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Capitolo X

Evangeline osservò per lunghi attimi la casa dov'era nata e cresciuta dal finestrino dell'auto di James, gli occhi lucidi a causa di lacrime che non si sarebbe permessa di versare, non finché non fosse stata sola. Nemmeno Jecky l'aveva mai vista piangere. Sospirò, rimandare non aveva senso.

"Non c'è un altro modo, vero?"

"No, mi spiace." James la studiò attentamente, ormai l'auto era posteggiata da cinque minuti, ma la ragazza non dava segni di voler scendere. Poi lei scosse la testa, levando lo sguardo dalla villetta di legno. Era una bella casa, osservò James. Sembrava accogliente e calda, con le tendine bianche di pizzo alle finestre, fiori sui davanzali e un'insegna in legno sulla porta che aveva intagliato sopra un allegro "Welcome!". La casa era circondata da un piccolo giardino ben curato, attraversato in mezzo da un vialetto in pietra. Su un albero era addirittura appesa un'altalena. Tutto gridava "Famiglia! Ricordi felici! Amore!". James provò una fitta al cuore ripensando alla propria infanzia, in un ambiente ben più tetro e freddo, senza amore, senza legami. E riuscì a comprendere un po' di più le difficoltà di Evangeline nel dire addio alla propria famiglia.

"Okay, facciamolo." Disse improvvisamente Ev buttando fuori il fiato e aprendo la portiera senza darsi il tempo di ripensarci. Una volta fuori rabbrividì e non seppe dire se per l'aria fredda o per il freddo che sentiva dentro di sé.

James la seguì a ruota fuori dall'auto e poi su vialetto, le mani nelle tasche dei jeans. Evangeline sembrò titubare ancora un attimo davanti al "Welcome!", ma poi afferrò decisa la maniglia della porta d'ingresso ed entrò, facendogli cenno di entrare a sua volta. La prima cosa che colpì James fu il profumo di biscotti cotti nell'aria e un'appendi giacche in ingresso che riportava quattro nomi: Thomas, Melanie, Evangeline e Sophie. Sorrise istintivamente, nonostante dentro di sé pensasse al diabete che piano piano iniziava a comparire ad ogni passo che faceva in quella dolce e zuccherosa casa. Sembrava fatta di pan di zenzero.

"Thomas e Melanie sono i miei genitori. Sophie invece è mia sorella minore." Disse sottovoce Evangeline notando che il ragazzo si era soffermato a guardarlo. Si portò le dita alle tempie che prese a massaggiarsi la fronte frustrata, in un gesto stanco. "Ma', sono tornata!" esclamò poi.

"Bentornata tesoro!" rispose una voce dolce, seguita dall'arrivo di una donna sui quaranta, quarantacinque anni, piuttosto bassa, più di Evangeline, e grassottella, dalla pelle chiara tempestata da piccole lentiggini come quella della figlia. Un sorriso amorevole le adornava il viso creandole due piccole fossette sulle guance. Lo sguardo però perse un po' di sicurezza quando scorse la figura alta di James. Ma la donna governò bene lo stupore e gli rivolse un sorriso di accoglienza che lui proprio non si aspettava. Non era mai stato il classico ragazzo da "ti presento i miei domani!", anzi, non era mai stato il classico ragazzo con una fidanzata, quindi non capiva come la madre di Evangeline, davanti a un 23enne potesse essere così dolce. Di pan di zenzero appunto. Quasi surreale.

"Oh emm, mamma lui è James. James, mia madre." Balbettò Evangeline realizzando solo in quel momento che sua madre avrebbe, e effettivamente aveva, pensato che James fosse il suo ragazzo o qualcosa del genere. Oh no.

"Piacere, io sono Melanie." Si presentò la donna porgendo la mano al ragazzo che la strinse imbarazzato.

"Mamma, c'è anche papà a casa? Dovrei parlarvi" chiese Ev alla madre a cui si incupì lo sguardo, iniziando a pensare il peggio. Che la figlia volesse presentarle un ragazzo, ok, ma che le dovesse parlare, e in più c'era un ragazzo di mezzo, voleva soltanto dire guai in vista.

"Certo, lo sai che il venerdì torna prima dal lavoro. Com'è andata la partita?" Melanie rivolse uno sguardo tagliente a James, che iniziò a chiedersi perché diamine non se n'era rimasto in macchina a farsi i fatti suoi. Evangeline avrebbe benissimo potuto sbrigarsi tutta questa faccenda da sola, e invee no, il galante James deve sempre mettersi in mezzo e aiutare le donzelle in difficoltà, anche se per la loro differenza di età, non riusciva proprio a considerarla una potenziale ragazza. Al massimo una potenziale sorella. La donna fece loro strada verso il salotto dove presero posto, James su una poltrona e Ev e sua madre sul divano.

"Bene, abbiamo vinto" le rispose Evangeline senza però alcun entusiasmo, cosa che non sfuggì all'orecchio attento della madre, che iniziò a rivolgere sguardi sempre più sospettosi, e preoccupati, ad entrambi i giovani.

Il padre di Ev entrò in salotto qualche secondo più tardi, chiamato precedentemente dalla moglie.

"Thomas, lui è James. Siediti, Ev ci deve parlare." Il padre, un uomo alto dal volto serio ma lo sguardo dolce, non sembrò capire bene la situazione e prese posto sull'altra poltrona piuttosto confuso.

Evangeline guardò James e annuì. Avevano deciso in macchina durante il tragitto dallo stadio alla casa cosa avrebbero fatto. James avrebbe manipolato i neuroni della memoria dei genitori di Ev, in modo da far registrare come vera qualsiasi cosa avrebbe poi detto loro la figlia. In realtà non era molto sicuro di poterci riuscire, ma con l'energia ci sapeva fare e i neuroni sono appunto cellule nervose, elettriche. Per lo meno questo era quello che le aveva detto il ragazzo, lei non aveva la più pallida idea di quello che stava per fare. Dopo di ciò, Evangeline avrebbe raccontato loro la scusa che si erano inventati per giustificare la sua prossima assenza, che sarebbe potuta durare qualche settimana così come qualche mese. James, accasciandosi al muro dietro i genitori, prese un bel respiro e si concentrò, lasciando che il suo potere rilevasse ogni tipo di energia presente nella stanza, distendendo i muscoli, concentrandosi solo sul calore che sentiva attorno a sé, richiamandolo. Un lieve odore di cacao pervase la stanza, mentre un alone dorato si propagava superficialmente sul suo corpo e anche su quello delle sue vittime, sentendo la loro debole energia. Dai suoi capelli uscivano piccole scie dorate che risaltavano sullo sfondo scuro, mentre i suoi occhi si schiarivano sempre di più. Sentiva attorno a sé un potere enorme, poteva fare ciò che voleva di quelle due vittime ma usò un briciolo della propria forza per decidere cosa voleva che quell'energia facesse. Glielo ordinò, e lei ubbidì scattante, disperdendosi in lampo, lasciando solo una debole traccia. Riaprì gli occhi che aveva chiuso per concentrarsi meglio.

Sicuro del proprio operato, piegò la testa per incitare Ev a parlare.

"Mamma, papà" cominciò lei con voce rotta, che contrastava al tono allegro ed entusiasta che stava cercando di trasmettere ai suoi. "Mi hanno presa per un corso di preparazione per l'università. Negli Stati Uniti, stato di Washington per la precisione. Si tiene in un liceo molto prestigioso, finirò lì il mio anno scolastico. Il trasferimento è già stato fatto ed è tutto pronto, parto oggi stesso."

"Oh tesoro, è una notizia fantastica!" commentò la donna con voce allegra, un'espressione felice e persa sul volto, come se avesse appena fumato.

"La tua istruzione viene prima di tutto" confermò il padre con lo stesso sguardo allucinato della moglie.

Evangeline deglutì, cercando di scacciare la spiacevole sensazione del groppo in gola. Si alzò tremante dal divano. Abbracciò prima la madre, poi il padre. Era tutto molto assurdo. La reazione dei suoi genitori, cui menti erano manipolate da James, gli addii non detti in quegli ultimi abbracci. Si morse l'interno guancia mentre si sforzava di non piangere. James le aveva detto che per far venire al meglio quella messa in scena maledetta avrebbe dovuto mostrarsi sorridente, entusiasta, come se fosse davvero una ragazzina prossima a lasciare il nido per seguire i suoi sogni. Così costrinse i muscoli della faccia a piegarsi in un sorriso, che fece a pugni con gli occhi lucidi e il pallore sul viso. Si costrinse a blaterare di corsi di studio inesistenti, di nuove amicizie, di quanto non vedesse l'ora di partire. Spacciò James per il tutor che l'avrebbe guidata nei suoi studi in America. E i suoi genitori allegri e felici, entusiasti per la bella occasione che aveva avuto la figlia, ignari della realtà che si celava dietro quell'ammasso di menzogne.

"Ok, così può bastare." Disse piano James. Evangeline annuì a occhi chiusi, le mani strette a pugno. Con un gesto della mano, richiamando l'energia appena dispersa, James lasciò andare le menti dei due genitori che crollarono addormentati sul divano, mentre i suoi capelli ritornavano del suo normale colore "Raccogli le tue cose. Io ti aspetto in macchina, prenditi tutto il tempo che ti serve." Disse comprensivo prima di uscire dalla stanza.

La ragazza si lasciò sfuggire un singhiozzo, per la prima volta sola, e si concesse di piangere. Le lacrime le rigarono copiosamente il volto teso e pallido mentre si accucciava davanti al divano, accarezzando il volto paffuto della madre.

"Mi dispiace" singhiozzò "mi mancherai ma'" le diede un bacio sulla fronte. Diede un ultimo abbraccio al padre, poi lasciò quasi correndo la stanza. Andò al piano di sopra ed entrò nella cameretta della sorellina, che stava facendo il suo pisolino pomeridiano. Una delle cose che le aveva insegnato sua mamma quando Sophie era appena nata era che non si doveva mai svegliare un bambino piccolo quando dormiva, ma adesso sua sorella aveva tre anni. Era piccola, ma non troppo. La svegliò piano, nuovamente sorridendo fra le lacrime.

"Ehi cucciola, sveglia" disse dolcemente. La bimba si svegliò piano, stiracchiandosi e prendendosi un profondo sbadiglio, con le braccia tese sopra la testa e le manine chiuse a pugno. Aprì gli occhioni, così simili a quelli della sorella maggiore e si aprì in un'enorme sorriso, seguito da una risata argentina, fresca come l'aria di primavera.

Evangeline la prese in braccio tirandola fuori dal lettino e la strinse a sé, accarezzandole dolcemente la testolina bionda. Le scoccò un bacio sui riccioli ribelli e si preparò a dirle addio, ma un magone le serrò la gola quando la sorella esclamò "Papunpel!". Strinse gli occhi scacciando le lacrime e sospirò. "Sì, Papunpel" mormorò "Ti voglio bene, Sophie. Tantissimo, più che a chiunque altro a questo mondo. Ricordatelo"

Ricordami

Le diede un altro bacetto, stavolta sulla fronte e la rimise nel lettino, sfiorandole con un buffetto la guancia rosea, cercando di lasciarle qualcosa, qualsiasi cosa che potesse farle ricordare la sorella maggiore. Ma lei non era James, non era ancora stata Risvegliata e la sua piccola sorellina non poteva capire. La piccolina aveva percepito qualcosa perché si era fatta più seria, meno giocosa, e la guardava con uno sguardo triste e interrogativo. Ev non resse più, e lasciò la stanza.

Tirò giù la scala di legno che portava alla sua camera-soffitta e salì di corsa i gradini. Afferrò furiosamente lo zaino gigantesco che Jackie le aveva regalato per il suo compleanno qualche mese prima, uno di quelli zaini che si usano per i viaggi intorno al mondo. Più che uno zaino, era una promessa del viaggio che avrebbero fatto lei e Jackie dopo il diploma. Un'altra cosa a cui Ev avrebbe dovuto rinunciare dato che doveva in qualche strano modo salvare il mondo. Si sentì in colpa, perché non aveva pensato granché a Jackie mentre diceva addio alla propria famiglia, ma non avrebbe sicuramente retto un altro addio. Avrebbe pensato più tardi a inventarsi qualcosa. Ma era certa che Jacks l'avrebbe odiata.

Jeans, t-shirt, felpe, assorbenti, spazzolino, mutande... in fretta cercò di afferrare tutto ciò che le sarebbe servito anche se non sapeva come regolarsi. Quanto sarebbe stata via? Non lo sapeva, non glielo aveva saputo dire neanche James. Chiuse lo zaino, temendo di aver preso troppo e troppo poco allo stesso tempo, poi come un fulmine scese le scale e uscì dalla casa.

Non si girò indietro prima di salire in auto.

James la stava aspettando, e appena fu salita partì, sapeva bene che per certe cose valeva la stessa regola dei cerotti: uno strappo secco e rapido e speri faccia meno male. Per un po' il silenzio regnò sovrano, Ev era troppo scossa e James che cercava di darle i suoi spazi, il suo tempo o forse era semplicemente troppo a disagio, senza saper bene cosa dire o fare per farla stare meglio. Lei intanto si era appoggiata con la testa al finestrino e osservava il paesaggio che conosceva così bene scivolare via, finché le strade non divennero meno note e la sua città ormai lontana.

James accese la radio sperando in un intervento divino, o per lo meno una canzone divina, dato che quel silenzio lo stava devastando. Alla radio partì Feeling Good dei Muse. Oh cazzo. Una canzone che parlasse di una nuova alba, di un nuovo giorno non era proprio adatta e subito si preparò a cambiare stazione radio.

"No, lasciala. Mi piace questa" lo frenò la voce sottile di Ev, che gli arrivò talmente piano che parve arrivargli da chilometri di distanza e non da qualche centimetro. Le lanciò un'occhiata fugace. Un sorriso, per quanto amaro, le era apparso sul volto alle parole della canzone e ad un certo punto si mise pure a cantare, maledettamente stonata. Persino più di lui.

Birds flying high you know how I feel
Sun in the sky you know how I feel
Reeds drifting on by you know how I feel

Its a new dawn
its a new day
Its a new life
For Me
And im feelin good

Fish in the sea you know how I feel
River running free you know I feel
Blossom in a tree you know how I feel

Its a new dawn
Its a new day
Its a new life
For me
And Im feelin good

Poi la canzone finì, e con lei sparì il sorriso sul volto di Ev. Ma a James intanto era venuta un'idea per farla stare meglio. Molto più di una canzone che le sbattesse in faccia che la sua vita aveva preso un'altra piega. Oddio, non che fosse poi un'idea geniale, ma meglio di niente. Fece inversione, beccandosi uno sguardo interrogativo da parte della ragazza in depressione acuta. Tornò indietro di un qualche centinaio di metri e parcheggio davanti a un locale con una vecchia insegna luminosa che riportava "Aunt Lola Pies".

"Forza, una bella fetta di torta al limone è quello di cui hai bisogno. Soprattutto se con una generosa dose di gelato."

James non sapeva bene cosa aspettarsi da quella sua uscita, ma di certo non lo sguardo da ma tu sei scemo che gli rivolse la ragazza. Che divenne uno sguardo da oh mio dio ma questo non ce la fa proprio quando vide che era serio. Ev scese svogliatamente dall'auto. No, non era una fetta di torta rancida servita in un locale vecchio e decadente quello che le ci voleva. Seguì a testa bassa James nel locale, vuoto esattamente come si aspettava.

Lo stile del locale sembrava rimasto fermo agli anni '50, e James si sedette su uno dei tanti tavoli vuoti. Una cameriera sulla cinquantina, scorbutica, prese l'ordinazione che James scelse per entrambi.

"Due fette di torta al limone con gelato e due caffè, grazie"

Evangeline aspettò che la donna si fosse allontanata prima di parlare

"Davvero, James. Non ho fame."

"Non serve aver fame per mangiare una torta." Replicò lui

"Per i dolci c'è sempre spazio. E sai perché? Perché non vanno allo stomaco, ma direttamente al cuore!" era quello che le diceva sempre Jackie il sabato sera, quando si vedevano per una serata-cinema, ma anziché andare al cinema rimanevano a casa dell'amica a guardare un film davanti a una bacinella di gelato con pezzi di brownies dentro. E quando i genitori di Jackie non c'erano, in quella bacinella finiva pure del rum. Evvai, un'altra cosa a cui dire bye bye. Yee. Si disse sarcastica Ev.

"l'ho già sentita questa."

La fetta di torta immersa dal gelato e accompagnata da una tazza di caffè americano fumante non tardò ad arrivare. Forse la torta non le andava. Ma il caffè, o per il caffè c'era sempre spazio.

"anche a me piace il caffè. Mia mamma diceva sempre che un buon libro con una tazza di caffè potevano risollevare il morale delle persone, ma dato che non ho voglia di darti un libro e aspettare, ho deciso di sostituirlo con un pezzo di torta al limone, la mia preferita" iniziò a parlare James, omettendo il fatto che il suo dolce preferito fosse il tiramisù, che ovviamente non voleva prendere in quel bar per paura di quello che gli avrebbero portato

"grazie" rispose Ev sussurrando, concentrandosi sul liquido nero nella tazza, rattristando il ragazzo davanti a lei, che non sapeva come comportarsi davanti a una situazione del genere

"bello zaino" continuò quindi, cercando un argomento di conversazione che potesse distoglierla dai suoi pensieri tristi

"grazie, me l'ha regalato la mia migliore amica dato che vogliamo partire per l'Europa questa estate. O per lo meno, volevamo" gli occhi le si incupirono velocemente, mentre ripensava a ciò che stava perdendo.
Che idiota che sono. Pensò, dandosi mentalmente uno schiaffo. Prendendo con due mani il caffè davanti a sé, cerco un altro argomento di cui parlare, doveva assolutamente risollevale il morale, altrimenti non avrebbe retto 7 ore di volo.
Pensa. Pensa. Pensa idiota! E finalmente gli si accese una lampadina sulla testa

"Europa? Non preoccuparti non è granché, anche io e il mio amico Nathan volevamo andarci ma dato che ci siamo dimenticati di fare il passaporto, ci hanno fermato alla dogana. In compenso siamo partiti per la California, dove abitano i suoi." Riprese spavaldo ripensando all'aneddoto che stava per raccontare. L'avrebbe fatta ridere di sicuro.
In compenso la ragazza alzò gli occhi e lo guardò sorpresa, ma soprattutto incuriosita dalla sua faccia divertita, incitandolo a continuare il discorso

"proprio prima di prendere il volo, dato che eravamo gli ultimi a imbarcarci, siamo rimasti seduti con i nostri bagagli a mano davanti al gate, quando vediamo dei poliziotti con un paio di pastori tedeschi che si dirigono verso di noi." Iniziò a raccontare, cercando di non ridere

"Ovviamente non stavamo facendo niente di male, guardavamo soltanto le ragazze che passavano, inventandoci modi per farci avanti, alla Barney Stinson, peccato che i cani non la pensavano proprio allo stesso modo: hanno iniziato a ringhiare verso di noi e verso il borsone di Nathan, mentre i poliziotti ci perquisivano chiedendoci che cosa avessimo nascosto. Il povero Nathan era terrorizzato, non sapeva cosa fare, era rimasto lì, fermo e immobile mentre io cercavo di capire cosa stava succedendo. Uno dei cani, non so perché, era agitatissimo, una furia, ha preso lo zaino con i denti e l'ha ribaltato tutto, mentre l'altro ringhiava contro di noi! Persino i padroni erano rimasti scioccati! Fatto sta che i due hanno azzannato il povero zaino, riducendolo in brandelli, per trovare ciò che li infastidiva. Ed era un panino." Ev, a questa frase, scambiò la propria faccia spaventata con una molto, ma molto confusa, non aveva idea di che cosa stesse parlando, e soprattutto non riusciva a crederci.

"Un orribile e puzzolente panino al tonno che quell'idiota si era dimenticato in borsa! Devi sapere che lui li considera dei panini speciali, con una sua preziosa ricetta, peccato che già fanno schifo così, pensa dopo due settimane! E niente, siamo rimasti così, il mio amico pallido, io che ero davvero in procinto di ucciderlo, i poliziotti che si scusavano e i cani che volevano quasi strapparsi il naso!" Finì di raccontare James, tra le risate della ragazza, triste per il suo amico ma anche grato e sollevato per il sorriso radioso della ragazza. Era certo di riuscire a farla ridere. Non tanto certo all'inizio ma sapeva che Nathan, anche se non era presente, faceva ridere tutti, era la sua specialità.

E rimasero così, a raccontarsi aneddoti divertenti, a sorseggiare il caffè e a gustare la squisita torta, aspettando il momento per partire per l'Islanda, consapevoli della bella e profonda amicizia che stavano creando.


......



Dall'altra parte del mondo, Rebecca era in piedi sul tetto di un edificio abbandonato, in equilibrio, con le braccia aperte e gli occhi chiusi, intenzionata a rafforzare il controllo sui suoi poteri, sotto lo sguardo attento di Horus.

Egli, senza distogliere la propria attenzione dalla ragazza, che ogni giorno diventava sempre più forte, si incamminò verso di lei, indicandole con un gesto la fine dell'allenamento. Rebecca, stanca e spossata lo raggiunse con gioia, ma vide nei suoi occhi qualcosa di diverso da ciò a cui era abituata, ma, una volta raggiunto, l'unica cosa che disse fu:

"stanno arrivando" 

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