51 Il sapore di una truce Apocalisse
Il cellulare squillava da diversi minuti. Insistente. Incessante. Consolante.
Ero alla terza sigaretta, mentre Londra scorreva ai miei piedi, con il suo traffico inutile, la sua flemma fastidiosa.
Sapevo che Lea mi avrebbe richiamato tutta la notte, ma avevo bisogno di sentirlo, volevo la prova. Non mi piaceva saperla da sola e disorientata mentre faceva quello che io le avevo chiesto...no, quello che io le avevo detto di fare, ovvero liberarsi di Denis e richiamarmi subito. Non lo facevo per punirla, lo facevo perché ne avevo bisogno.
Così come lei aveva avuto bisogno di farsi scopare da Denis per avere la sua conferma, il suo pezzo mancante. Che sarebbe potuto accadere lo avevo preso in considerazione, non avevo sottovalutato i segnali che Denis mi aveva lanciato. Ma lo stronzo aveva ben pensato di aspettare che mi allontanassi da lei, per affondare il colpo.
Nessuno sapeva meglio di me quanto fosse difficile sopportare la fame, resisterle. E Lea era sempre affamata, terrorizzata all'idea di perdere ogni forma di affetto che le elemosinava la vita. E io ero dovuto andare via, per forza.
Il tradimento era una colpa che i Baker, da sempre, punivano con una condanna a morte. Se avessi considerato la scopata di Lea un tradimento, a quel punto sarei già stato in aeroporto, armato della mia incazzatura.
Certo, la ragazza doveva capire, comunque.
Gettai a terra la sigaretta, pestandola con le Nike. Ne accesi un'altra. La suoneria che pugnalava la notte, la vibrazione che scuoteva anche il comodino.
Continua a chiamare, Lea. Non smettere. Stronza.
Presi il bicchiere dal davanzale e buttai giù il Macallan, la notte inglese che sopravviveva a quella giornata di merda.
Sospirai, appoggiando il bicchiere e prendendo in mano il dossier di Lea. Lo sfogliai con la sigaretta in bocca. Che quella documentazione fosse insufficiente e incompleta lo avevo compreso fin da subito, in Italia.
Cercai di trovare risposte proprio nelle mancanze.
Mi sedetti sul letto, sparpagliando quel poco più di niente cartaceo sulla coperta. La suoneria del cellulare che scandiva il ritmo dei miei meccanismi neuronali.
La foto di Blue Osmani. Assomigliava a Lea. Le somigliava abbastanza da esserne la madre? I capelli erano più scuri, tendenti al castano, meno ramati di quelli della mia cosina preferita. E gli occhi? Gli occhi erano verdi, quello sì. Ma erano i suoi occhi? O qualcuno le aveva fatto indossare lenti colorate? E se lo avevano fatto, qual era il motivo?
Appoggiai la foto. Presi il certificato di matrimonio che sanciva l'unione tra Blue e Matteo Gessi. Lea aveva quasi nove anni quando i due erano convolati a nozze. Blue era morta solo due anni dopo. Il documento di identità diceva che la donna aveva diciassette anni più di Lea: era quindi plausibile che la mia bambina fosse il frutto di una scopata tra giovani incoscienti, o di una violenza, o di troppe birre che sbiadivano i ricordi di una ragazzina che aveva passato la notte sotto molti maschi. Blue Osmani si era portata la verità nella tomba.
Il suo primo permesso di soggiorno, invece, diceva che era in Italia almeno da quando Lea aveva sette anni, ma il certificato di nascita della mia bambina diceva che era nata in Italia, quindi probabilmente Blue era arrivata da clandestina chissà quando.
Oppure non erano madre e figlia e ogni ipotesi andava a puttane.
Avevo dubbi su tutto. La mia sola certezza era che Matteo Gessi non aveva sposato Blue per un qualche coinvolgimento emotivo: c'era qualcosa di diverso sotto e io non riuscivo a capire cosa. Non potevo non pensare a un nesso tra Lea ed El Diablo, ma in che modo una bambina e una ragazza madre potevano essere coinvolte in un malware che spillava soldi dai movimenti finanziari di Wall Street?
Guardai la data di nascita di Lea. Mancava poco al suo compleanno. Ventisei anni. Il suo viso triste a scavato mi riaffiorò alla mente in un nano secondo. Non li dimostrava. Neanche un po'.
Quanto era difficile contraffare un certificato di nascita? Era una cazzata. Più complicato era costruire intorno a un certificato di nascita falso un'intera esistenza.
E poi, perché contraffare i documenti di una bambina? Poteva aver senso nell'ambito del mercato nero delle adozioni, ma Matteo Gessi aveva l'istinto paterno di un coccodrillo. E non l'aveva adottata nemmeno per... beh, per violentarla, dato che aveva aspettato anni prima di farlo.
Quindi, nel mio ragionamento circolare, pareva aver senso che Lea fosse figlia di Blue e che Matteo Gessi l'avesse adottata perché non poteva separarla dalla madre. E allora il bandolo della matassa diventava Blue Osmani. Matteo Gessi voleva lei, e Lea era solo un fastidioso allegato del pacchetto.
Gettai i fogli sul copriletto, per niente convinto delle mie conclusioni.
Lea non aveva smesso di chiamare. Guardai l'orologio. Chiamava da più di due ore.
Poteva bastare.
Presi il cellulare e pigiai sulla cornetta verde. Parlai prima che potesse farlo lei.
«Attiva la telecamera, Lea.»
Lo fece, e la vidi. Capelli arruffati, fronte aggrottata, il labbro inferiore infilzato dai denti. Le spalline di una canottiera bianca spuntavano tra le ciocche rosse dei capelli. E se anche lo sguardo sembrava tradire una certa inquietudine, la vidi sorridere non appena il display le restituì la mia immagine.
Non era bellissima. Era un capolavoro, porca puttana.
Non mi disse niente, e la lasciai a chiedersi quanto fossi incazzato da un milione a cinque miliardi.
Poi sorrisi, perché arricciò il nasino quando una ciocca di capelli glielo solleticò. E quindi tutta la mia criminale rigidità andò a farsi fottere. Cristo, meno male che Lea non era una Volkov.
«Stronza» la salutai.
«Ci siamo detti che era indispensabile» rispose, ma la vidi arrossire, mentre lo faceva.
«Sono incazzato, Lea. Era indispensabile, ma avrei preferito ti facessi scopare da Denis prima di avere a che fare con me.»
«Lo capisco.»
«Ne dubito.»
Tutti quei chilometri tra noi mi infastidivano, erano un intralcio al nero della mia rabbia. Fossi stato ancora in Italia, della faccia di merda di Denis sarebbero rimasti solo un paio di denti e un barattolo di materia grigia in frigorifero. E Lea sarebbe stata sotto di me, a subìre la mia implacabile punizione. Che avremmo gradito entrambi.
«Non gli farai del male, vero?»
«No, figurati.»
Parve stupita. «Dici sul serio?»
«No. Gli inchioderò i coglioni al muro. Ma lo lascerò in vita, così potrà struggersi al ricordo di quando poteva ancora sfruttarne il potenziale.»
La vidi mordersi le guance per non sorridere. Non stavo scherzando, ma lasciai che lei provasse a convincersene lo stesso.
«Non è colpa sua, Trevor.»
«Sì che lo è.»
«Ero consenziente.»
«Risparmiami i particolari, ragazzina.»
Si rabbuiò, giustamente.
«Torni lo stesso? In Italia, intendo.»
Provai a leggere il passato sui tratti del suo viso. Trovai solo disperazione, promesse infrante, speranze sfumate. L'origine del suo buio era Matteo Gessi, ma l'origine di Lea, era un mistero.
«Torno da te, certo.»
Sembrò sollevata. «Aveva ragione...»
«Se dici ancora che aveva ragione tuo padre, costringendomi per l'ennesima volta a ricordarti che non era tuo padre, giuro che compro tutta la produzione mondiale di Martini e la spedisco nello spazio.»
E rise. Mi piaceva farla godere, sia chiaro, sentire gli spasmi del suo corpo e la sua vocina sospirare il mio nome. Ma farla ridere... cazzo, farla ridere così era anche meglio. Ma c'era un conto in sospeso. Avevo un credito da esigere. Uno grosso. Enorme. Era ora di cambiare registro.
«Lea, adesso devi spogliarti.»
Aveva colto dal tono della mia voce che era meglio non discutere. La vidi a disagio ma non le offrii alcun armistizio.
«È il tuo lavoro, bambina. Non devo insegnarti come si fa.»
«Ma tu non sei... un lavoro.»
Appoggiai la schiena alla testiera del letto, il cellulare sul materasso, sorretto dal suo sostegno apposito, tra le gambe. «Stasera sì, Lea. Stasera sono un tuo lavoro.»
Aprii la cintura e abbassai la zip dei pantaloni. «Avanti, Lea. Fai il tuo lavoro, altrimenti salgo su un aereo e al muro inchiodo tutti gli organi interni di Denis, anziché solo le palle.»
Aprì la bocca, ma non fu in grado di rispondere. Mi strinsi il cazzo tra le dita, mentre lei ancora cercava di mettere il naso fuori da quello strato di difficoltà.
«Non so se sono capace, Trevor.»
Arrancava, non era nello stato d'animo di interpretare Bluedomino con me, in quel frangente. Ma non me ne fregava un cazzo. Si era fatta scopare da Denis, e io volevo la mia fetta di torta. Se le serviva un aiuto per trovare ispirazione gliel'avrei dato, ovvio, ma non avrei concesso deroghe al suo debito appena contratto.
«Sei capace, lo sai.»
«Intendo adesso, non so se ne sono capace adesso.»
La rabbia mi rendeva meno paziente, persino con lei, ma feci appello a tutta l'umanità che ancora mi restava in corpo.
«Metti la canzone. Ne me quitte pas. Spogliati per me, bambina. Esibisciti per me, e fallo in modo convincente, perché più temporeggi e più mi viene voglia di sentire che rumore fanno le ossa di Denis quando si frantumano sotto i colpi di un piede di porco.»
Mise un broncio infinitamente serio e concentrato. Collegò la webcam a infrarossi al mio dispositivo, mentre io condividevo lo schermo del cellulare con quello decisamente più comodo di un Tv dalle dimensioni soddisfacenti. E Lea fece partire la canzone, le cui note uscivano dal mio impianto stereo nitide e cristalline.
Sospirò, dentro le sue mutandine bianche di cotone, un tributo alla castità che addosso a lei si trasformava comunque in un invito passionale a strappargliele via. E sulla canottiera bianca che avevo intravisto poco prima era stampata l'immagine dei villain della Disney che giocavano a Poker.
Ma Cristo di Dio, bambina mia.
Era un bene, infine, che io non fossi lì. Lo fossi stato, vedendola così, l'avrei abbracciata e messa a letto rimboccandole le coperte. Altro che danza erotica. Un rammollito, cazzo.
La distanza mantenne quasi integra la mia volontà.
La.mia.fetta.di.torta.
E con il suo completino di cotone addosso Lea danzò, morbida, flessuosa, libera.
Aveva così poco da togliersi di dosso, che non abbi fretta, così come non l'ebbe lei, di vederla restare nuda. Potevo intuire e ricordare facilmente le curve delle sue natiche sotto le slip che, notai, avevano stampate le carte degli assi sul retro.
Cazzo. Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo. CAZZO!
Ma come poteva essere così profondamente erotica e così dannatamente inviolabile allo stesso tempo? Forse ero io che ero malato. Anzi, sicuramente. Non potevo desiderare di scoparla e di rinchiuderla al sicuro in una cassaforte imbottita di piume allo stesso tempo.
E tra pianoforte e flauto, Lea era una fatina che giocava con le note, le sue gambe corte ma slanciate che si avvolgevano intorno alla melodia, le sue braccia toniche che si aggrappavano a uno spartito invisibile per ricamare sogni. Farfalla di cristallo tra fiori di vetro, volava impollinando miraggi in un giardino di chimere.
E la canottiera abbandonò il suo corpo, in una piroetta ipnotica che trasformò il cotone in fiocco di neve. Era leggera come fatta d'aria, mentre si appoggiava alla musica per fare del proprio corpo una forma d'arte, generando conflitti tra il mio cuore e il mio cazzo, mentre il cervello si era arreso, lasciando quei due a bisticciare, neutrale come nemmeno la Svizzera.
I piccoli seni di Lea erano perfetti per la danza, subivano la forza di gravità in misura ineguagliabile, piccoli sobbalzi di carne eleganti, né troppo né troppo poco.
E fui felice di notare che forse aveva preso qualche chilo, nei giorni che aveva trascorso con me, perché le costole non svettavano più come dita affusolate sotto la sua pelle chiara.
Lea quella sera era un miracoloso esempio di proporzioni ed equilibrio, incanto di muscoli e resistenza con due smeraldi e un velo di rubini a regalare brio al candore della sue pelle.
E quando si liberò delle mutandine, mi sentii sconfitto e risorto allo stesso tempo, figlio di puttana e figlio di un qualche dio allo stesso tempo. Miracolo e peccato, germoglio e frutto marcio: volevo godermi la mia bambina ma volevo anche farla smettere.
Non serve più. Ma continua lo stesso. Non devi. Ma voglio. Puoi fermarti. Ma preferisco che prosegui.
Non la fermai, non le dissi nulla, non le concessi niente. E probabilmente Lea non avrebbe mai interrotto la sua performance. Le piaceva danzare, non era un problema farlo senza vestiti. Non era quello che aveva paura di non poter fare, non era quello che l'aveva messa in agitazione. Quello che le avrei chiesto dopo... era quello che temeva di non saper fare con me altrettanto bene.
Avevo cercato di leggere il passato sul suo visino, poco prima, ma in quel momento leggevo fiducia e libertà. Tutte cose che nel suo passato erano mancate.
E allora balla, amore mio, e speriamo che questi quattro minuti siano lunghi come anni.
Quando Ne me quitte pas sfumò, Londra si insinuò di nuovo nelle mie orecchie e sotto la mia pelle. Ma Londra non aveva nessuna speranza di insidiare Lea che rimase nuda, in piedi, al centro del suo salotto a gestire il respiro un po' affannoso.
Si avvicinò al monitor, per vedermi meglio, i capelli scesero oltre le spalle a coprirle il seno, quando si abbassò verso il cellulare.
Non disse niente, aspettò.
«Te lo avevo già detto, bambina, e te lo ribadisco: le cose vengono meglio quando le fai con amore. Sei stata sublime, lo sai.»
Sorrise, compiaciuta.
«Ma devi proseguire, Lea.»
Il sorriso si spense un po'.
Sono un figlio di puttana.
«Non l'ho mai fatto così.»
«Lo hai fatto per anni, bambina.»
«Non così.»
«Così come?»
«Così...» i suoi occhi cercarono le parole sul soffitto. «... Non per lavoro.»
«Se vuoi ti pago e lo trasformiamo in un lavoro.»
Fece una smorfia contrariata. «Non intendevo quello.»
Lo so. Dimmelo.
«Cosa intendevi?»
«Intendevo... » stavolta gli occhioni verdi cercarono le parole sul palmo della mano. «... che dall'altra parte non ci sono mai persone che conosco.»
«Persone.che.conosci.»
«Hai capito cosa intendo.»
«No.»
«Stai mentendo per mettermi in difficoltà.»
«Sto mentendo perché voglio che gonfi il mio ego dicendomelo.»
Ne ho bisogno. Hai scopato con Denis. Ne ho bisogno.
La sua espressione divenne una fedele riproduzione del senso di colpa. Mi dispiacque, ma era giusto così.
Avvicinò il volto alla web cam.
«Va bene, Trevor Baker, carogna di Wall Street. Non ho mai fatto sesso on line con una persona di cui sono perdutamente innamorata.»
Assaporai ogni parola, mordendo con avidità la consolazione che generavano. Ero soddisfatto: Lea era una bugiarda da quattro soldi. Non aveva mentito. Ero uno stronzo rinfrancato.
«Bene, signorina Gessi. Ma se lei ha ascoltato la lezione, allora saprà ripetermi quello che le ho appena detto sulle cose che si fanno con amore...»
Si passò i denti sul labbro, cercando di intimidire un sorrisetto indesiderato, prima di rispondere. «Vengono meglio. Le cose fatte con amore vengono meglio.»
Impugnai di nuovo la mia asta di carne. «Bene la teoria. Adesso la pratica, Lea. Avanti.»
Si allontanò dall'occhio della cam, per consentirmi di vederla per intero. Ma quello che vidi fu una ragazzina che abbassava lo sguardo sul proprio corpo, improvvisamente incapace di accettare lo spettacolo.
Oh no, bambina. No.
«Lea...» le mie intenzioni criminali si incrinarono. «Sei il mio miracolo, bambina. Non c'è niente che non va in te. Niente.»
Tornò a guardarmi sul monitor. Non l'avevo convinta. Aggiustai il tiro, perché sapevo cosa stava pensando. Tutto sommato aveva anche ragione. «Per me. Non c'è niente che non va in te, in base ai miei canoni. Che sono gli unici che contano. Il mondo è ai miei piedi, bambina. Camminerò sulle tombe di Sebastain e dei Volkov. Possiamo farlo insieme. I miei canoni sono gli unici che contano. È chiaro?»
Si abbassò, adagiandosi sul pavimento. Aprì le gambe, e vidi il mio portale per il girone dei lussuriosi ammiccare attraverso il Tv. «Chiarissimo, signor Baker.»
Le sue manine si insinuarono tra le grandi labbra, carezze quasi caste, le dita come pallide stalattiti tra lingue di fuoco.
Bianca venere dai capelli rossi, sembrava una ninfa sbocciata dal nulla, dea dei capricci e custode d'innocenza, giocava con il suo clitoride con le labbra soggiogate dai denti, lo sguardo che implorava approvazione. Sottomessa al mio piacere, prigioniera del mio risentimento, mi offriva il suo godimento per accrescere il mio, baratto iniquo per quanto aveva concesso a Denis, peccato inevitabile, come inevitabile era la mia grazia nei suoi confronti.
Appoggiò una mano al pavimento, dietro la schiena, inarcando il torace e allargando le cosce per offrire una visuale migliore, mentre la carezza diventava penetrazione, dita minuscole nel suo canale che sapevo essere stretto, così stretto e così comodo da desiderare un ergastolo lì dentro.
«Chi può infilarsi lì dentro a parte te, bambina?»
Rispose con una vocina umida. «Tu.»
«Chi altro, bambina?»
Un piccolo sospiro traghettò la sua risposta. «Nessuno.»
«A chi appartieni, bambina? Attenta alla risposta.»
Ci pensò. Ricordò. «A me stessa.»
Sì.
«E a chi concedi il privilegio di toccarti come stai facendo tu?»
Le guance acquisirono un colorito rosato, sfumato come quello delle margherite in giugno. «A te.»
«Chi altro?»
Vidi le dita della mia cosina preferita luccicare, umide dei suoi fluidi incantevoli. Tornò ad accarezzarsi, stimolando il suo centro nervoso di piacere intimo. «Nessuno. Più nessuno. Mai più.»
Stavo guidando io, come sempre, con Lea. L'unica eccezione era stata sotto la doccia, dopo Viktor, quando aveva fatto tutto lei, cocciuta nel suo intento di sovrascrivere quello che le avevano fatto. Mi stava bene: se Lea voleva mettersi nelle mie mani, concedersi e affidarmi la sua volontà e il suo corpo, io ne avrei succhiato ogni beneficio.
Se il ruolo di Lea alla guida del sesso doveva essere sintomo di un trauma, frutto di un abuso, naturale conseguenza della dominazione da parte di un mostro, io avrei guidato il suo e il mio piacere finché a separarci non fosse intervenuta l'unica cosa che non potevo sconfiggere per sempre: la morte.
«Vuoi sapere che sapore hai, Lea?»
Si portò le dita alla bocca. La lingua dispettosa solleticò la punta del polpastrello.
Stretto nella mia mano, il cazzo ebbe un sussulto.
«Succo di mela...» rispose, con un sorriso affettuoso.
Sbagliato. «No, bambina. Quando c'è la mia lingua tra le tue gambe, quando sono io a leccare via il tuo generoso fluido, il sapore che sento è quello del nettare di una vita felice, strizzato da un'infanzia di giocattoli e torte di compleanno, adolescenza di vacanze e baci sulla spiaggia, maturità di passeggiate mano nella mano, vecchiaia di focolai e leggende per i nipoti. Tu hai il sapore della gioia di vivere.»
Abbandonò il tesoro incastonato tra le gambe e gattonò per avvicinarsi alla cam. Si leccò la bocca e sentii l'uccello gonfiarsi come un pesce palla, pronto a saltare in aria, desideroso solo di farlo dentro le labbra della mia bambina.
«E tu, Trevor Baker, hai il sapore della vendetta consumata, della giustizia divina, sei il boia dei torti subiti, e hai il sapore di un'Apocalisse truce che risparmia solo i tuoi fedeli.»
Porca.Puttana.
«Lea, appena torno devi nasconderti bene, perché io non lo so se puoi sopravvivere a tutto quello che mi hai fatto venire voglia di farti.»
Mi dedicò un sorriso storto, figlio di pensieri osceni e aspettative primordiali.
«Sopravvivo, Trevor Baker, carogna di Wall Street.»
Pronunciò il mio nome con la devozione di una sacerdotessa davanti al suo dio. Lea poteva farmi venire in mano anche solo parlandomi in quel modo.
«Dovrai prenderti cura del mio uccello, signorina, e dovrai farlo con la bocca che usi per trasformare il mio nome in una preghiera, perché finora le tue prestazioni orali sono al limite dell'insufficienza.»
Si morse di nuovo il labbro e guardò in cam come se potesse prenderlo in bocca da lì. Se l'uccello avesse potuto parlare, avrebbe gridato la sua frustrazione.
«Se vuoi una prestazione decente, mio sovrano delle sterline, devi lasciare che mi occupi di te senza mettermi le mani addosso. O la lingua. Non è colpa mia se mi spegni gli interruttori neurologici. Mi procuri un deficit motorio quando fai di me quello che vuoi.»
Quando fai di me quello che vuoi.
«Cristo, Lea...»
«Se mi lasci lavorare, signor Baker, posso accoglierlo in bocca senza soffocare...»
CazzoCazzoCazzoCazzo
«...anche se il suo volume ingombrante lascia poco spazio alla lingua. Ma posso sempre avvolgerlo con umide carezze quando mi concedi un po' di pace dalla tua invasione orale...»
Adesso vengo. Per forza.
«... ma gradirei, mio Zar della finanza illecita, che tu poi mi invadessi anche altrove...»
Si penetrò di nuovo con le dita, persi la capacità di parlare. Forse anche di respirare.
«... preferibilmente con la tua consueta arroganza, senza preoccuparti di farmi male, che tanto tutto quello che mi fai ha la capacità di farmi tremare le viscere e scuotere il mio sistema nervoso. Perché mi piace quando mi prendi, Trevor Baker, e mi piace se mi prendi nel tuo modo malato, riesumando il tuo diritto di farmi quello che ti pare, perché sei l'unico cui lo concedo. Ora e sempre.»
Sentii lo sperma ribollire sotto la pelle. Era fatta. Io ero fatto.
«Noi non siamo malati, Trevor Baker. Noi siamo la malattia. È il mondo che è malato. E generiamo sintomi mortali a ogni scopata, e mi piace. Hai innescato la cancrena, portiamoci via tutto. Tutto.»
Il cazzo eruttò con violenza, spruzzando soddisfatta virilità sotto lo sguardo lucido della mia bambina. Lo lasciai pompare fuori la sua furia, mentre Lea si accarezzava con provocante pigrizia.
La guardai inseguire il suo amplesso per qualche istante.
«Bambina, affonderai il tacco delle tue Luuboutin nei teschi dei Volkov. Sarai elegante anche mentre sfili tra le loro ossa. La mia regina.»
Una piccola pozza trasparente le si allargò tra le ginocchia. Le guance le si accendevano di un bel rosa cipria ogni volta che veniva.
La lasciai riprendere fiato. Ma conclusi la connessione con una promessa al confine della minaccia.
«Il prossimo che ti sfiora mentre stai ancora con me muore male, Lea.»
Fece un cenno con la testa.
«A Domani, bambina.»
«Ti amo, Trevor Baker.»
Era il saluto che speravo di sentire.
SPAZIO AUTRICE
Tutto chiaro? Sì? No? Boh.
Procediamo, che all'idea di sbrogliare i nodi mi viene già ma di testa. VA bene se quando sono in crisi sui capitoli che svelano i segreti vi distraggo con i capitoli hot, i capitoli "se la tocchi ti uccido", i capitoli "one bad only" e via discorrendo, vero?
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