, perché l'immagine della mia cosina preferita che si era piantata la chiave di casa sua nella carne non l'avrei scordata mai.

Quando sentii il rumore dello specchio andare in frantumi abbandonai ogni remora e colpii la porta con la forza necessaria ad aprirla di colpo.

E fui dentro. Sentii distintamente ogni parte di me fare la stessa fine dello specchio: spezzarsi in piccoli e grandi schegge, tutte crudelmente aguzze. I morsi della rabbia si sommarono ai colpi dello strazio e feci appello a tutta la mia forza di volontà per non crollare sulle ginocchia accanto a Lea, in mezzo al sangue che ancora una volta abbandonava il suo corpo, tra i vetri infranti delle nostre anime e dello specchio.

Mi guardò con gli occhi grandi e lucenti di un cerbiatto sorpreso dai fanali di un'auto in piena notte.

«Bambina mia...»

Le sue manine bianche oltraggiate da rivoli scarlatti, i pantaloni del pigiama strappati all'altezza dell'inguine, lembi di pelle pugnalati spuntavano dal cotone scuro. Una manica alzata sopra al gomito, forse perché dopo la prima sfuriata Lea aveva voluto vederlo, quel rottame affilato mentre le scavava il braccio, liberando il dolore, il sangue, dando forma alla perdita.

Sanguinava come un maiale sgozzato, ma Lea non aveva voluto andare oltre l'afflizione, un martirio autoimposto che era una fuga, ma una di quelle che presuppone la sopravvivenza.

Mi avvicinai e mi sedetti accanto a lei, che andava soccorsa sotto tanti punti di vista, ma la ferita più grande era quella che non sanguinava e andava tamponata in fretta anche quella.

Presi un asciugamano candido e iniziai ad assorbire quel ruscello rosso che sembrava colarle da tutte le parti.

«Mi dispiace... per lo specchio.»

Aveva le mani fredde. Presi un altro asciugamano e glielo allacciai in torno alla coscia, che sembrava aver smesso di colare sangue. Feci lo stesso, con un asciugamano più piccolo, intorno al suo avambraccio che pareva voler collezionare cicatrici slabbrate.

Poi le strinsi le mani nelle mie e la guardai in silenzio perché avevo perso le parole su quel pavimento imbrattato. Parlò lei.

«A volte trovo pace solo nel mio stesso sangue.»

Capivo, c'era un fondo di verità. Sostituire un dolore con un altro era una pratica comune, antica. Ma io preferivo altre pratiche, ugualmente estreme, ugualmente pericolose, ma più efficaci.

«Non è un posto strano in cui cercare la pace, amore mio. Ma non è il migliore.»

Si accoccolò contro la mia spalla ma io la presi di peso e me la misi in braccio. Si fece piccola piccola, come uno scoiattolo nella sua tana calda e sicura. «E qual è il migliore?»

«Il sangue dei colpevoli, Lea. È lì che devi cercare la pace.»

Sospirò. «Preparo la mia vendetta da tanto tempo Trevor.»

«Lo so. Ma possiamo apportare una modifica piccola piccola, come te, bambina. Niente di decisivo per il tuo piano grande e grosso, sai? Ma credo sia ora di intervenire per restituire pace alle tue notti.»

«Cosa vuoi fare?»

Le passai la mano tra i capelli. «Lo facciamo insieme.»

«Quando?»

«Subito.»

Alzò la testolina e mi guardò al confine tra l'entusiasmo e il panico. «Cos'hai in mente?»

«Com'è che dicono i Guardiani della galassia quando vanno a sconfiggere un nemico?»

Sorrise. Il suo sorriso rimarginò un po' delle mie ferite e io volevo rimarginare un po' delle sue a tempo di record. «Dicono che vanno a fare le strisce ai culi.»

La baciai sulla bocca e mi guadagnai un posto più spazioso all'inferno. «Bene, amore mio. Adesso andiamo a fare le strisce ai culi dei tuoi incubi.»

«È troppo presto, Trevor. Troppo presto per uccidere Sebastian.»

Sorrisi, perché per mio padre avevo ben altri piani. Sperai che Dio, padre che aveva sacrificato il figlio, esistesse, per assistere allo spettacolo di un figlio che sacrifica un padre.

«Non andiamo da lui. Sai cosa si dice nel mio mondo riguardo alla necessità di compiere una vendetta?»

«Cosa?»

«Che per uccidere il capobranco, devi prima privarlo del branco.»

Lea annuì: aveva capito. «E vengo anch'io.»

«Certo.»

«Non mi chiedi se ho paura?»

«No. Non ha importanza, mia queen. Solo gli stupidi non hanno paura.»

La convinsi a seguirmi in quella misione con meno sforzo rispetto al convincerla a farsi ricucire gli squarci che si era aperta da sola sul braccio e sulla gamba.

Svaligiai la cassetta del pronto soccorso dell'albergo, e Lea mi fece promettere che l'avrei rifornita il giorno dopo. Come mi aspettavo, sopportò l'operazione di ricucitura con lo sguardo avido e la bocca tesa, accogliendo il dolore come le piaceva fare, accomodata nella sua certezza che se c'era uno che mai l'avrebbe giudicata per il suo malsano rapporto con il dolore, beh, quello ero io.

«Hai qualcosa di comodo in valigia?»

Fece cenno di sì, apparentemente prigioniera di uno strano silenzio. Si infilò in una felpa che sembrava della taglia adatta a un orso grizzly e a un paio di pantaloni da ginnastica.

Ovviamente era magnifica, e il suo broncio illuminava anche le sue occhiaie scure. Il suo era un pallore astrale rubato a un raggio di sole.

«Allora andiamo, bambina.»

Mi prese per mano, e attraversammo la hall ormai quasi vuota, spettrale. La festa era finita. In tutti i sensi.

***

La maggior parte degli uomini di mio padre alloggiava all'interno del suo feudo del cazzo: intorno alla casa padronale che apparteneva ai Baker dai tempi dell'arca di Noè, spuntavano i villini dei suoi scagnozzi, racchiusi da una cancellata in ferro battuto che mi era sempre parsa avere l'estensione della muraglia cinese. Nessuno di loro aveva un giorno libero o un orario di lavoro.

Ma c'erano i fedelissimi, gli storici, quelli che avevano partecipato all'ascesa di mio padre e si erano meritati il diritto a qualche ora di vita privata un paio di volte al mese, oltre alla possibilità di abitare fuori dai confini dei Baker. Lo scopo era quello di scopare in santa pace senza dover suonare il campanello quando si spendevano lo stipendio a puttane, credo.

Danyl era uno degli eletti. Abitava poco fuori Londra, più vicino a villa Baker che alla city.

«Andrey non viene?» mi chiese Lea, alitando sul finestrino anteriore, per lasciare il suo ricordo con le dita anche lì.

«È occupato...»

«A far che?»

Mi voltai per guardarla un secondo, e bastò.

«Capito. Roba segreta.»

«Meno ne sai, meglio è.»

«Gli stai facendo fare una cosa molto pericolosa?»

Valutai la possibilità di mentirle. Ma già detestavo avere dei segreti con lei, figuriamoci mentirle.

Fui onesto. «Sì.»

Sospirò. «Non voglio che Andrey ci lasci le penne, Trevor.»

«Nemmeno io.»

«Stai lavorando per lui? Per... quello che verrà dopo le nostre apocalissi?»

«Sì.»

«E per Dimitri?»

«Anche. Sto lavorando per tutti. E loro stanno lavorando per me.»

«E a te non piace lavorare inutilmente...»

«Non piace a nessuno, bambina.»

«Allora fai che sopravvivano, Trevor. Così nessuno avrà lavorato inutilmente.»

La sopravvivenza di tutti era quanto di più improbabile potesse accadere. Ognuno di noi ne era consapevole. Ma la libertà aveva un prezzo, e valeva per me e per Lea quanto per i miei uomini. Avevamo accettato il prezzo e, come tutti gli investimenti, ne avevamo accettato anche il rischio.

«Ci stiamo impegnando per questo, te lo garantisco.»

«Me ne vuoi parlare?»

«Non si può.»

«Non ti fidi?»

«Mi fido. Ma abbiamo due ostacoli. Il primo è che non saresti d'accordo con il piano, il secondo è che potrei non essere l'unico fottuto genio ad aver creato tecnologie avanzate per spiare la gente.»

«Pensi che mi stiano spiando?»

«Penso che ci stiano provando.»

«Non possono. Intendo che non possono trovare la mia bomba e impedire il mio innesco.»

«Sì, lo credo anche io. Ma nessuno di noi due deve consocere il piano dell'altro, bambina.»

«Perchè così abbiamo più probabilità che almeno uno dei due vada in porto.»

Anuuii. Che i Volkov e mio padre ci stessero alle calcagna era una certezza da quando avevo visto Viktor nel mio ufficio. Portare avanti due piani di fuga e vendetta indipendenti era probabilmente qualcosa di inaspettato per loro. Se mai avessero intercettato qualcosa relativamente alle mie intenzioni o a quelle di Lea, si sarebbero concentrati solo su quel qualcosa, ignorando l'esistenza di un'altra guerra nascosta. Ovviamente, avrei fatto di tutto per attirare la loro attenzione su di me, o su chiunque non fosse Lea. Chiunque.

Parcheggiai davanti al villino di Danyl. Quando spensi l'auto, Lea diede voce alla sua tensione.

«Davanti a casa sua? Ti avrà visto...»

«Non è un problema. Suoneremo anche il campanello.»

«Potrebbe aprire la porta con un'arma in mano.»

«Nemmeno quello sarebbe un problema.»

«Ma tu sei disarmato.»

La guardai e le lanciai un sorriso che sperai la rassicurasse. «Sono incazzato, Lea. Non c'è arma più affidabile, sai? Non si inceppa, non si scarica e non ti esplode in mano.»

«A me sembri tranquillo.»

«Perchè io leggo dentro di te meglio di quanto tu legga dentro di me. E adesso esci, amore mio. Devi vederlo morire.»

E Lea uscì, poco turbata da quello che le stavo chiedendo.

La presi per mano ancora una volta, attraversando il vialetto. Suonai il campanello, come le avevo detto. Mi guardò ancora una volta, come ad accertarsi del fatto che fossi ancora sano di mente.

Si accesero le luci all'interno dell'abitazione, e la porta si aprì solo per metà, rivelando a presenza del padrone di casa, ma anche la sua diffidenza nei miei confronti.

Danyl si presentò con la sigaretta che spuntava dal suo ghigno da vecchio stronzo.

Era ancora vestito, gli occhi accesi: ne fui felice. Probabilmente aveva addosso di tutto: roba affilata e roba che sparava. E anche di quello fui felice.

«Ehi, piccolo Baker, ti mancavo?»

«Come un vaffanculo per Natale (cit. ndr)»

Diedi un calcio alla porta che lo colpì sul naso. Presi il polso di Lea e la trascinai dentro.

Poi, chiusi la porta alle nostre spalle.

«Non me ne frega un cazzo delle regole, adesso ti uccido, Trevor.»

Mi caricò e io, finalmente, fui libero di fargli tutto il male che si meritava davanti agli occhi verdi della mia bambina.

Danyl era una vecchia volpe, una montagna di granito vergata dal tempo e dall'esperienza. Ma il suo fuco si era spento, non aveva più la motivazione a scorrergli nelle vene: aveva dedicato la sua vita a un uomo che si era arricchito molto più di lui, che le proprie ricchiezze comunque non aveva avuto mai il tempo di godersele. La criminalità esige un prezzo assoluto: ti prende tutto, restituendo solo ciò che non conta.

E mi fu troppo facile sfruttare il peso di Danyl, assecondare la sua carica ineferocita per buttarlo a terra, dove potei sfilargli un pugnale da 30 centimetri nascosto tra il pantalone e la caviglia.

Imprecò ma era giunto il tempo di dare nuove lezioni di sopravvivenza alla mia cosina preferita, quindi non persi tempo a dare un senso alle minacce dell'animale intrappolato sotto il mio corpo.

«Lea.»

Obbediente, ma nient'affatto sottomessa, piantò i piedi davanti alla faccia di Danyl, guardandomi attenta. Quello che vidi nei suoi occhi mi piacque.

«La prima cosa da fare quando hai preso il sopravvento sul nemico?»

«Ucciderlo?» tentò.

«Solo se non può più essere utile.»

«Lui può?»

«Forse. Quindi, bambina, se non vuoi o non puoi ucciderlo, cosa fai una volta che è sconfitto?»

In quel momento Danyl fece perno sulle ginocchia, che non avevo stretto con sufficinete forza tra le mie, e a terra mi trovai io. Fui quasi grato di quell'inaspettato atto di ribellione, perché nn stavo traendo abbastanza soddisfazione da quell'incontro impari.

Sentii Lea gridare il mio nome, e anche se non ne avrei avuto bisogno, ebbe l'effetto di un unguento miracoloso sul mio corpo. Colpii con una testata il naso già provato di Danyl, avvertendo la cartilagine sbriciolarsi sotto la forza esercitata dalla mia fronte. Il sangue spruzzò fuori come se gli fosse esploso un palloncino nelle narici. Annodai i piedi ai suoi e le tirai verso di me, facendogli perdere l'equilibrio. Fui di nuovo sopra di lui. Lo voltai di schiena e gli afferrai entrambe le braccia.

Alzai lo sguardo sulla mia cosina. Aveva il fiatone e la fronte aggrottata, ma nessuna traccia di panico sul volto. Stava assorbendo tutto quanto.

«Lea. Quando non vuoi o non puoi uccidere un nemico sconfitto, devi renderlo...»

«Baker, brutto figlio di p...»

«...inoffensivo.»

E piegai le braccia di Danyl nel senso opposto al gomito. Le sue urla riempirono la stanza, e gli schiacciai la faccia sulla moquette per attutire quel suono fastidioso.

Lea mi si inginocchiò accanto, gli occhi sbarrati sulle braccia spezzate dell'uomo, che sembravano pezzi disarticolati di una marionetta dell'orrore. Ossa appuntite avevano forato la carne, attraversando tendini e muscoli. Lea Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca della sua enorme felpa. Per un attimo pensai lo facesse perché si sentiva male. Mi sbagliavo. Ficcò il fazzoletto in bocca a Danyl, senza riguardo, rischiando di soffocarlo. La lasciai fare.

«Stai zitto, cazzo. Taci!» gli gridò nell'orecchio. Lo girai supino, il suo sguardo atterrito fisso sul viso di Lea.

«Te la ricordi?» gli chiesi. «Ti ricordi di lei, Danyl?»

I suoi occhi scuri saettarono verso i miei. Respirava come un toro incarognito, gestendo il dolore, la confusione, il panico. Annuì. Si ricordava.

Alzai lo sguardo su Lea, che non staccava il suo dall'uomo cui avevo iniziato a strappare via la vita.

Mi presi la briga di liberargli la bocca dall'ingombro di cotone. Tossì, sputando sangue che probabilmente gli colava dal naso alla gola.

«Cosa ti ricordi? Cosa le hai fatto?»

«Ho eseguito gli ordini, Trevor. È il mio cazzo di lavoro porca puttana!»

Non me ne fregava un cazzo. La mia bambina non si tocca. Punto.

«Hai eseguito gli ordini dell'uomo sbagliato, stronzo. Forse soffrirai un po' meno, nelle prossime ore, se mi dici esattamente cosa le hai fatto.»

«Ha ucciso mamma.»

La vocina di Lea pareva venire da un altro pianeta. In piedi, ci guadava dall'alto, il broncio magnifico che avrei voluto leccare anche in quel momento. «Erano in tre. Mamma era piccola e tanto magra, perché la droga le faceva bruciare tutto. Loro erano tre. Mi sembravano grandi, immensi, loro squali e noi pesciolini rossi. Sono entrati mentre io leggevo e lei si preparava la dose, nella mia cameretta. L'hanno presa per i capelli...»

«Ho eseguito gli ordini, non sono un animale, Cristo!»

Lea lo colpì sulla bocca con un calcio che avrebbe fatto male anche a me. Gli sputò addosso, colpendolo sulla fronte.

«Hai ragione, gli animali non le fanno quelle cose. In tre l'avete uccisa. In tre. A mani nude.»

Guardai Danyl. Eravamo tutti assassini, nel mio mondo. Ma donne e bambini, di norma, restavano fuori da questioni di sangue. Quando non era possibile risparmiarli, si procedeva a un'esecuzione veloce. Di norma, un colpo di pistola alla testa.

«Perchè?» gli chiesi. «Perchè a mani nude?»

Ma rispose Lea. «Perchè era più facile insabbiare l'omicidio. L'hanno strangolata. E mentre moriva mi guardava.»

Danyl tacque, a conferma. Ma sapevo che non era finita lì.

«E poi?» lo chiesi a lui.

«Gli ordini prevedevano che ci occupassimo della bambina» ansimò. La sua caparbità nel non svenire per il dolore me lo faceva quasi apprezzare. Tutto sommato c'era un motivo se quello stronzo era tra i più apprezzati scagnozzi di Sebastian. Era comunque giunto il suo capolinea. Alzò lo sguardo per guardare Lea. «Ti avevo riconosciuta dai capelli, ma ho avuto conferma quando mi hai guardato talmente spaventata che sembrava stessi per pisciarti addosso...»

Lea aveva detto che gli sembravo tranquillo, in macchina. Aveva ragione.

Lo sembravo.

Quella testa di cazzo aveva aperto la gabbia e l'animale che era in me si catapultò fuori. Persi di vista Lea, il mondo divenne un pozzo di melmosa oscurità attraversato da saette scarlatte e viscide, le mani si schiantavano sulla faccia di Danyl affondando nelle ossa come fossero acciaio contro spugna, il rumore della sua disfatta ricordava quello di un frutto marcio preso a bastonate.

Non sentivo niente, nelle orecchie avevo solo il fischio acuto della rabbia cieca che copriva i suoni della vita.

Andai avanti per troppi secondi, e temetti di averlo ucciso troppo in fretta, quando le mani di Lea si opposero alle mie.

«Fermati!»

Mi fermai, e fu una delle imprese più faticose della mia esistenza fino a quel momento.

«Fermati.»

«Perchè?» le chiesi. «Tanto non ho intenzione di farlo uscire vivo da qui, bambina.»

«Nemmeno io, Trevor.»

Impiegai forse un secondo di troppo, prima di capire. E in fondo, non l'avevo portata lì proprio per quello?

Rilassai le spalle. Il volto di Danyl era una maschera di sangue e ossa spezzate, un minestrone di carne oltraggiata. Ma in un qualche modo, respirava. Se dal naso, dalla bocca o dal culo non avrei saputo dirlo. Di certo, non avrebbe potuto parlare più di tanto, ormai.

«Cosa ti ha fatto? Adesso me lo devi dire.»

Lea mi strinse le spalle, sedendosi accanto a me, che ancora ero seduto sul corpo distrutto di Danyl. «Ha riempito la vasca. Sai quanto ci mette una vasca a riempirsi?» non attese la mia risposta. «Minuti che sembrano anni, mentre non sai se piangere per la morte di tua madre o per quella che attende te. Sentivo il trillo di un cellulare, mi pugnalava le orecchie insieme allo scroscio dell'acqua. Poi mi ha presa per i capelli, come aveva fatto con Mami.»

Undici anni era l'etè ufficiale di Lea alla data della morte di Blue Osmani. A quel punto sapevo che in realtà ne aveva anche meno e un'altra fiammata di furia bollente mi divampò nello stomaco. Ascoltavo gli eventi che avevano plasmato Lea, fatto di lei tutto quello che era ma che le avevano anche impedito di essere altro, privandola di una scelta, e di molte altre cose. La mia bambina.

«Ed è per questo che ho paura dell'acqua. Mi tennero con la testa immersa per un tempo che mi parve infinito. Ma mi concedettero una pausa, me lo ricordo perché sentii l'odore delle sue sigarette e la suoneria del cellulare e non seppi cosa fosse più terribile. E poi di nuovo nell'acqua, che era tanto fredda, mentre... mentre la mia pipì era calda, e la sentivo scorrere lungo le gambe. E a quel punto, a quel punto i polmoni bruciavano e io ero pronta a morire.»

Non proseguì. In fondo, tutto ciò che contava era stato detto. A salvarla fu proprio il trillo di quel cellulare. L'anonimo angelo custode di Lea, che in quei minuti di agonia aveva congelato tutti i conti dei Baker e dei Volkov, li avvertiva della necessità di risparmiare la bambina per tornare in possesso di tutti quei soldi sporchi di sangue.

«Ti hanno lasciata andare.»

Lea abbracciava me ma ero io che avrei dovuto abbracciare lei.

«Mi hanno tirata fuori dall'acqua. Senza una parola. Mi hanno lasciata lì. Col cadavere di mami.»

«Per quanto tempo?»

«Fino al ritorno di Matteo Gessi.»

«Quanto tempo, Lea?»

«Non lo so.»

«Sì che lo sai.»

«Non di preciso. Forse un paio di giorni.»

Le presi il viso tra le mani imbrattate di sangue e non trovai altro modo di esprimerle il mio tormento se non con un bacio frenetico, che lei ricambiò senza esitazione.

Liberai la sua bocca a malincuore. «C'è altro che devo sapere?»

«No. Ma c'è altro che vuoi sapere.»

«Ti ascolto.»

«È tornato dieci anni dopo.»

«Perchè?»

«Per punirmi.»

«Di cosa?»

«Mi ero innamorata.»

Era la risposta che non mi aspettavo affatto. Non feci domande, perché Lea avrebbe detto solo quello che riteneva, e sebbene io mi sentissi morire all'idea di non sapere tutto, avrei rispettato i vuoti che lei voleva imporre.

«Era un ragazzo buono e gentile, magro come un chiodo. Ho commesso l'errore che non avevo commesso con gli altri: lo avevo baciato. Gli avevo dato il bacio vero, quello dell'amore ingenuo e genuino. E papà deve averlo saputo in qualche modo.»

Me la immaginai, meno che ventenne sia nel corpo che nello spirito ma non nei documenti, mentre riviveva il suo incubo, perpetrato dalle stesse facce, per rendere il terrore più concreto, più profondo, impossibile da estirpare. Avevano mandato Danyl, con la sua sigaretta del cazzo, ancora una volta dalla mia cosina preferita, nella sua stanza, dove forse aveva cercato di trovare un'altra dimensione per la pace, se non per la felicità. E ci aveva anche creduto, accolta dalle braccia magre e innocenti di un ragazzo che magari non poteva credere di avere per le mani una creatura così bella. E immagino il suo panico totale, la paura stringerle il cuore ancora una volta, nel vedere l'assassino di sua madre entrare, strangolare il ragazzo cui aveva dato un bacio, e poi occuparsi di nuovo di lei. Non avevo bisogno me lo raccontasse, perché sapevo come ragionavano i cervelli criminali, distorti. L'avevano fatta assistere di nuovo alla morte dell'unica persona che teneva a lei in quel momento, per poi torturarla di nuovo costringendola con la testa sotto l'acqua gelata.

Non si può uscire integri da una cosa così. E Lea già stava convivendo con gli abusi di Matteo Gessi. Era inconcepibile, per me, pensare che tutta quella merda l'avesse travolta mentre io scalavo la salita del crimine, accumulando ricchezze e spargendo altro sangue, inconsapevole della sua spettacolare esistenza, dell'abominio che le infliggevano e dell'amore incurabile che già custodivo nei suoi confronti, impossibilitato a salvarla, a sottrarla dalle ombre malsane di mio padre, di Matteo Gessi e dei Volkov.

Le lasciai in pegno un bacio sulla punta del naso, che ancora una volta diede vita a un sorriso miracoloso sul suo faccino pallido.

«Allora, mia queen, deduco che tu abbia scelto un modo alternativo di porre fine all'esistenza di questo pezzo di merda.»

«Sì. Spero per lui abbia una vasca. Altrimenti ci toccherà affogarlo nel cesso.»

Aveva una vasca.

Lea lo guardò morire, mentre scalciava come una furia. Mi stupii tutta quella convinzione di poter sopravvivere davvero. Gli concedemmo la grazia di scalciare fino all'ultimo respiro, senza spezzargli anche quelle ossa. L'acqua si tinse di rosso in fretta, e Lea collaborò alla morte di Danyl, spingendogli la testa sotto il pelo dell'acqua, dettando i tempi del riposo che gli offrivano l'illusione di poter respirare ancora, per poi ricacciarlo a boccheggiare nel suo stesso sangue acquoso, più e più volte, finchè venne l'ultima. Snodò le sue dita pallide dai capelli dell'assassino di sua madre molti secondi dopo la certezza del suo decesso.

Si rilassò, appoggiando la schiena al bordo della vasca nella quale galleggiava il cadavere.

Vidi la sua figura minuta fare i conti con il peso dell'omicidio, abbandonarsi alla desolazione che restava dopo la vendetta, piegarsi all'oggettiva insufficienza di soddisfazione, perché ciò che aveva perso non tornava indietro, e il vuoto era troppo grande per essere colmato con il sangue di Danyl.

E forse fu lo squallore del contesto, la presenza della morte in quella piccola stanza, il sangue di qualcun altro a colare dalle mani bianche della mia robina dai capelli rossi, o forse il suo sguardo sporco di riscatto e spietatezza, fatto sta che la trovai spaventosamente invitante.

Non potei esimermi dall'assecondare le mie pulsioni, e se mai Lea avesse avuto bisogno di qualche attimo di recupero emotivo dopo un atto estremo come quello che le avevo fatto compiere, aveva dovuto rinunciarvi per accogliere un altro bacio sconcio e pretenzioso, che le liberai tra le labbra e che le sequestrò la lingua, mentre le mani le tenevano la testolina ben salda, le dita avvolte dalle sue ciocche, e il mio corpo gigante che si appoggiava al suo, perché ogni parte di me la desiderava senza riserva, ingolosito dal suo aspetto stanco e disordinato che non le toglieva nemmeno una briciola di fascinosa perdizione, ma le donava un nuovo strato di desiderabile depravazione.

E Lea si concesse alle mie mani assetate e alla mia bocca vogliosa, si lasciò andare sotto il peso del mio corpo, trasformando il suo abbraccio in appiglio disperato.

La baciai finchè lei non ne potè più, stremata persino da me, e allontanò le sue labbra dalle mie lasciandomi in dono il suo sguardo adorante e la vista della sua bocca arrossata che sembrava un frutto maturo sull'incarnato pallido. Avrei voluto esprimere meglio la brama che mi faceva montare dentro, il ribollire di desiderio e bisogno che innescava con il suo solo esistere ed essere esattamente come era.

«Sei magnifica, bambina. Anche adesso, sai? Come fai, come fai a essere magnifica anche quando dovresti essere esausta e sfibrata dal male di vivere e dal male di uccidere?»

Le sue labbra si piegarono nel sorriso più piccolo mai venuto al mondo, più grazioso tra tutti i sorrisi piccoli dell'intero universo. Il meno convinto di tutti i sorrisi, figlio di una breve tresca tra la verità e la menzogna, l'incarnazione del dubbio lecito, confine carnoso tra incredulità e fiducia.

Come faceva a rendere speciale qualunque cosa? E perché nessuno se l'era chiesto prima di me?

«Ma io sono esausta dal male di vivere e dal male di uccidere, Trevor. Sei tu che mi guardi con un filtro strano negli occhi.»

«È perché ti amo, Lea.»

«Sì, le persone innamorate vedono cose che non esistono.»

«No, vedono cose che non vedono gli altri. È per questo che vorrei che ti amassi un po' di più anche tu.»

«Non serve. Tu mi ami abbastanza per tutti e due. E quindi posso permettermi di amare solo te.»

Le accarezzai la guancia e lei appoggiò il viso alla mia mano, sempre in cerca di una dose aggiuntiva di affetto, senza nemmeno rendersene conto. Avrei voluto trafsormare il mio amore per lei in patatine alla cipolla e coccodrilli gommosi rigorosamente rossi, per dare un peso e una dimensione a quello che avevo dentro e che non potevo tirare fuori. Il mondo sarebbe crollato sotto il peso di schifezze dolci e salate, e il sistema solare sarebbe collassato per colpa di caramelle e snack fritti.

Lea aveva un bisogno disperato di essere amata, eppure io l'amavo in una misura di gran lunga superiore al suo bisogno. Le nostre solitudini facevano solo fatica ad abituarsi all'idea di non esistere più.

Avrei voluto infilarle di nuovo la lingua in bocca, e avrei voluto farlo con l'insistenza e la tenacia di una scopata con i fiocchi, ma sapevo che Lea mi avrebbe assecondato anche se il suo corpo implorava un po' di tregua, quindi mi limitai a baciarle la fronte e il nasino, prima di decretare la fine della nostra missione omicida.

«Tiro fuori il cadavere dalla vasca, Lea, tu vai di là e aspettami.»

«Perchè lo tiri fuori? Vuoi nasconderlo?»

«No. La sua è stata una morte decente, quindi voglio che lo trovino come ha vissuto: con una sigaretta in bocca. Se riesco a trovargli la bocca nel macello di ossa spaccate che gli ho lasciato.»

«Ti aiuto a tirarlo fuori.»

«No. Vai di là. Obbedisci, bambina.»

Lo fece, e quasi me ne stupii. Tirai Danyl fuori dalla vasca. Lo misi supino, in una posizione quasi dignitosa. Era il meglio che potevo fare, che tra braccia rotte e faccia dilaniata, era impossibile pretendere un capolavoro. Le sigarette le teneva in tasca, erano fradice. Gliene infilai una nel gomitolo di denti, labbra, gengive e palato che aveva in mezzo al volto.

Gocciolante, tornai in salotto. Lea si era addormentata sul divano. Aprii la porta e la presi in braccio per accomodarla in auto. Lei non protestò.

Spensi le luci a casa di Danyl, chiusi la porta, e tornai in auto. Lea aveva chiuso di nuovo gli occhi. Londra iniziava ad aprirli: il cielo presentava l'anteprima di una timidissima alba.

Avviai il motore, accesi il riscaldamento e spensi l'autoradio per lasciar riposare la mia bambina.

***

Mi svegliai confortata dal calore dell'auto e dal brusio del motore, ma niente mi era di conforto quanto la presenza di Trevor Baker accanto a me. Lui mi stava portando oltre, aveva elevato il livello della mia vendetta, mi aveva fatto superare i confini senza che io nemmeno li avessi visti. Non avevo mai davvero creduto di poter mettere in atto la mia tempesta passando per Londra, soggiornando nell'hotel di Sebastian e partecipando all'uccisione di uno degli uomini che avevano strangolato mami.

La mia era una tempesta che non prevedeva sangue, perché non ero in grado di versarlo, o così credevo. Il mio era un piano che prevedeva di privare i colpevoli di altro, non della vita. Dell'essenza della loro vita, semmai. Che forse era anche peggio, per carità, ma che non mi offriva la soddisfazione di vedere e assaporare la loro sconfitta. Trevor mi aveva offerto un assaggio. Mi era piaciuto, anche se mi aveva prosciugata. Potevo non essergli grata?

Distolse lo sguardo dalla strada per guardarmi, forse per assicurarsi che fossi sveglia.

«Sei stata brava, Lea.»

Ma la verità era un'altra. «Perchè eri con me. Non lo avrei mai potuto uccidere, senza di te.»

«È probabile. Non vedo dove sia il problema.»

Sospirai. «Come farò quando non sarai più con me?»

E in quell'istante fui felice che Trevor avesse provveduto ad allacciarmi la cintura di sicurezza. Sterzò bruscamente e uscì di strada, inchiodando subito. Aveva fatto apposta, ma non ebbi il tempo di chiedergli cosa gli passasse per la testa, perché uscì con urgenza dall'auto. Pensai avesse visto qualche scagnozzo di Sebastian o dei Volkov, ma Trevor aprì il mio sportello, mi slacciò la cintura, mi tirò fuori prendendomi per un braccio, richiuse la macchina e mi incastrò tra lo sportello e il suo corpo, il tutto nell'arco di due secondi, forse tre.

La sua espressione seria e lo sguardo truce mi tolsero il fiato. Il suo corpo contro il mio mi parve quasi minaccioso. Mi prese il volto con una sola mano, esigendo la mia assoluta attenzione.

«Io sarò sempre con te, Lea. Sempre. Hai capito?» me lo gridò con lo stesso tono di voce di chi sputa la peggiore tra le minacce di morte. Potei solo annuire in fretta, accogliendo la sua cruda determinazione e ringraziando il cielo di averlo dalla mia parte.

«Ascoltami. Ci sarò anche quando ti sembrerà di essere sola. Forse non mi potrai vedere, o sentire, forse ci sarò attraverso gli occhi, le orecchie e i proiettili di qualcun altro. Ma tu, Lea, devi credermi, se ti dico che io non ti lascerò mai più da sola. Devi tenere lo smartwatch con te, anche quando ti sembrerà inutile. E anche il cellulare, per Dio, quello che ti ho dato in aeroporto. Cerca di averli con te, io il modo di raggiungerti lo trovo e non permetterò più che un cazzo di Oceano si frapponga di nuovo tra me e te senza che un fottuto esercito di uomini scelti ti segua ovunque. Hai capito tutto?»

Avevo capito. Avrei obbedito, non mi sarei mai separata dal cellulare e dallo smartwatch. Ma una parte delle sue intenzioni non erano realizzabili. Lo sapevo bene, ma scelsi di non dirglielo. Lo avrei allarmato per nulla. Senza contare che forse Trevor Baker, carogna di Wall Street, avrebbe trovato comunque il modo di realizzare ogni sua singola dichiarazione.

E io, che di certo sapevo di non poter sperare di dar inizio a un'apocalisse di sangue, avrei dato seguito a un'apocalisse di altro tipo. Io ero Lea Gessi, stuprata, umiliata, sfruttata, eppure viva, cazzuta, stremata ma pronta a restituire al mondo tutta la merda che mi aveva lanciato addosso.

La regina, cazzo. Io ero la cazzo di regina di Trevor Baker e avevo ucciso l'assassino di mia madre, e avrei smesso di pisciarmi addosso nei sogni e anche nella vita vera.

Solo gli stupidi non hanno paura, mi aveva detto Trevor.

Eppure io smisi di aver paura in quel momento. Avevo ancora da temere, ovviamente, ma del peso della paura mi liberai quella notte, che stava per diventare giorno.

«Ho capito.»

Dovetti risultare convincente, perché mi seppellì in un bacio intransigente, e sentii la sua erezione anche attraverso i parecchi strati di vestiti che ci tenevano separati.

Se mi avesse spogliata lì, lo avrei accolto nonostante il freddo, ma Trevor aveva più buon senso di me.

Salimmo in macchina, e anche io gli feci la mia più grande raccomandazione.

Alitai sul vetro, come sempre.

«Indovina cosa sto per scrivere» gli dissi. Lui ci pensò pochissimo.

«Free Britney.»

«E poi?» lo incalzai.

Lo vidi concentrato. Nessuno dei due aveva parlato a sproposito, quella sera.

«Non lo so.»

«Pensaci ancora.»

Lo fece. Fallì. «Non lo so.»

Alitai di nuovo sul finestrino, lasciando in pegno con le dita un pezzo della nostra libertà.

Trevor lanciò uno sguardo alla mia opera prima che scomparisse.

«Hai visto?»

«Sì. Il cuoricino.»

Sorrisi. «Esatto. Dopo Free Britney, ci vuole sempre il cuoricino. Senza spazi.»

Ognuno di noi si tenne stretto la confidenza dell'altro, senza sapere che farsene, ma certo che lo avremmo saputo a tempo debito.

***

Una cosa dev'essere chiara: io volevo solo farla dormire serena. Quello, era il fottuto ruolo della suite numero quattro. E se poi era andato tutto a puttane fu prima colpa di Danyl, poi di Lea.

La hall del Baker Hill, al nostro ritorno, aveva l'aspetto di una teenager di ritorno da un rave party: disordinata, stralunata e sciupata. Più di un inserviente era occupato nel tentativo di restituire a quel posto la dignità che aveva perso durante l'inaugurazione: alzarono gli occhi nel vederci entrare, ci seguirono con la testa nel vederci attraversare la stanza e si stupirono nel vederci prendere l'ascensore di un albergo che, in teoria, non doveva ospitare nessuno.

Di norma avrei preso l'appunto mentale di rivedere i piani relativi alla sicurezza del posto, ma la norma stava per andare a puttane insieme a tutto il resto grazie ai Levor, quindi me ne infischiai.

Ci fermammo a recuperare un paio di lenzuola pulire dallo sgabuzzino del piano, senza dirci nulla. Lea ritrovò le parole solo dopo che il letto fu cambiato, e le lenzuola sporche gettate nel box doccia della suite.

«Trevor...» si stava infilando dentro un altro paio di pantaloni comodi, mentre la felpa da orso grizzly era già stata sostituita da una t-shirt con la faccia di Malefica stampata sopra.

Aveva dato per spacciato il pigiama di Crudelia. Avrei rimediato a quella mancanza inammissibile nel suo guardaroba.

«Cosa c'è?» la incalzai. Sembrava far fatica a raccogliere i pensieri. Era stanca, di quella stanchezza seducente.

«Quanto pensi ci metteranno a scoprire che vai a letto con una puttana digitale?»

Era una domanda che non mi ero assolutamente posto, e la cui risposta non aveva alcuna rilevanza, per me.

«Che importa?»

«I tuoi soci, tuo padre, gli azionisti... sai quanta gente ti chiederà conto della tua condotta?»

Mi avvicinai per prendermi un'altra dose della mia nuova droga: rubai la magia dalla punta del naso di Lea con le labbra. Con la sua polvere di stelle sulla bocca trovai la forza di rispondere a una domanda che continuava a sembrarmi del tutto inutile.

«Passeranno giorni prima che mi chiedano qualcosa. Prima lo scandalo deve scoppiare sul web, bambina. E comunque io non sono David Beckam, dubito ci sia poi tutta questa gente interessata a quello che succede nel mio letto.»

Venne in cerca di un abbraccio e lo trovò subito. «Io dico che la nostra assenza alla festa dopo la tua limonata sul red carpet ha destato parecchio scalpore, mister Nike.»

Già bisognoso di una seconda dose, le portai via un altro incantesimo baciandola sulla testa.

«Meglio così.»

Alzò il faccino e mi guardò con la fronte aggrottata. «Addirittura...»

«Se non sono morto da bambino è grazie al clamore che ne sarebbe conseguito sui media. I Volkov potrebbero essere intralciati da una nostra improvvisa ondata di popolarità.»

«E come la mettiamo con la tua reputazione, signor Baker?»

Ero così poco abituato a ridere, che quella sera feci fatica a riconoscere il rumore che mi uscì dalla gola. Forse se ne stupì anche Lea, che mi guardò come se mi fosse spuntato un terzo occhio sulla fronte. «Quale reputazione, mia queen? Quello di carogna? Manipolatore di mercati finanziari? Usurpatore di potere economico? Truffatore?»

Sorrise anche lei. «Dovranno aggiungere anche "frequentatore di donne di malaffare" all'elenco di appellativi. Perchè salterà fuori, Trevor. Scopriranno che sono una puttana on line.»

Chiaramente, per me non era un problema. Ma dovetti mettere in conto che lo fosse per lei.

«Posso provare a contenere lo scandalo per i primi giorni, se la cosa ti mette a disagio, amore mio. Ma se c'è una cosa che sfugge persino alle minacce di morte, è il pettegolezzo. Non posso proteggerti da questo, se dovesse effettivamente accadere.»

Si accomodò meglio nel mio abbraccio, scavandosi un nido nel mio petto con la fronte.

«Non mi mette a disagio. So bene cosa sono.»

«No, non lo sai. Neanche gli altri lo sanno. Solo io so cosa sei. E nessuno ha ancora inventato parole abbastanza colorate e preziose per poterlo spiegare a voce.»

«Ti amo, Trevor Baker, carogna, manipolatore di mercati finanziari, usurpatore di potere economico, truffatore e frequentatore di donne di malaffare.»

«Ti amo anche io, bambina. E adesso infilati sotto le coperte. È l'ora delle coccole e del riposo.»

«Ho più bisogno di coccole che di riposo.»

Mi si spezzò il cuore, nel dirle che aveva torto. «No, amore. Tu hai un infinito bisogno di entrambe le cose, ma temo di poterti offrire una dose abbondante solo di coccole, per il momento.»

Sospirò, e chissà se non insistette per avere l'ultima parola perché ritenne avessi ragione io, o perché sapeva che non mi avrebbe mai convinto di essere nel torto.

Tirai le tende e chiusi gli scuri delle finestre, perché ormai albeggiava ma io pretendevo il buio, volevo allungare la notte e manipolare lo scorrere del tempo.

La suite divenne un'accogliente grotta senza spiragli di luce, e quando mi accomodai sotto le coperte con Lea sentii di nuovo quella cosa strana nella pancia che somigliava tanto alla felicità.

Inutile dirvi che Lea non collaborò minimamente al mio piano a base di carezze innocenti e casto riposo. Me la ritrovai sopra dopo un paio di respiri, la lingua birichina che mi solleticava la gola e il suo inguine sfacciato che provocava la mia famelica protuberanza di carne.

«Cazzo, Lea...»

Provai a resisterle, già certo di una mia inevitabile capitolazione. Nel disperato tentativo di mantenere i miei maturi propositi la feci scendere, accomodandola supina ed elargendole una dose così massiccia di baci sul viso da poterla paragonare a una valanga d'amore. Le presi il braccio che si era massacrata già due volte da quando la frequentavo, posai le labbra sul solco che si era scavata poche ore prima e che io le avevo ricucito. Le dita dolci della mia bambina si attorcigliavano intorno ai miei capelli. Ed era quello che avrei voluto per lei, quella notte: baci soffici, carezze affettuose, respiri condivisi. Volevo elargirle la parte più innocente e cristallina del mio amore per lei, e volevo farlo per ore, fino al suo cedere al sonno e ben oltre il suo risveglio.

Volevo solo coccolarla per un giorno intero, darle tutto senza prendere niente, concederle il lusso di ricevere e di beneficiare senza preoccuparsi di restituire o di rimborsare. Il credito che la mia cosina preferita aveva maturato con la vita era ai miei occhi così grande che da lì in poi il destino avrebbe dovuto riservarle solo regali inaspettati e gioie sfavillanti.

Ma Lea era una creaturina impulsiva, un intrico di istinti e urgenze che non si dava nemmeno il tempo di analizzare i propri bisogni in modo razionale, non si disturbava a dar loro una precedenza ottimale, né si preoccupava della necessità di assecondare i suoi bisogni nel giusto ordine e con la giusta frequenza.

Lea preferiva scopare che nutrirsi e riposarsi, per farla breve.

Mi impegnai per un tempo che mi parve infinito a gestire la furia dominante della mia erezione per assaporarla solo con la bocca e con le dita, sfiorando la sua pelle morbida e profumata, consolando le ferite della sua carne sperando di raggiungere anche quelle del suo animo maltrattato. Non riuscivo a staccare le mie labbra e le mie mani dal suo corpo e dal suo volto: io mi nutrivo di quel contatto che aveva il potere di arricchirmi, che confortava la mia esistenza con nuove speranze, nuove motivazioni. Ci provai, pur sapendo che lei avveva le redini, che lei avrebbe scelto per entrambi, che i miei muscoli non potevano niente contro i suoi desideri fragili, la mia volontà non poteva niente, davanti alla sua caparbia rinuncia al benessere duraturo in favore della soddisfazione immediata.

Ma sperai, sperai che mi concedesse di fare la cosa più corretta, matura, responsabile.

Speranza vana, mal riposta. La nostra reciproca dipendenza era un morbo inarrestabile, che poteva salvarci come distruggerci, o forse salvarci solo per distruggerci con maggior fervore subito dopo.

E in fondo, se non ci fossimo amati con tanta viscerale crudeltà, a quel punto ci saremmo arrivati già distrutti l'uno dall'altra.

Eravamo due poli negativi in collisione, e cosa potevamo generare, se non una nera tempesta che prima avrebbe inghiottito e poi respinto l'intero universo?

Lea non si accontentava di avermi fuori, di sentire la mia fame guaire disperatamente sotto i colpi della mia intenzione di trattenere l'istinto animale che si divincolava dentro di me; Lea mi voleva dentro, pretendeva di avermi dentro. Il suo ipnotico ondeggiare contro di me era un'impudica tentazione, i suoi sospiri nelle orecchie richiami infallibili. La implorai, infine, di lasciarmi libero di occuparmi di lei come meglio credevo, come meglio potevo.

«Fai la brava, bambina, ti prego...»

Ma la sua pelle rispose rilasciando un sortilegio cui fu impossibile oppormi: le affondai i denti alla base del collo, cedendo all'impulso selvaggio di succhiare la sua carne succosa.

E chissà, forse, se Lea avesse avuto pietà di me, avrei trovato la forza di non andare oltre, di attenermi a quanto mi ero ripromesso, di limitarmi.

Ma Lea non ebbe pietà.

Sussurrò la sua maledizione e io la raccolsi nel mio personale girone infernale: mi dichiarò guerra in un sussurro, insidiando i miei demoni con i suoi, orgia di brutalità, spettacolare maleficio. Mi dilaniò con due sole parole, polverizzando i rottami della mia risolutezza, bastonando i miei intenti, umiliando la mia ingenua speranza di poterle resistere.

Mi piegò, infine: lei in quel frangente divenne regina senza re, io umile servo, schiavo asservito.

Due sole parole, un bisbiglio, me le fece serpeggiare nelle orecchie e loro mi strisciarono dentro, conquistandomi, sconfiggendomi. Non mi concesse alcuna resa. Ricordo ancora e mi sento mancare a quel ricordo.

Due parole. La mia disfatta epocale.

Fu sublime.

«Fammi male.»

Crollai al suono melodioso del suo ordine spietato, e anche se da fuori uno spettatore ignaro avrebbe potuto pensare che d'improvviso mi fossi deciso a montarla con vile prepotenza, la verità è che quella prepotente fu lei. Lei.

La voltai per prenderla da dietro, perché avevo bisogno di concedermi una pausa dalla sua bocca che era spettacolare nascondiglio per feroci malefici.

Le assestai un solo poderoso colpo per penetrarla, perché quello era ciò che voleva e quello era ciò che le avrei dato: un atto fisico accanito impossibile da addomesticare, scellerato, pervertito.

Adoravo prenderla per i fianchi, era una possibilità fantastica: erano così stretti, deliziosi, e intanto potevo sbattere contro il suo corpicino con meschina irruenza. Le nostre carni che nello schianto davano origine a schiocchi acuti, mentre le nostre bocche partorivano grugniti e sospiri che erano musica solo per le nostre orecchie malate.

Non ero più un essere umano, ero solo un fascio di nervi, un pugno di ormoni, ondata di testosterone. Volevo arrivarle fin dove nessuno le era mai arrivato, diposto a farle male, quasi speranzoso di sentirla urlare per il dolore.

Avevo perso ogni cognizione, una macchina da monta dentro un involucro di pelle, la pompavo frenetico, forte, quasi rabbioso. Mi aveva domato, piegato, e nel piegarmi la depravazione si era scatenata, come lei aveva sperato e desiderato.

La presi per i capelli e mi chinai, la bocca accanto al suo orecchio.

«Era questo, Lea? Volevi questo?»

Una piccola smorfia sul volto trasformò la sua bellezza in peccato. «Sì, volevo esattamente questo...»

La mia sconfitta divenne annientamento, perché non aveva mentito. Aveva vinto, anche se non era quello di cui aveva bisogno. Ma era quello che voleva, e non le importava.

E io, definitivamente sopraffatto dalla libidine, trovai il modo di sbattere dentro di lei con inarrivabile intensità. Ero già venuto dentro di lei più e più volte, quella notte, ma avrei inseguito l'ennesima eiaculazione a costo di scoparla per ore, a costo di sentirla implorare per una tregua. E sentirla arrendersi al demonio che lei stessa aveva evocato sarebbe stata suprema goduria, ma quella piccola miracolosa stronzetta si sarebbe fatta uccidere dal mio uccello, piuttosto che elemosinare la fine del mio accanimento.

Decisi che avevo di nuovo bisogno di prendermi la sua bocca .

Uscii da lei in fretta e senza riguardo, e ugualmente in fretta e senza riguardo la trascinai giù dal letto per sbatterla contro la parete, annodarmi le sue gambine fotoniche intorno ai fianchi e iniziare a fotterla in piedi, con il muro dietro la sua schiena che era perfetto alleato di per una penetrazione rude e profonda, mentre la mia bocca si divorava la sua. Avrei potuto sbranarla, avrei voluto farlo, e poi ricominciare.

Ero perduto, perduto per sempre, dentro di lei.

Alla fine mi fece la concessione di un sussulto e un gemito strozzato, e mi accorsi solo troppo tardi che non le avevo fatto male con la penetrazione, ma strofinandomi contro i tagli che si era inflitta sulla coscia e che le avevo medicato quella sera.

Sentii il suo sangue scorrere anche contro la mia pelle, e nonostante quella rivelazione mi portasse ad allargarle un po' di più le gambe per evitare di riaprile tutti i punti, non fu nemmeno lontanamente sufficiente a convincermi che dovevo smetterla, che dovevo lasciarla andare, che dovevo anche farla incazzare, se necessario.

No. Io andai avanti, proseguii a infilarmi dentro di lei, dentro e fuori, dentro e fuori, urto violento tra corpi stremati e tremanti.

Abbandonai la sua bocca in un breve lampo di lucidità.

«Dimmi che non ne puoi più, Lea. Dimmelo prima che ti faccia male, e forse riuscirò a fermarmi.»

La sua smorfia arrogante sotto lo guardo determinato non mi lasciò scampo. Le sue parole furono solo inutile conferma di ciò che già le avevo letto in faccia. «Non risparmiarmi niente. Niente.»

Toccai il fondo del mio abisso.

Uscii da lei, e le piombai di nuovo dentro in fretta, con l'irruenza di una marmaglia di facinorosi.

Poi di nuovo. Fuori, del tutto, svuotandola in un secondo. E in meno di un secondo di nuovo dentro, con la forza e la velocità di una pugnalata carica d'urgenza.

Fuori, poi dentro, con un colpo secco e irrispettoso, un atto volgare e sprezzante.

Lea soffocò un grido ma io glielo lessi negli occhi: iniziava a spezzarsi anche lei.

Non avevo finito, non mi bastava ancora.

Fuori, fuori da lei. E poi, senza possibilità d'appello, travolgente come un'onda anomala, caricai un altro colpo. La schiantai contro la parete penetrandola, uno scontro che tolse il fiato a entrambi.

E si piegò, finalmente. Mi consegnò la sua resa, e finalmente fummo entrambi liberi. La chiave che aprì le nostre gabbie di perversioni fu il suo acuto e vibrante «Ahi!»

Si pentì della sua debolezza nell'istante stesso in cui lo avvertì distintamente adagiarsi nelle orecchie. Ma io l'amavo talmente tanto e talmente male, che le permisi di nascondere quella piccola prova di umanità. Lo feci nel modo che lei apprezzò di più: assestandole un altro terribile colpo che ci annientò entrambi. Il cazzo mi fece l'immenso piacere di spruzzarle dentro un amplesso villano, che pulsò per una manciata di secondi.

Il corpicino di Lea lo accolse con gratitudine, ammorbidendosi tra le mie braccia, abbandonando ogni tensione. Mi restò aggrappata addosso con disperazione, svuotata in tutti i sensi, appagata.

Avevo assecondato i suoi vizi, alimentato le sue dipendenze. Ancora una volta.

D'altra parte, lo stesso valeva per me.

Decisi di disperdere gli ultimi barlumi di lucidità in un bacio tenero e morboso, che ssi prese gli ultimi frammenti delle nostre forze e se li portò via.

Sarebbe stato saggio fare un'altra doccia, ma la stanchezza rapì la mia bambina e le tolse la capacità di reggersi piedi.

La tenni in braccio e la accomodai a letto. Nuda, pallida, stremata e stupenda come sempre.

Ebbi il tempo di sdraiarmi accanto a lei, sussurrarle la buonanotte nell'orecchio, appoggiarle un po' di baci sulle palpebre abbassate e sulla bocca imbronciata, prima di sentirla rilassarsi e addormentarsi. E non so per quanto tempo io, invece, rimasi sveglio a nutrirmi del suo respiro regolare, accarezzandole i capelli e baciandole la spalla, il collo, la tempia, la guancia... ogni lembo di pelle raggiungibile senza svegliarla.

Forse a un certo punto mi addormentai anche io. Di certo, quando mi svegliai, ripresi esattamente da dove ero rimasto: carezze e baci. Ancora. E ancora. E ancora. 

SPAZIO AUTRICE

Questo capitolo è troppo lungo? Sì.

L'autrice è esausta? Sì.

Che ore sono? L'una di notte.

Domani mi alzo all'alba per lavorare? Sì.

Preferirei spararmi su un piede? Ancora sì.

Ormai sapete...stelline bla bla bla commenti bla bla bla...eccetera. Notte (anche se pubblicherò di pomeriggio.

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